L’autore in questo romanzo, immerso in un’atmosfera di mistero e colta riflessione, si limita a riportare così com’è il vischioso mondo della politica nostrana senza scivolare in retoriche addizionali. Questa volta lo sfondo non è la Sicilia come in altre occasioni: l’ambientazione non è specificata lasciando percepire tutta l’austerità di un posto isolato. Geniale il pretesto con cui riesce a mettere tutti insieme i politici, che ricoprivano le cariche più importanti di quel periodo, fuori dal Palazzo, dentro un eremo, che poi è un albergo, costruito, anche questo, con metodiche mafiose, per il ritiro spirituale annuale. Alla loro riunione purificatrice si trova ad assistere, per puro caso, un pittore affermato, in cerca di solitudine. Nel suo volontario vagare in auto, per allontanarsi dalle distrazioni mondane, il pittore, di cui non conosciamo il nome, è attratto dalle indicazioni stradali che guidano verso l’eremo di Zafer. Incuriosito le segue e, una volta lì, scopre che l’eremo in realtà è un grande albergo e che l’eremo è stato inglobato all’interno e trasformato in cripta. A gestire l’albergo è don Gaetano, uomo di chiesa colto e intelligente, furbo e manipolatore, in grado di ottenere i fondi per qualsiasi sua iniziativa, come quella di costruire l’albergo nei suoi luoghi natii per i ritiri spirituali, e di tenere sotto scacco un manipolo di uomini politici senza scrupoli, ricattandoli moralmente e concretamente, conoscendone tutti i più viscidi segreti. Il pittore è affascinato dalla figura del prete che riesce a citare, senza barriere morali, passi letterari che amano entrambi. Don Gaetano, inoltre, gli mostra il quadro del santo eremita Zafer che, pur privo della vista, prova a leggere comunque la Bibbia, mentre il diavolo lo tenta offrendogli degli occhiali. La miopia imposta dal Signore non va corretta. Con grande sorpresa, ad un certo punto, il pittore nota che gli occhiali che sfoggia il diavolo nel dipinto, sono gli stessi di quelli che indossa don Gaetano. Proprio il prete lo invita a fermarsi per il ritiro spirituale e il pittore accetta. Può così rendersi conto personalmente dell’ipocrisia che regna indisturbata tra le relazioni, che sono soltanto legami di convenienza, gli affari che sono soltanto malaffari, anche al cospetto del Signore. Gli esercizi spirituali sono soltanto esercizi di Potere, conservato in ogni modo… Todo modo, appunto. Don Gaetano è a conoscenza di tutto questo traffico e non fa niente anzi, anche lui ha il suo bel guadagno.
Durante la recita del rosario si sente un colpo di arma da fuoco; tutti corrono nella direzione in cui si è sentito il botto e scoprono che l’onorevole Michelozzi è stato ucciso. Inizia il giallo. Il colpevole è all’interno dell’albergo, nessuno si può allontanare e delle indagini si occupa il commissario Scalambri, un compagno di scuola del pittore. Dopo quella dell’onorevole però ci saranno altre morti eccellenti. Tutti iniziano a sospettare di tutti. Il pittore mette insieme gli indizi più alacremente del commissario, finché non viene trovato morto anche don Gaetano. Il commissario non sa più in che direzione muoversi se non sospettare lo stesso pittore. Il pittore per tutta risposta si autoaccusa degli omicidi
ma chiaramente non è la verità. Che sia, l’io narrante, o un deus ex machina, l’autore degli omicidi, la verità non si saprà mai, perché è lì sotto gli occhi di tutti ma nessuno la vuole vedere. La volontà del Signore è imperscrutabile e agli esseri umani non rimane che arrabattarsi alla meno peggio in questa valle di lacrime in balia della propria totale inettitudine. Se il pittore dovesse fare un quadro, ritrarrebbe un Cristo in ombra. “Todo modo” è un giallo metafisico con il dichiarato intento di smascherare gli intrallazzi dei vertici della Democrazia Cristiana dell’epoca e i rapporti con la Chiesa. L’uscita del libro suscita l’inevitabile sdegno dei benpensanti e il gradimento assoluto degli intellettuali impegnati.
La sintonia con il regista Elio Petri (consolidata già da precedenti collaborazioni) è tale che li spinge a farne un film. Il regista ne accentua il lato grottesco e assurdo, diventa un vero e proprio processo sovrannaturale agli esponenti di spicco della politica e della classe dirigente nazionale. Con uno splendido Gian Maria Volonté nei panni del presidente del partito, moderatore e paciere, severo e nello stesso tempo disposto ad accettare i più sordidi compromessi. Coadiuvato dai sempre eccezionali Marcello Mastroianni, nei panni di don Gaetano, e Michel Piccoli. All’uscita nel 1976, in pieno periodo di anni di piombo, il film suscita più polemiche del libro a cui è ispirato e viene presto ritirato dalle sale; anche perché Gian Maria Volonté è talmente calato nella parte del presidente del partito da sembrare realmente Aldo Moro. Il clamore suscitato senza
alcun dubbio era sintomo di una verità che tutti avevano sotto gli occhi e nessuno voleva vedere, proprio come il libro e il film profetizzavano e, che poi il corso della storia ha svelato, dando loro ragione, prima con il rapimento e la morte di Moro, che
da processato, con le sue lettere dalla prigionia diventa accusatore, e poi con Mani Pulite.
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