Quando si parla di Ignazio Buttitta, sorge spontanea l’associazione mentale con la poesia e con il dialetto; il dialetto siciliano inteso come lingua. Forse Buttitta è uno degli ultimi poeti ufficiali ad essersi espresso solo ed esclusivamente in siciliano; la lirica dei suoi versi nasce dal verso idiomatico parlato. Il modo di porgere la parola, la musicalità, il ritmo e le metafore, tutto quanto, un naturale flusso tra scritto e declamato; più che declamato, cantato. Qualcosa che ha dentro, che ha urgenza di comunicare e lo fa con la lingua più intima, immediata, del cuore, dal cuore.
Ignazio Buttitta è poeta sin da subito, già da bambino, forse per compensare le carenze affettive di genitori che devono fare i salti mortali per mantenere la famiglia.
Scrive sempre, quando può, nel poco tempo libero o di notte, anche se deve lavorare nella salumeria del padre a Bagheria, anche se deve rispondere alla chiamata alle armi e partire per il fronte durante la prima guerra mondiale.
Con il passare degli anni, nonostante le difficoltà, il suo interesse e la sua attività culturale si fanno sempre più intense. Per lui cultura e impegno sociale vanno di pari passo; collabora con gli intellettuali locali, fonda delle riviste, sempre a sostegno dei diritti del popolo oppresso.
Ha soltanto ventiquattro anni quando esce la sua prima silloge “Sintimintali”, nel 1923, ma sono anni convulsi, tra manifestazioni, sommosse popolari, gli arresti, l’adesione al partito comunista e l’impegno in prima linea nella lotta al fascismo. Il pensiero ottenebrante della dittatura lo obbliga a chiudere la rivista “La trazzera” per attività antigovernativa.
Costretto a lasciare la Sicilia per salvaguardare se stesso e la sua famiglia si trasferisce in Lombardia e affianca la resistenza partigiana delle Brigate Matteotti. Dopo la guerra, nell’impossibilità di tornare a lavorare a Bagheria, è obbligato a trovare lavoro a Codogno come rappresentante, ma ha la possibilità di frequentare intensamente Salvatore Quasimodo ed Elio Vittorini. Le sue poesie di quel lungo periodo vengono pubblicate nella rivista “Il Vespro Anarchico” o in altri fogli clandestini, ma la seconda vera e propria raccolta “Lu pani si chiama pani” esce nel 1954, trentuno anni dopo la prima, con la traduzione di Quasimodo, appunto.
Finalmente può rientrare in Sicilia, dedicarsi completamente alla poesia e portarla tra i suoi corregionali. Nel 1956 esce “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali”, un piccolo poemetto che permette al poeta di Bagheria di liberare la sua voce e gli consente, quindi, di far comprendere meglio la sua poetica. La parola è suono, che proviene direttamente dalle fibre di dialetto intrecciate nel cuore, e prende forma e vita nell’espressione vocale. La parola è un tutt’uno con la voce che il poeta porge in uno slancio di enfasi declamatoria, come in una specie di canto, in cui sono necessarie le battute ritmiche, le sospensioni, le pause, le fughe verbali e la gestualità, a dirigere la modulazione, come si dirigono gli strumenti di un’orchestra. La scelta della parola avviene quasi esclusivamente per il suo metro e per il suo suono.
La capacità declamatoria di Buttitta, fa cambiare idea anche al critico Pier Paolo Pasolini che, inizialmente non gradiva il pathos emotivo che eleggeva, o auto eleggeva, il poeta siciliano a portavoce e coscienza razionale della sua gente affamata, disperata, senza diritti, ma una volta compresa la musicalità del verso come cantato, e unito indissolubilmente con la voce e il respiro, rivede le sue posizioni. Proprio lo scrittore friulano, nel sentire i nuovi versi “Mi vogghiu svacantari, scurciari, / farimi la peddi nova / comu li scursuna” («Mi voglio svuotare, scorticare, / farmi la pelle nuova / come le serpi nere») percepisce il cambio di rotta poetico, verso una dimensione più intima, esuggerisce il titolo della raccolta che viene pubblicata nel 1963. “La peddi nova” sancisce l’ingresso di Buttitta nell’olimpo della letteratura internazionale ed è la silloge che probabilmente rappresenta al meglio la sua poetica, con il giusto equilibrio tra afflato solidale verso le classi sociali subalterne, e la loro impari lotta contro la mafia o le classi politiche che si succedono, e lo sguardo rivolto verso l’interiorità più sconosciuta da sviscerare, per scoprire la vita. La realtà e l’intimità che s’incontrano nella lirica. Se c’è un paradiso è qui e ora: non c’è speranza o proiezione nel Dopo o nell’Oltre. Questa materia reale, questa vita che si vive, anche se è un inferno, è l’unico paradiso possibile.
Il nuovo corso poetico porta alla produzione di capolavori come “Io faccio il poeta” (1972) o “Il poeta in piazza” (1974) e tanti altri ancora. Suo grandissimo estimatore era Leonardo Sciascia, ma negli anni ha frequentato e collaborato con i più grandi intellettuali siciliani e mondiali. Con Giorgio Strehler ha portato in scena l’opera “Pupi e cantastorie di Sicilia” e celebri sono le interpretazioni di sue opere in prima linea contro la mafia, come “La vera storia di Salvatore Giuliano” o “Portella della Ginestra e il Patriarca”.
Nel caso di Ignazio Buttitta si può tranquillamente affermare che vivere e scrivere andavano di pari passo; la sua lunga vita una grande poesia e la letteratura un progetto da far vivere nel reale. Ha scelto, per urgenza interiore, il siciliano come lingua, ma si può anche andare oltre il valore idiomatico e ascoltarlo semplicemente come si ascolta la musica. Basta volerlo.