Tutte quelle ore passate nella bottega del padre, a respirare la polvere del legno come fosse la polvere della musica, hanno lasciato un segno indelebile nel piccolo Salvatore Massaro. Perché il padre, Domenico, era un liutaio italiano che ha imparato il suo mestiere a Monteroduni, il paese d’origine, e poi, come tanti meridionali del Belpaese, è stato costretto a emigrare in America per sopravvivere. Fortunatamente Domenico un mestiere ce l’aveva e a Filadelfia, agli inizi del Novecento, gli affari sono andati abbastanza bene. Così il piccolo Salvatore vede sin da subito come si costruisce uno strumento, come nasce un violino. La scelta del legno, le varie componenti che lo formano: la cassa armonica, il manico, il riccio, il ponticello, le corde e l’archetto. Vive il primo vagito di uno strumento per quello che poi sarà Musica. Assiste al nascere della Musica. Oltre una chitarra, costruita dal padre, con degli avanzi di altri strumenti, per Salvatore è naturale poggiare il violino tra la spalla e la guancia, far scivolare con delicata modulazione l’archetto sulle corde e suonare. Invadere l’aria con quelle note acute che caratterizzano lo strumento; domarlo, perché il violino non è strumento facile - prima di sentirlo proprio bisogna entrarci in sintonia-, e poi farsi invadere dentro. Quel legno che vibra sulla guancia con l’intensità emessa dal musicista, invade tutto il corpo, fin nelle fibre più profonde, fino alle ossa, fino al midollo. Già a quindici anni Salvatore Massaro è in grado di padroneggiare il suo strumento e suonare in delle piccole orchestre. Grazie anche ai consigli di Joe Venuti, un altro grande violinista Jazz italoamericano le cui origini sono avvolte nel mistero. Con Joe Venuti il sodalizio è artistico ma soprattutto di amicizia. I due si fanno notare abbastanza presto nel panorama musicale di Filadelfia per il loro talento e vengono scritturati nell’orchestra di Adrian Rollini (guarda caso un altro italoamericano); un laboratorio aperto che consente loro di conoscere i più grandi artisti dell’epoca. Salvatore inizia a suonare con vari pseudonimi fino a trovare quello definitivo in Eddie Lang, un nome preso in prestito da un giocatore di baseball allora popolare. Viene scritturato nell’orchestra di Charlie Kerr, ma stavolta per suonare il banjo. Se la cava anche con quello strumento teso dal suono metallico. Forse esercitarsi con il banjo è proprio il ponte necessario che gli consente di approdare in maniera definitiva alla chitarra… ed è un approdo felice. Lui ha soltanto ventidue anni nel 1924 ma il suo modo di suonare la chitarra, con Red McKenzie, nella Mound City Blue Blowers, cambierà per sempre il modo di considerare questo strumento nell’ambito dell’orchestra jazz. Non più semplice accompagnamento ritmico ma strumento nobile in grado di sviluppare armonie e melodie e lanciarsi in degli assoli vertiginosi per l’epoca. Questo strano trio che rispolvera vecchi Blues, composto da un Kazoo usato da Dick Slevin, un pettine avvolto nella carta velina suonato da Red e la chitarra di Eddie, ottiene un inaspettato successo che consente loro di fare una tournée all’estero e di registrare Deep Second Street Blues uno dei primi brani a contenere un assolo di chitarra. Si nota lo stile di Eddie in grado di destreggiarsi alla grande nella fase melodica e ritmica e di saltellare tra le scale di note con estrema disinvoltura. Il suo talento è ormai richiesto nei più svariati ambiti, sia tra i tradizionalisti del blues che nelle grandi orchestre jazz, per accompagnare i più celebri cantanti del periodo. Il momento di maggiore sintonia ovviamente lo prova quando entra a far parte di un trio formato da Frankie Trumbauer al sassofono e Bix Beiderbecke alla tromba (cornetta). Una formazione sensazionale che propone le esibizioni più virtuose di quegli anni. Nel 1927 rivisitano un classico del Blues, Singin’ The Blues, facendolo diventare uno standard della musica mondiale… ma sono innumerevoli i brani in cui eccellono; risalgono a questa fertile collaborazione le composizioni firmate di suo pugno come April Kisses e Eddie’s Twister. Un trio di musicisti uniti dal talento e dal particolare destino. Trumbauer va in guerra e torna cambiato, Beiderbecke muore non ancora trentenne e Lang… (lo vediamo più in là). Qualche anno dopo, sempre con Bix e Hoagy Carmichael, partecipa alla registrazione di Georgia On My Mind, un brano storico di cui l’interpretazione più conosciuta è quella di Ray Charles. Sono anni di affermazione assoluta, tanto che riesce a conquistare anche il pubblico afroamericano con un genere musicale da loro creato. Adottando lo pseudonimo di Blind Willie Dunn e (come narrano le leggende) tingendosi la faccia di nero, iniziano così le collaborazioni con Joe ‘King’ Oliver e poi con Louis Armstrong. Suona in tournée per Bessie Smith e inizia a duettare con un altro virtuoso della chitarra come Lonnie Johnson (http://gabrieleperitore.blogspot.com/2023/09/lonnie-johnson-up-and-down.html). Le composizioni a due chitarre forse sono tra le più belle della sua produzione come afferma lo stesso Lonnie Johnson, e vanno assolutamente ricordate Blue Guitars e Guitar Blues. A coronamento della sua scintillante carriera arriva la collaborazione con Bing Crosby. Di sicuro il più grande interprete e cantante degli anni trenta. Un ingaggio che gli avrebbe garantito di affrontare senza problemi il decennio critico della Grande Depressione ma il destino si frappone nei momenti più inaspettati. Così una semplice laringite e una semplice operazione chirurgica si trasformano in qualcosa di letale. Nessuno sa cosa è successo in quella sala operatoria il 26 marzo del 1933, forse un’emorragia dovuta alla sua emofilia cronica o forse un’embolia dovuta all’anestesia, l’unica cosa che si sa è che Salvatore ‘Eddie Lang’ Massaro di soli trenta anni non si è più alzato da quel lettino. Lasciando un’eredità enorme di registrazioni, sia per qualità che per quantità, per un musicista che ha espresso il proprio talento in dieci anni soltanto, cambiando per sempre il modo di suonare la chitarra in ambito jazzistico e influenzando generazioni di musicisti negli anni a seguire.
domenica 24 settembre 2023
lunedì 18 settembre 2023
Mara Gentile: A filo scoperto
A filo scoperto. Disegno realizzato da Maraan |
Proprio in queste settimane una numerosa serie di artiste è stata chiamata a cimentarsi con il tema "la donna e la tecnologia" nel capitolo CyberW nell'ambito della mostra Empowernet Roma Future Week presso la Tevere Art Gallery.
Un invito a riflettere su come l'innovazione tecnologica e digitale viene applicata al corpo della donna e come la possa influenzare nella ridefinizione degli spazi personali e sociali.
Non si può non partire, allora, da una riflessione fondamentale su come, in questo periodo storico dominato dalla comunicazione per immagini, viene visto il corpo della donna che diviene ogni giorno di più oggetto sessuale da esporre in questo sfrontato mercato virtuale, in un mondo sempre più fatto da apparenza. Un'usanza che avvantaggia oltremodo chi è dotato di una certa avvenenza e può ostentare le proprie fortune fisiche, naturali o meno. Questa enorme ostentazione può risultare claustrofobica per chi vuole proporre contenuti alternativi.
Per questo motivo mi ha colpito particolarmente il lavoro A filo scoperto di Mara Gentile. Il corpo della donna viene richiamato alla sua essenzialità di corpo, non di una bellezza perfetta da ostentare, semplicemente a un corpo che ha diritto a reclamare la sua bellezza in quanto tale, senza censura e senza vergogna, e alla sua dose di piacere.
All'acquerello originario del corpo della donna, si aggiunge, con una particolare tecnica stilistica fatta di materiali stratificati, un braccio meccanico, che ne determina la sua nuova vita robotica.
Ecco che nasce la CyberW, con cuore e pelle umani e nervatura elettrica esposta a governare gli ingranaggi.
La donna cibernetica del futuro ha le stesse esigenze della donna primordiale, delle donne di tutti tempi. Sognare e godere anche se il proprio corpo è mutato.
Ecco che emerge in maniera primitiva come un'energia sottocutanea impossibile da contenere il desiderio di provare piacere.
Supera l'inquietudine di un corpo non più umano ma ne esalta tutta la bellezza e la fragilità prettamente umane.
Rivendica il proprio spazio, la propria intimità, e il diritto di sfiorarsi da automa sensuale e in autonomia.
Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori.
domenica 17 settembre 2023
Leonardo Sciascia: “Todo modo" (1974)
L’autore in questo romanzo, immerso in un’atmosfera di mistero e colta riflessione, si limita a riportare così com’è il vischioso mondo della politica nostrana senza scivolare in retoriche addizionali. Questa volta lo sfondo non è la Sicilia come in altre occasioni: l’ambientazione non è specificata lasciando percepire tutta l’austerità di un posto isolato. Geniale il pretesto con cui riesce a mettere tutti insieme i politici, che ricoprivano le cariche più importanti di quel periodo, fuori dal Palazzo, dentro un eremo, che poi è un albergo, costruito, anche questo, con metodiche mafiose, per il ritiro spirituale annuale. Alla loro riunione purificatrice si trova ad assistere, per puro caso, un pittore affermato, in cerca di solitudine. Nel suo volontario vagare in auto, per allontanarsi dalle distrazioni mondane, il pittore, di cui non conosciamo il nome, è attratto dalle indicazioni stradali che guidano verso l’eremo di Zafer. Incuriosito le segue e, una volta lì, scopre che l’eremo in realtà è un grande albergo e che l’eremo è stato inglobato all’interno e trasformato in cripta. A gestire l’albergo è don Gaetano, uomo di chiesa colto e intelligente, furbo e manipolatore, in grado di ottenere i fondi per qualsiasi sua iniziativa, come quella di costruire l’albergo nei suoi luoghi natii per i ritiri spirituali, e di tenere sotto scacco un manipolo di uomini politici senza scrupoli, ricattandoli moralmente e concretamente, conoscendone tutti i più viscidi segreti. Il pittore è affascinato dalla figura del prete che riesce a citare, senza barriere morali, passi letterari che amano entrambi. Don Gaetano, inoltre, gli mostra il quadro del santo eremita Zafer che, pur privo della vista, prova a leggere comunque la Bibbia, mentre il diavolo lo tenta offrendogli degli occhiali. La miopia imposta dal Signore non va corretta. Con grande sorpresa, ad un certo punto, il pittore nota che gli occhiali che sfoggia il diavolo nel dipinto, sono gli stessi di quelli che indossa don Gaetano. Proprio il prete lo invita a fermarsi per il ritiro spirituale e il pittore accetta. Può così rendersi conto personalmente dell’ipocrisia che regna indisturbata tra le relazioni, che sono soltanto legami di convenienza, gli affari che sono soltanto malaffari, anche al cospetto del Signore. Gli esercizi spirituali sono soltanto esercizi di Potere, conservato in ogni modo… Todo modo, appunto. Don Gaetano è a conoscenza di tutto questo traffico e non fa niente anzi, anche lui ha il suo bel guadagno.
Durante la recita del rosario si sente un colpo di arma da fuoco; tutti corrono nella direzione in cui si è sentito il botto e scoprono che l’onorevole Michelozzi è stato ucciso. Inizia il giallo. Il colpevole è all’interno dell’albergo, nessuno si può allontanare e delle indagini si occupa il commissario Scalambri, un compagno di scuola del pittore. Dopo quella dell’onorevole però ci saranno altre morti eccellenti. Tutti iniziano a sospettare di tutti. Il pittore mette insieme gli indizi più alacremente del commissario, finché non viene trovato morto anche don Gaetano. Il commissario non sa più in che direzione muoversi se non sospettare lo stesso pittore. Il pittore per tutta risposta si autoaccusa degli omicidi
ma chiaramente non è la verità. Che sia, l’io narrante, o un deus ex machina, l’autore degli omicidi, la verità non si saprà mai, perché è lì sotto gli occhi di tutti ma nessuno la vuole vedere. La volontà del Signore è imperscrutabile e agli esseri umani non rimane che arrabattarsi alla meno peggio in questa valle di lacrime in balia della propria totale inettitudine. Se il pittore dovesse fare un quadro, ritrarrebbe un Cristo in ombra. “Todo modo” è un giallo metafisico con il dichiarato intento di smascherare gli intrallazzi dei vertici della Democrazia Cristiana dell’epoca e i rapporti con la Chiesa. L’uscita del libro suscita l’inevitabile sdegno dei benpensanti e il gradimento assoluto degli intellettuali impegnati.
La sintonia con il regista Elio Petri (consolidata già da precedenti collaborazioni) è tale che li spinge a farne un film. Il regista ne accentua il lato grottesco e assurdo, diventa un vero e proprio processo sovrannaturale agli esponenti di spicco della politica e della classe dirigente nazionale. Con uno splendido Gian Maria Volonté nei panni del presidente del partito, moderatore e paciere, severo e nello stesso tempo disposto ad accettare i più sordidi compromessi. Coadiuvato dai sempre eccezionali Marcello Mastroianni, nei panni di don Gaetano, e Michel Piccoli. All’uscita nel 1976, in pieno periodo di anni di piombo, il film suscita più polemiche del libro a cui è ispirato e viene presto ritirato dalle sale; anche perché Gian Maria Volonté è talmente calato nella parte del presidente del partito da sembrare realmente Aldo Moro. Il clamore suscitato senza
alcun dubbio era sintomo di una verità che tutti avevano sotto gli occhi e nessuno voleva vedere, proprio come il libro e il film profetizzavano e, che poi il corso della storia ha svelato, dando loro ragione, prima con il rapimento e la morte di Moro, che
da processato, con le sue lettere dalla prigionia diventa accusatore, e poi con Mani Pulite.
domenica 10 settembre 2023
Lonnie Johnson: "Up and Down"
sabato 2 settembre 2023
Il tamburino della Porta Magica
Dimmi che sapore ha il tuo veleno, se ha il sapore dolciastro del viso di chi ami ma non ti ama, o ti vuole lasciare. Se ha il sapore rancido della faccia grigiastra del tuo datore di lavoro che non apprezza le tue qualità, o ti vuole licenziare, oppure del tuo professore che ti vuole bocciare. Se ha il sapore sublime di una notte che già pregustavi e non è andata come pensavi, se ha il sapore metallico del farraginoso stress quotidiano. Se ha il sapore nauseante fino al vomito di un problema più grande di te, o se ha il sapore colloso da intrappolare la lingua nel barattolo di gomma delle prediche genitoriali. Qualsiasi sia il sapore del tuo veleno, dimmelo… ho il rimedio giusto per te. Anche se vuoi dare un senso di compiutezza a una vittoria, un traguardo raggiunto, un bacio inaspettato o vuoi migliorare la tua prestazione sessuale, o ti vuoi semplicemente sballare, sfuggire uno stato di asfissiante normalità, ho il rimedio giusto per te. Sono uno specialista dei rimedi.
Ho anche una laurea se è per questo. Avrei potuto fare il biologo, ma la mia passione è questa: rendere felice la gente. Molti sostengono che i miei rimedi non siano legali ma questo è secondario, la cosa fondamentale è che sia il rimedio giusto per te. Non ha importanza chi io sia. Non posso certo rivelare il mio nome. Sono talmente abituato a nascondermi, a nascondere tutto della mia vita che io stesso faccio fatica a ricordare chi sono. Sono italiano, questo lo so, di madre lucana e padre magrebino, ma sono italiano. Sono romano, anzi, sono dell’Esquilino. Infatti anche se non posso dire il mio nome molti mi chiamano “Porta Magica”, perché per dispensare i miei rimedi dò sempre appuntamento alla Porta Magica nei giardini di piazza Vittorio.
Piazza Vittorio Emanuele è il mio territorio ideale, mi muovo alla perfezione, riesco a mimetizzarmi, nel brulichio di razze e dialetti, a confondermi fino a risultare invisibile e a manifestarmi solo quando voglio io, al momento giusto. Conosco tutto della piazza. Riconosco il rumore di una bottiglia di birra che rotola sul marmo del portico quando è bevuta da un domenicano o da un bangla. Riconosco lo scroscio dei nasoni, solo con il loro scorrere ininterrotto che disseta cani e umani, e risuona nella notte. Riconosco il battito d’ali dei piccioni che si avventano affamati sulle microscopiche briciole sfuggite ad altri affamati. Riconosco i sorrisi ingenui e festanti dei bambini africani, asiatici e sudamericani che non hanno altro posto dove giocare e perdersi nella folta vegetazione. Riconosco il puzzo di piscio che si annida dietro le grandi colonne. Riconosco il profumo variopinto dei fiorai e delle spezie piccanti indiane, quelle vere dei ristoranti etnici e quelle finte nei fast-food per turisti. Riconosco lo sdegno dei residenti che devono fare uno slalom tra i giacigli di cartoni dei barboni prima di accedere al portone della loro abitazione.
Riconosco l’orgoglio e la rassegnazione dei pochi negozianti italiani persi tra le vetrine tutte uguali dei negozi cinesi. Riconosco la brama di chi vuole fare un affare alle bancarelle dei napoletani. Riconosco la marmorea luce della svettante Madonna. Riconosco il canto del nigeriano e il vocio dei vecchietti che si riuniscono sotto il gazebo. Riconosco gli occhi di chi viene a comprare una dose o di un genitore che accompagna i figli alle giostrine. Riconosco l’odore degli sbirri in borghese, dei bastardi infiltrati e dei genitori che mi odiano, fin quando anche loro non provano un mio rimedio. E poi c’è la Porta Magica, unico residuo della villa del Marchese di Palombara. Si diceva che chi fosse riuscito a decifrare la simbologia scolpita sulla porta avrebbe potuto avere accesso alla quinta essenza, alla pietra filosofale, all’oro della trasmutazione alchemica. La villa del Marchese non c’è più, è rimasta la porta, protetta da un recinto, posizionata in un angolo dei giardini al centro della piazza. Un posto perfetto per non essere visti da nessuno, anche se sei al centro della piazza. In tutte quelle ore, di quei giorni passati ad aspettare i miei clienti, mi sono soffermato spesso a studiare i simboli scavati sul marmo della cornice della porta e… c’è stato un momento ispirato, una mattina d’autunno molto calda da sembrare estate, se non fosse stato per il continuo calpestio delle foglie ingiallite sotto le suole delle scarpe… c’è stato un momento in cui sono entrato in sintonia con quei simboli, forse perché avevo in circolo la giusta dose di anfetamine, e credo… credo di averli decifrati. I simboli dei pianeti, da leggere in senso antiorario per stabilire la sequenza dei metalli: Saturno il piombo, Giove lo stagno, Marte il ferro, Venere il rame, Luna l’argento e Mercurio il mercurio… e in alto, sopra il frontone, un cerchio, simbolo dell’infinito, con dentro due triangoli uniti e intrecciati punta contro punta che rappresentano, l’unione degli opposti, la fusione degli estremi; l’alto e il basso, lo spirito e la materia, il maschile e il femminile. Sopra i triangoli, una croce, la sofferenza cristiana, l’albero divino che unisce il cielo e la terra, la purezza. Sotto la croce, un altro cerchio più piccolo come un occhio. Un percorso esteriore per arrivare all’oro alchemico, dallo stadio più basso, dal nero del piombo e, interiore, per arrivare alla trasformazione dell’io in qualcosa di superiore, attraverso la sofferenza, la purezza e la congiunzione degli opposti. Praticamente è quello che faccio io con le mie sostanze. Sono convinto che questa porta sia stata posizionata qui per avere accesso ai miei rimedi. Non c’è niente che non si possa fare con le giuste miscele di acidi e anfetamine, con i derivati della morfina, misture di benzodiazepine e ketamine, tetraidrocannabinolo e oli naturali. Solo che i miei rimedi vi possono far viaggiare ma senza la sofferenza. L’accettazione della sofferenza a cui vogliono farci assuefare per rendere più tristi le nostre esistenze.
Nel mondo c’è già troppa sofferenza e non ha mai fatto bene a nessuno. La sofferenza, il dolore, ecco cosa combatto con i miei rimedi. Solo innescando le endorfine: la Porta Magica. Non c’è niente che io non possa ottenere con i miei rimedi. Chiamatemi spacciatore o alchimista, dottore o pusher, vi farò fare un giro sulla mia nave magica turbinante… Vi farò scomparire tra gli anelli di fumo della vostra mente giù nelle nebbiose rovine del tempo… danzare sotto il cielo di diamante… Vi farò dimenticare l’oggi fino al domani. E poi, e poi, non potrete più fare a meno di me. E allora cosa aspettate, venite numerosi a provare i miei rimedi ma non vi preoccupate se non riuscite a trovarmi, sono talmente mimetizzato che non riuscirete a vedermi, certe volte anche io non riesco a vedermi. Sarò io a farmi trovare, qualora io riesca a trovarmi, quando voi ne avrete più bisogno… e poi in un solo attimo mi sarò dissolto.
Alcuni pareri dei lettori:
Bellissima storia intrigante e persa nei tempi più odierni. Grazie per questa perla nel mare.
Ciosi
Eh...caro Gabriele, hai trovato la giusta alchimia per indurre una trasformazione silenziosa dell'io senza dolore e senza sofferenza...beh, ci vediamo da quelle parti, la Porta Magica, intendo😊.
Bellissimo racconto😉
Maurizio Fierro
Un racconto breve e "intenso", una dimensione speciale, impalpabile ma fortemente esistente, la vita è una vera lotta e l'anima ha bisogno di viaggiare per scacciare la sofferenza.
Complimenti, Gabriele!
Santino Talarico
Un bellissimo pezzo di un mio amico alchimista di parole (e anche nella vita 😉).
Cinzia Pagliara
Complimenti Gabriele, da un Dulcamara (dottor) passando per la beat generation, fino a Piazza Vittorio. Mi è piaciuto.
Zichietto