La guerra come il mare, il mare come la guerra, ha disseminato di morte e rovine, come fossero miriadi e miriadi di frantumi di gusci di conchiglie, ogni battigia, ogni approdo, ogni porticciolo, ogni molo dove ormeggiano le imbarcazioni dei pescatori; dove ormeggiavano le imbarcazioni dei pescatori, perché adesso non rimane più niente, o forse sì, qualcosa è rimasto: carcasse ammuffite, galleggianti, ammorbanti, desolanti.
Ne ha fatti di viaggi in mare ‘Ndrja Cambria, il protagonista del romanzo “Horcynus Orca”, sulle navi della Reggia Marina durante la guerra, ma il viaggio più importante, quello che lo avvicina a Odisseo, è il viaggio che fa per tornare a casa e che lo consegna alla Morte; un viaggio che dura cinque giorni ma raccontati come se fossero due decenni, in più di mille pagine.
Anche ‘Ndrja, durante il percorso di ritorno, conosce la sua maga, ma non si chiama Circe, il suo nome e Ciccina Circè, forse meno avvenente di quella omerica ma altrettanto seducente. Contrabbandiera in eterna attesa del suo innamorato, appartenente alla comunità delle femminote. l’unica che può aiutare ‘Ndrja ad attraversare lo stretto, sulla sua imbarcazione improvvisata, nonostante il divieto di navigazione delle acque costiere, per poter tornare a Cariddi. L’unica che, nel consumare la sua ricompensa sessuale, con il suono nebuloso dei suoi gemiti, non gli fa sentire il rumore del mare; il rumore che fa parte della vita di ‘Ndrja, fin dalla nascita, ninna nanna melodiosa, fragore di tempesta per la rabbia, e che spesso si sostituisce al respiro, ogni giorno, ogni ora, sempre. Una lingua quella del mare che se conosciuta profondamente parla di vita, parla di morte, che fa parte della vita, e poi di nuovo parla di Vita, appunto.
La morte, infatti, presenta le sue avvilenti unghiate, sferrandole dagli angoli più inaspettati e sotto vari e inusuali aspetti. Una volta tornato sui luoghi natii ‘Ndrja scoprirà a sue spese che si può morire anche in vita, si può morire dentro, come sono morti i suoi compaesani per la devastazione fisica e morale che la guerra ha creato. I pescatori non possono più fare il loro mestiere; le barche affondate dalle cannonate, le reti strappate dai dispettosi delfini, si fanno uccidere dalla paura del loro stesso mare.
Tra loro regna l’incomunicabilità, la paura, la fame, e l’unico modo per racimolare qualche soldo, quando ogni economia è azzerata, è scendere ad inaccettabili compromessi.
Proprio dal mare arriva la minaccia più grande, proprio dalla vita arriva la paura paralizzante, sotto le sembianze di una gigantesca orca, orribile Leviatano, inenarrabile mostro, che ricorda la mistica Moby Dick di Melville. L’Orcaferone pattuglia la costa seminando terrore tra i pescatori. Diffonde il suo alone di morte oltre quello della guerra, forse come quello della guerra. Dove c’è la morte, però, c’è anche la vita. Quando l’orca si inabissa, lo spostamento del suo immenso corpo porta a galla i neonati delle anguille, prelibatezze per i palati dei pescatori, unico momento in cui riescono a gustare un cibo di loro gradimento.
Quando, poi, la morte muore, quando l’orca muore, decaudata dai crudeli delfini e finita dalle cannonate degli alleati, è come se fosse il segnale che la morte si sia spostata in altri lidi, è come se fosse arrivato il momento per ‘Ndrja di morire.
Mare vita, mare morte. ‘Ndrja, corre verso la sua morte interiore, cedendo al compromesso di partecipare ad una regata con un’imbarcazione da lui stesso costruita e trova la morte fisica, a causa di una pallottola vagante espulsa dal fucile di un alleato, che lo colpisce in piena fronte, e rimane lì, cullato dalle onde del suo mare. Sulla sua imbarcazione simile ad un’arca ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.
La morte dell’orca, la morte sull’arca, a compiere il fatidico e inarrestabile ciclo della natura, vita- morte- vita.
Il funambolico narratore di questa monumentale storia è il messinese Stefano D’arrigo, dando alle stampe “Horcynus Orca” nel 1975, dopo quasi vent’anni di stesura. In un periodo storico in cui le correnti letterarie prevalenti erano quelle legate al realismo moraviano, o di ricostruzione storica, come l’esemplare “Il Gattopardo” di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, D’arrigo si inserisce con la sua proposta che unisce queste tecniche stilistiche ad una sperimentazione linguistica che ricorda quelle di Carlo Emilio Gadda o, in qualche modo, anche quelle di James Joice. Per il suo racconto crea una vera e propria lingua che segue il movimento del mare, perché dalla sua posizione privilegiata di Alì Terme può ascoltare il mare, anzi i due mari, lo Ionio e il Tirreno, che proprio lì confluiscono, e farsi trasportare dai suoi marosi, dalle maree, dai mulinelli, dai vortici. Alle onde dell’italiano puro e forbito fonde i flutti del dialetto stretto della sua zona, alle risacche dei neologismi che prendono in prestito parole e suoni di altri idiomi; in cui i protagonisti assoluti sono gli abitanti del mare tutti, umani e animali: i pescatori, i pellisquadre, dalla pelle cotta dal sole e dal sale, le donne in attesa dei maschi che la guerra ha portato via, ma anche e soprattutto i delfini, amici e nemici, e quindi l’ingombrante orca. La musicalità delle trame delle frasi porta alla mente certe pagine del miglior D’annunzio, ma il gioco di rimandi è infinito, sino a scovare citazioni della Divina Commedia.
Quello di D’arrigo è un romanzo totale a cui lo scrittore ha dedicato la maggior parte della sua vena creativa. Anche se vedrà pubblicate altre sue opere, tra poesie come quelle di “Codice siciliano” (1957) e il romanzo successivo “Cima delle nobildonne” (1985), il lavoro che più lo contraddistingue è senza dubbio “Horcynus Orca” in cui il continuo sciabordio di frasi che vanno e vengono come le onde creano la reale sensazione di provare gli umori del mare, e facendo immedesimare il lettore in un pescatore o in un delfino, riesce a far comprenderne la sua lingua più profonda.
Nessun commento:
Posta un commento