Il Teatro fuori dal Teatro (2017)
Ovunque ci sia una storia da raccontare c’è lei: Isabella Dilavello, attrice e autrice in
grado di dar vita alle parole, di portare il Teatro fuori dal Teatro. Perché una storia
per essere raccontata non ha bisogno di un luogo fisico ma di quella chimica che si
crea tra chi recita e chi fruisce, tra attore e spettatore, ovunque ci si trovi. Da questa
interazione scaturisce la vera magia del Teatro, fino alla fusione delle parti. La
sensibilità espressiva di Isabella le consente di padroneggiare testi estremamente
complessi e viverli nel suono della voce, nei movimenti del corpo. Teatro e ricerca
aderiscono alla perfezione e questa perfezione si manifesta ovunque vi sia la
possibilità di intrattenere, seducendo il cervello di chi si ferma ad ascoltare.
Abbiamo intercettato Isabella Dilavello, durante una sosta, cercando di cogliere i
suoi passaggi, i suoi spostamenti; cercando di curiosare nel suo vagare, perché di
questo si tratta, di vagare… di errare… la sua vita… la sua arte…
Isabella tu sei di Roma ma è difficile pensarti in un luogo ben preciso… che
rapporti hai con la tua città natale?
Da bambina dicevo di soffrire della sindrome del piccione viaggiatore, con la
necessità di allontanarmi, andare, portare qualcosa (una storia, una visione, un
desiderio?) lontano e poi tornare a casa. Il problema era ed è, che io non so cosa
chiamare casa. E allora dove torno? Sono nata e cresciuta a Roma, da padre pugliese
e da madre abruzzese, con il vento di mare nelle ossa e la continua attrazione per le
onde. Stranamente al mare non ho mai vissuto, salvo le vacanze estive. Ma è lì che
vorrei morire. Per questo mi sento una errante, anche se passo lunghi periodi
stanziali, lunghissimi, come adesso. Eppure non appartengo mai al luogo in cui sono
e raccontare storie è sempre aprire una finestra, la porta, l’immaginazione per
accogliere quella cosa lì che ancora non so, non ho visto, conosciuto … vagante fino
alla fine.
… E il tuo vagare ti ha portato a fermarti a Verona da un po’ di tempo… c’è
qualcosa di magico in questa città che ti ha attirato?
Ora sono a Verona, sì, da tanti anni. Ci sono arrivata per caso e per disamore. Ed è
buffo a pensarci, visto che per tutti Verona è la città dell’amore, benché debba la
sua fama agli amanti più tragici di tutti i tempi. Magia? Verona potrebbe davvero
essere magica, con il fiume che ne cambia la forma e i colori, con un centro storico
che commuove, con una provincia fatta di colline e lago, di vigneti e ciliegi. Ma poi a
viverci finisci per scontrarti con quello che non si vede e cioè con il suo essere ruvida e scontrosa, una bella signora di provincia, restia alle novità. Se solo si rendesse conto di quanto è bella e quanto più potrebbe essere, sarebbe una esplosione. Mi
chiederai: perché ci resti allora? Perché c’è una Verona che resiste, un po’
sotterranea, che mi somiglia, perché mi è capitata qui la fortuna di cominciare un
percorso di teatro in carcere che merita tutta la fatica per farlo e ancora non ci
voglio rinunciare. Ma non sarà per sempre.
Riesci a portare il Teatro dappertutto, anche in carcere… deve essere
un’esperienza dura da metabolizzare…
Non l’ho ancora sviscerata in modo lucido e razionale. È una roba tutta emotiva,
fatta di ingressi e portoni chiusi alle spalle, sguardi dolorosi, storie assurde, tempi
impossibili, sensazioni di gabbia, mutazione del concetto di giustizia e pena,
sospensione affettiva, sospensione di giudizio, percezione del rifiuto da parte del
mondo fuori dell’esistenza di quel mondo dentro…
Anche se l’argomento è interessante comprendo quanto sia difficile parlarne e
allora cambiamo contesto, curiosando un po’ sul come è nata la tua idea di fare Teatro…
Confesso, ho perso un po’ di tempo nella formazione. E quando mi sono decisa, era
troppo tardi per provare ad entrare in Accademia, ma non proprio tardi per ogni
cosa. Quindi, sono andata a bottega. Devo davvero quasi tutto quello so di Teatro a
due veri maestri, Guido d’Avino per la fatica e il sudore e l’incertezza e le domande,
ma soprattutto per la felicità e la grazia. Poi Monica Giovinazzi, attrice, regista e
performer: con lei ho risposto alla domanda “cos’è che vuoi dire davvero quando ti
esponi, nuda al mondo?”, ed è cresciuta la mia idea del Teatro, un teatro come
generatore di dubbi, un osare il confine. E, in un’epoca di confini che si fanno muri e
filo spinato, questo diventa atto politico. Ma per me sono maestri tutti coloro dei
quali ho amato ogni lavoro e scelta poetica, come Peter Brook o Claudio Morganti,
per fare due nomi su tutti (ma sono tanti, tantissimi).
Teatro e superamento dei confini, attraverso la parola, non c’è niente di più
affascinante… Stai lavorando come autrice, insieme al musicista Enrico Breanza, ad
uno spettacolo che si chiama: “Fuori da queste ore faziose”, incentrato sulla parola
e sul suono della parola in continua trasformazione… ce ne vuoi parlare?
“Fuori da queste ore faziose” nasce dalla necessità di fermarsi. Sia io che Enrico
Breanza riflettevamo su quanto intorno a noi sia pressante di richieste, di urla, di
barricate, di posizioni da prendere (chissà quali), soprattutto “contro”. Volevamo
confrontarci con un “Con” … con il corpo, con la voce, con il suono. A favore di …
quando si è a favore, si crea una risposta, un dialogo. Così io mi ritrovo a dialogare
con il suono della chitarra di Enrico, ne amplifico i movimenti e ne vengo smisurata.
La parola lascio che si apra. Io sono convinta che le parole che scegliamo di dire rappresentino qualcosa, ci rappresentino. E lo fanno in relazione al modo in cui la
diciamo. La parola usa il corpo e il corpo usa la parola. È una questione fisica, un
esperto del suono te lo saprebbe spiegare meglio, il corpo è cassa di risonanza. Il
suono esce da lì, si espande e incontra, sbatte su ciò che trova di fronte. Un muro, le
persone, corpi. Torna indietro. Lo senti ovunque. Dal punto di vista emotivo potrei
dire che accade lo stesso, il peso e il significato di ogni parola incontra la sensibilità
e i ricettori di chi ascolta. E io che ne raccolgo il ritorno ne vengo modificata,
comprendo altre cose, la parola stessa si evolve. Al principio di “Fuori da queste ore
faziose” gioco con le parole DECADENZA e MALEVOLENZA, inevitabilmente colgo più
indulgenza sul suono della decadenza. Retaggio poetico, credo …
Bello il concetto del corpo come cassa di risonanza della parola… La tua ricerca
sulla parola, appunto, ti ha portato a concentrarti sulle storie di donne. Donne
complesse… le partigiane con le armi in pugno o con sensibilità di poeta come
Amelia Rosselli.. Si tratta di affinità o…? Quanto conta l’essenza femminile oggi?
L’affinità è nella complessità, forse. Le donne delle quali scrivo e che poi interpreto
entrano nel mio immaginario per la loro esistenza sul bordo, per le loro scelte che
pongono un problema alla società che le guarda, per il loro corpo offerto alla vita.
Amelia Rosselli è poeta con una lingua difficile e potente, il “giogo della mia inferma
mente” diventa poesia, la sua paranoia diventa poesia, il suo passato e l’eredità di
un padre anarchico e assassinato dai fascisti diventano poesia, il desiderio e la
musica diventano poesia, ma così facendo apre squarci sulla sua fragilità ed è quel
dualismo, fragilità e potenza, che provo a raccontare, fino a quel suo ultimo volo a
testa in giù. E credo sia la stessa cosa anche quando metto in scena “Con vestiti
leggeri”, partendo dalla vicenda di Rita Rosani, partigiana combattente, ebrea,
morta sui monti veronesi per un agguato fascista, morta imbracciando un fucile. In
lei c’è tutta la fragilità e la potenza della gioventù e di una donna innamorata. Ma un
amore in guerra fa vergogna, una donna armata fa vergogna e non si alzi il
sopracciglio al mio uso del presente verbale: fa ancora vergogna. Ora ho appena
iniziato ad avvicinarmi a Janet Frame, e mi trovo di fronte ancora una volta a fragilità
e potenza, di fronte a “latte, panni e spazzatura”. Fragilità e potenza. Vedo così
l’essenza femminile. E forse qui risiede la necessità di non nasconderla. Ci viene
spesso negata e questo in generale: è difficile da digerire che si possa essere forti se
ci si può rompere. Eppure si può. Eppure si deve. Eppure sarebbe un passo avanti
nell’umanità. Eppure se anche l’uomo capisse che se ci spezziamo non significa necessariamente che lo si debba fare, i rapporti ne uscirebbero sani.
Il tuo modo di fare Teatro è perfetto per comunicare a livelli più profondi; è
molto legato alla fatica, alla ricerca che è un vero e proprio lavoro, ma poi, in
realtà, in questo periodo storico, è sempre più difficile vederselo riconosciuto…
Ho scelto di essere ai margini. Mi spiego, ho scelto di fare un teatro senza inserirmi
nelle logiche dei premi, dei bandi, dei fringe, delle commissioni cultura, dei giochini
degli assessorati e dei comuni. Di questo inevitabilmente si paga il prezzo. Perché se
non partecipi a questa giostra, praticamente non esisti. Se sei indipendente, se hai
storie tue e nessuno che ti mette un timbro, sei trasparente. Quindi ogni volta che
c’è un pubblico di 50 persone, per me è un successo paragonabile al sold out del
Teatro Argentina. Poi mi capita di confrontarmi con altri attori e registi, che magari
un po’ invece ci stanno dentro e hanno comunque difficoltà a farsi pagare, a vedere
riconosciuto il loro lavoro. E se poi andiamo a vedere come funziona davvero il FUS
(fondo unico per lo spettacolo), si capisce che è un sistema assurdo e incompetente.
Per dirla con le parole di Roberto Latini, “ma perché la mia capacità teatrale, se ne
ho una, deve essere mortificata dalla mia capacità di sopravvivenza? “. Io sono
dell’idea che dovremmo smetterla di aderire al sistema, smontarlo, rivoluzionarlo,
rifiutarci di stare al gioco… forse davvero non è possibile senza radere al suolo tutto.
Compresa me.
Se non ci fosse il Teatro ci sarebbe, comunque, la scrittura. Sei autrice, infatti, di
alcuni racconti, firmati con uno pseudonimo. Questa volta il tema è l’eros, ritratto
in due intensissimi momenti, captati con sensibilità e attenta curiosità… e mi viene
da chiedere quanto è importante il corpo in questo periodo virtuale?
Oh! Ma come si può prescindere dal corpo? Anche quando lo martoriamo, lo
neghiamo, lo condanniamo, il corpo è lì a metterci o a toglierci dall’imbarazzo. Il
virtuale da un lato mette dei filtri e ci protegge (dall’essere visti come realmente
siamo, dal toccare e dal farci toccare), dall’altro ci espone al pubblico ludibrio. La
guerra al corpo si è fatta più crudele. Anch’io ho la mia battaglia con lui. Ma al
corpo, bene o male, anche se solo alla fine e nella morte, torniamo sempre. Scrivere
racconti erotici (entrambi nella raccolta Hot Stuff edita in formato Ebook da
Simonelli Editore) è stato un modo per portargli delicata attenzione e non solo in
relazione al sesso. Se ne può scrivere e parlare senza svilirlo, senza umiliarlo. Farci
pace, almeno ogni tanto.
Sembra che questo rapporto complicato con il tuo corpo non t’impedisca,
comunque, di provare gioia in vita e in scena. Ma non c’è soltanto il Teatro, hai
fatto anche un film, perché non ci racconti qualcosa?
A marzo 2017 è uscito nelle sale Per un figlio, primo lungometraggio di un giovane
regista italo srilankese Suranga D. Katugampala, già menzione speciale al festival
internazionale del cinema di Pesaro. Quando Suranga mi chiese di prendere parte a
questo film low budget credo di aver accettato soprattutto per i suoi modi e i tempi
dilatati. Poi… la storia, non è un film sull’immigrazione e l’integrazione, per quanto
lo sia. È lo scontro generazionale genitore/figlio, è la solitudine, è l’abbandono. È
l’universale nel particolare. Dal punto di vista recitativo, è stata una esperienza fatta
di lunghe attese, di profumo di spezie, di tempi espansi, di fierezza del farne parte
http://www.perunfiglio.it/
E in ultimo, per salutarci con qualcosa che inviti ancora alla riflessione ti vorrei
chiedere: quanto è importante la parola in questo periodo storico dominato
dalla comunicazione globale?
Recentemente ho letto un articolo in cui si evidenziava il numero di parole
realmente usate d’abitudine, partendo dal vocabolario base comune a tutti di circa
6.500 lemmi: sono 2.000, tutte sempre più semplici. Certo, qui si parlava non di
tecnici, o letterati e filosofi, per quanto poi anche il loro vocabolario si stia
restringendo al settoriale: si parlava delle persone nella quotidianità. La
semplificazione regna nell’epoca della comunicazione globale. Chissà, magari è per
via della fretta di questa comunicazione, è per quell’illusione di poter essere capiti
facilmente. Il fatto è che ci stiamo impoverendo, anche e soprattutto in capacità di
comprensione. La descrizione di un qualcosa che ci ha emozionato, di un incontro, di
una qualsiasi cosa ci appaia importante da condividere, non può ridursi a un nome e
un aggettivo, non riusciremmo mai così a ricreare e a passare a un altro quella
sensazione. Io credo sia responsabilità di noi tutti che in qualche modo ci occupiamo
di comunicazione, la parola. Dovremmo averne cura.
Io ti ringrazio per la tua essenza di attrice e autrice che fa ancora dell’impegno una
passione e una professione e riesce a trasmetterla a chi ascolta…
Posso ringraziare pubblicamente te in particolare per l’attenzione e per la
possibilità di avere una voce, in modo diverso dal solito?