domenica 4 agosto 2024

Concerto nel deserto di Zagorà, Marocco (novembre 2023)

Per la rubrica: Viva la musica dal Vivo, il racconto della musicista Lalla Bertolini di un suo concerto tenuto nel deserto. E si sa, quello che avviene nel deserto è sempre magico.



Cantautrice, esordisce a Roma alla fine degli anni ’90, incoraggiata da Nada, con una serie di concerti chitarra e voce, che la portano ad ottenere il riconoscimento del Premio Italiano Giovani, indetto da ‘Musica’ (supplemento di Repubblica). Negli anni successivi crea una formazione folk-rock, con la quale dà inizio ad una breve intensa avventura, fatta di prestigiosi live (dei quali ArezzoWave 2002 è il culmine) e di lavori in studio (incisione di “The piercing virtue”, disco su testi di E. Dickinson, non pubblicato). Sciolta la band, riprende a suonare dal vivo chitarra e voce, esibendosi tra l’altro, nel 2006, ad una della prime edizioni del premio De Andrè, alla Magliana, Roma.

Dal gennaio 2009 progetta e porta in giro, con l’organettista Valeria Bianchi e il violista e compositore Tiziano Carone, un concerto/studio su De Andre’, che esordisce l’11 gennaio (10 anni dalla morte), nel Teatro occupato ex-Volturno, a Roma. Il concerto viene replicato in numerose occasioni, la più curiosa delle quali è all’Università di Malta, su invito delle organizzatrici di Evenings on Campus, rassegna di musica estiva.

Nel 2010 forma un trio, ‘Coqs Fous’ assieme a Franco Fosca (grandissimo busker, cantautore, dylaniano di ferro), e a Danila Massimi (percussionista e compositrice) coi quali ha l’onore di esibirsi al Festival Internazionale della Poesia di Genova. In un’altra serata dello stesso Festival suona alcune poesie di Emily Dickinson, in qualità di vincitrice del Premio ‘Suona la Poesia’, indetto dal Mei di Faenza e dal Festival di Genova, con il brano The Covert, tratto da Piercing Virtue.
(Qui il link del video del brano: https://www.youtube.com/watch?v=TUamC-W3JmQ)

Al Mei di Faenza ha partecipato in due occasioni, cantando Emily Dickinson e brani originali.

Dal 2015 al 2020 si è occupata del supporto e della diffusione di un gruppo informale di cantautori e musicisti per lo più romani, organizzando concerti, individuali e collettivi, presso LaStalla, in Sabina.

Ha all’attivo 4 album: The Piercing Virtue (2002), ancora inedito, su testi di Emily Dickinson; Lo Straniero (2019) e La Terra Liberata (2021), con testi in italiano, che si trovano su Soundcloud, Youtube, Spotify; il quarto, The Mushroom Tales (2023), studio su canzoni in lingua inglese, è in esclusiva su Bandcamp.

Lavora su testi propri e poesie altrui, in italiano e in lingua originale.


Lascio a lei la parola perché il racconto è talmente bello e ricco di dettagli che non ha bisogno di ulteriori domande o approfondimenti. Buona Lettura!


Delle ultime esibizioni che ho fatto, quella più particolare e intensa è avvenuta molto probabilmente una sera del novembre scorso, in un accampamento di beduini, nel deserto di Zagora, Marocco; nel corso di un festival internazionale di documentari. 

Un contesto da favola, letteralmente.

Ero stata invitata a partecipare come cantautrice italiana dalla coreografa e regista Luciana Lusso Roveto, che pratica a Roma con ottimi risultati l’arte che fonde la danza e il teatro, inventata, se così posso dire, da Pina Bausch: il TeatroDanza, appunto, celebrata da Wim Wenders nel film ‘Pina’, (che consiglio a tutti di vedere, se amate la poesia).

La direttrice del Festival mi aveva chiesto di preparare un repertorio che includesse canzoni italiane popolari anche in Marocco: ad esempio, mi disse, Bella Ciao, o Volare, o Un Italiano Vero…

Delle tre scelsi la canzone delle Mondine, riadattata a canzone simbolo della Liberazione, perché sapevo come fosse cantata proprio in quel periodo in contesti arabi particolarmente delicati, come L’Iran degli studenti e delle donne in lotta per poche fondamentali libertà…  

E poi proposi di fare una cover di De Andrè: la Guerra di Piero. 

La proposta fu accettata. Qualcuno in Marocco conosceva il nostro Faber.

Le serate dal teatro di Zagorà erano in diretta televisiva nella principale antenna marocchina.

Mi fu proposto di esibirmi nella cerimonia di apertura, oppure in quella di chiusura, ma varie coincidenze resero possibile l’esibizione soltanto nella serata più fiabesca, quando l’intero Festival fu spostato in un accampamento beduino, appena varcato il deserto. 

3 o 4 piccoli Van condussero registi, organizzatori, invitati, ospiti partecipanti a vario titolo fino alle soglie dell’accampamento. D’altronde, Zagorà, dove si svolgeva il Festival, è una cittadina proprio al confine col deserto, e queste carovane turistiche sono all’ordine del giorno.

Ciò non toglie che l’effetto sia comunque fortissimo.

Arrivati, dato appena uno sguardo ai dintorni, varcata la soglia dell’accampamento, siamo stati accolti da un gruppo musicale percussivo e vocale di beduini talmente avvolgente e performante che ne ho ancora l’impressione acustica stampata nelle orecchie.

Era impossibile non esserne profondamente toccati e commossi. 

Era un frastuono incredibile, con una innegabile e calorosissima dolcezza, e loro avanzavano, mentre cantando percuotevano tamburi, rientravano, oscillavano a destra e sinistra.  

Nell’immobilità silenziosa del paesaggio circostante, sembrava di navigare su una nave di suoni tamburi e musica (stessa impressione, centuplicata, si ha nella piazza di Marrakech).

Dopo aver sorseggiato il consueto tè di benvenuto, tutti uscirono muovendo verso le dune per assistere al tramonto che stava per venire. Il deserto di Zagora è pietroso, per lo più, (è esattamente al confine meridionale opposto, quello occidentale, che si trova il Sahara più ‘famoso’), ma quell’accampamento sorgeva proprio sotto la costa di una delle poche dune presenti. Quindi ci arrampicammo, o meglio scivolammo verso l’alto, e vedemmo il sole tramontare e la luna spuntare. Tutto intorno, la distesa di sabbia silenziosa, e in fondo, in basso, l’accampamento, dal quale echeggiavano ancora i tamburi. Mi ritrovai con una coppia di turchi, sulla trentina. E fummo gli ultimi a rientrare, quando ormai era quasi buio.

Dentro invece era un turbinio di turbanti (perdonate), tuniche, vassoi, suoni canti grida parole. 

Conversazioni in arabo inglese francese italiano e addirittura tedesco…

Si preparava la cena, che consumammo all’interno della tenda maggiore.

Devo dire che non c’era alcuna certezza riguardo al mio cantare e suonare. L’organizzazione italomarocchina in nulla assomigliava ad una tedesca, diciamo così per capirci, senza voler offendere nessuno, né da un lato, né dall’altro.

Ma tutto s’intonava alla perfezione con il frastornamento e anche potrei dire il deliquio nel quale tutti noi occidentali ci trovavamo. La chitarra l’avevo depositata nella tenda in cui avrei dormito, e lì, pensavo, attendeva pronta all’occorrenza: io mi confusi con la sera nera e blu senza voler sapere nulla prima del tempo.

Dopo la cena cominciarono le proiezioni previste. Il festival infatti era solo in trasferta, quella sera, non si era interrotto. Il clima si fece più tranquillo e si alzò anche un certo vento fresco, che ci indusse a ricoprirci di giacche cappelli e piumini.

Dopo le proiezioni, vidi che i ragazzi dell’organizzazione cominciavano a preparare un set da concerto. Il presentatore, in tunica e turbante (attore marocchino di stanza a Barcellona), cominciò a parlare di una certa sorpresa che sarebbe avvenuta di lì a poco. Una sorpresa musciale proveniente dall’Italia…

Pensai diamine come sono vestita e pettinata! Ovvero come non sono vestita e pettinata per benino… ma alla fine ho avuto solo il tempo di correre in tenda a prendere la chitarra, mentre lui pronunciava il mio nome e io ebbi la certezza che avrei suonato e cantato nel bel mezzo di una festa marocchina in una accampamento beduino nel deserto – era in effetti una sorpresa anche per me.

Corsi davanti al microfono appena istallato, e si era radunata intorno un bel po' di gente, di tutto il mondo! Praticamente. Ero in Africa, avevo un pubblico internazionale, stavo per cantare! Tutto incredibile.

Sono partita con ‘bella ciao’. Bisogna dire che davvero è una canzone amatissima, e suscita molto entusiasmo. Così la cantammo insieme, e subito fui felice perché circondata da tanto calore e tantissimi smaglianti sorrisi – mi spiace dirlo, ma non sappiamo più cosa significa una roba del genere. È amore che si tocca. È amore che circola e rotola e vortica senza, direi propriamente, alcun tipo di inibizione. Solleva davvero da terra: cosa potevo temere?

Così mi lancia nel secondo pezzo, e scelsi appunto la Guerra di Piero, che mi ero preparata in una versione simil-reggae, che avevo sentito fare qui a Roma da Franco Fosca. E’ piaciuta tantissimo! Grandi applausi e incoraggiamenti. Così mi imbarcai nell’ultima avventura: cantare un mio pezzo. E ne scelsi uno, davvero lì per lì, arpeggiato e dolce, un pezzo lento e morbido – un pezzo che parla d’amore. 

Benissimo: mi stavano tutti a sentire, ammirati e sorpresi! Per quei tre minuti tutto l’accampamento improvvisamente silenzioso e attento risuonò solo della mia piccola voce innamorata.

E bisogna ammettere che lo stupore e l’interesse, e la curiosità che mi circondava dipendeva anche dal tipo di canzoni che cantavo, canzoni tonali, con melodie ricamate a movimenti così diversi dai loro. Ed ero una donna. 

‘E poi, e poi, tu mi piaci e lo sai’ ... Oh sì ero ispirata, perché tutto mi piaceva e sembrava contraccambiarmi.

Dopo di me salì sul ‘palco’, naturalmente fatto di tappeti che noi chiamiamo persiani, una desert rock band. Si scatenarono balli furibondi, e fino a notte fonda andarono avanti. 

Ma è stato un sogno? Qualcosa che ci si avvicina moltissimo.