domenica 29 settembre 2024

Max Roach: l’evoluzione della batteria

Per la rubrica: Archeologia musicale, il momento esatto in cui la batteria da strumento di accompagnamento si trasforma in strumento principale, nella scena jazz degli anni quaranta e cinquanta. 


La bacchetta come prolungamento delle dita, delle mani, come proiezione del ritmo cardiaco. La superficie del tamburo come pelle dell’amore che risponde alle percussioni con i battiti… e percuote, batte…. e pulsa, galoppa… parla una nuova lingua. Oltre quella conosciuta del quattro quarti che accompagna ritmicamente gli altri strumenti, adesso dialoga, sviluppa melodia, si lancia in lunghi assoli affidati all’improvvisazione… e percuote, batte… e pulsa, galoppa… e sconquassa la cassa. Accelera la frequenza di precipitazioni torrenziali e poi… lo scroscio della pace che sta per arrivare. Tra i primi percussionisti a sviluppare il linguaggio della batteria, senza dimenticare il sorridente virtuoso e snodato Gene Krupa che, nell’orchestra di Benny Goodman, rivaleggiava in assolo con gli altri musicisti, possiamo ammirare lo stile del veterano Kenny Clark (Klook, per gli amici), inventore della tecnica che sposta la tenuta del ritmo dal rullante, o dalla gran cassa, al piatto ride. Nello stesso periodo Charlie Parker e Dizzy Gillespie allargano le prospettive di improvvisazione dei vari strumenti dando vita al nuovo filone del Jazz, denominato Be Bop. Di qualche anno più giovane, entra a respirare quell’aria così creativa dei locali della Grande Mela, il talentuoso Max Roach. Seppur giovanissimo ha già avuto un’esperienza formativa nell’orchestra di Duke Ellington. Tutti si sono accorti della sua tecnica personale e del tutto rivoluzionaria nell’approccio alla batteria. Non c’è soltanto il timpano, anche il rullante può brontolare melodie percussive e dialogare con la gran cassa e i piatti, dal ride al Charleston. Che poi, fosse per lui, basterebbe uno soltanto di questi elementi per fare musica. Qualsiasi cosa possa risuonare, tra le sue mani è uno strumento nobile, anche il coperchio di una pentola. Max accorda personalmente i suoi tamburi, stirando le pelli in base alle sue esigenze e inventandone anche nuove di accordature. Riempie la gran cassa con materiali di ogni tipo per sincopare e rimbombare il suono. La sintonia e l’amicizia con Charlie Parker gli permettono di sperimentare in ogni situazione, così, negli anni in cui le truppe americane sono impegnate nel secondo conflitto mondiale, loro si impegnano a cambiare i canoni musicali. Nel 1945, infatti, in una delle improvvisazioni più accese, registrano Ko Ko, in cui si può apprezzare uno dei primi assolo della batteria nella sua totalità, svolta epocale per il genere Jazz. Non c’è grande musicista che non abbia collaborato con lui in quel periodo; a me piace ricordare Bud Powell e Lester Young (vedi sotto), ma faccio un torto a tutti gli altri non meno immensi. Il desiderio incontenibile di sperimentare nuove sonorità lo spinge a formare dei quintetti in cui lascia ancora maggiore libertà ai solisti, in qualche caso senza il sostegno del pianoforte. Per recuperare alcune armonie delle radici musicali e per svilupparle ulteriormente, spianando la strada all’hard Bop. La sensibilità artistica in Max Roach corrisponde a quella umana e non può rimanere impassibile difronte alle problematiche sociali e la rivendicazione dei diritti che, sul finire degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, divampano in manifestazioni sempre più violente. Nel 1960 compone “We Insist! – Freedom Now Suite” (che al solo nominarlo mi vengono i brividi), un capolavoro ascrivibile al filone del Free Jazz. Commissionato dalla Associazione Nazionale per i Diritti delle Persone di Colore e con i testi del poeta e cantante Oscar Brown. Il genio di Max realizza cinque brani collegati fra di loro in una suite, che racconta l’epopea degli afroamericani, dalla schiavitù all’emancipazione. Alla voce, la sua futura moglie, la stellare Abbey Lincoln, eccezionale nell’esaltare la straziante lacerazione delle violenze subite e la grande voglia di combattere per la pace e poi, finalmente la pace raggiunta. Per registrare Max si circonda dei migliori musicisti del periodo tra cui Coleman Hawkins al sassofono. La suite si conclude con Tears for Johannesburg, un tributo solidale alle popolazioni sudafricane oppresse con Michael Olatunij alle congas. L’esplicito contenuto provocatorio del disco, a partire dalla copertina, che ritrae tre afroamericani in un locale per bianchi, disturba gli alti grandi delle istituzioni e rende difficile la vita artistica di Max che trova sempre più difficoltà ad entrare in sala d’incisione ma, la sua tenacia, lo porta a registrare comunque altri fondamentali album per l’evoluzione della batteria come “Percussion Bitter Sweet” del 1961 e “Drums Unlimited” del 1966. Dopo le turbolenze degli anni sessanta la sua carriera decolla in maniera stabile allargando la sua fama a livello mondiale; sono importanti anche le registrazioni e i concerti tenuti in Italia, uno dei posti al mondo che lo ha accolto con maggiore calore negli anni settanta, infiammando la scena Jazz nostrana di quel periodo. Ha collaborato fino alla fine della sua lunga vita, avvenuta nel 2007, con i più grandi batteristi, incidendo album per sola batteria come “M’Boom” del 1979 e “Collage” del 1984. Ha contribuito a lanciare artisti che hanno segnato la storia del Jazz tra cui, Stanley Turrentine, Bill Lee e Art Davis. Le sue incisioni sono infinite e quasi impossibili da catalogare. Ha insegnato come docente dell’università del Massachusetts e tutti i suoi studenti sanno che non ci sono limiti, in ogni strumento bisogna mettere la propria passione, la propria tecnica e l’impegno assiduo, soltanto così si può liberare l’anima di un suono. Librarla in aria per trasformarla in emozione. 







Lester Young: 

http://gabrieleperitore.blogspot.com/2024/01/lester-young-serenata-per-billie-holiday.html
 






domenica 22 settembre 2024

Concerto al Parco della Caffarella - 7 settembre 2024

Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, raccolgo il racconto pulsante della musicista Marta La Noce, del suo ultimo concerto a Roma, insieme a Cecilia Lavatore, che ha toccato tematiche davvero fondamentali, anche, e, purtroppo, soprattutto, in questo periodo storico. 


Marta La Noce, è una cantautrice. La sua musica dalle sonorità electro-pop, è caratterizzata da una voce potente e ricca di sfumature. Il 26 aprile 2022 pubblica il singolo "Libera" prodotta da Matteo Gabbianelli per la kuTso Noise Home (distribuita da Artist Frist). Nel luglio 2022 vince "Radio Sonica Live Show". Il 28 ottobre 2022 apre per Rocco Hunt al "Latina Music Festival", nell'agosto 2023 vince il "Meeting Music Contest" scelta da Morgan fra centinaia di partecipanti. Il 30 settembre 2023 vince il "Dinamica Contest", vittoria che la porterà ad intraprendere un tour nei club del nord Italia nel 2024. A dicembre 2023 è in scena a Teatro Trastevere con la pièce “Libera” di Cecilia Lavatore, scrittrice ed editorialista per il Messaggero. Nel 2023/ 24 appare più volte nel programma di Fiorello "Viva rai 2". Il 19 Marzo 2024 è ospite nel programma radiofonico “sogni di gloria” in onda su radio2.

Ho il piacere di condividere il racconto di Marta La Noce, della sua esibizione che si è tenuta nell'ambito della manifestazione Poetry Vilage a Roma, pochi giorni fa. 


Il 7 settembre, nel cuore verde del Parco della Caffarella, abbiamo vissuto una serata sospesa nel tempo. Insieme a Cecilia Lavatore, ho avuto l'onore di aprire per Cristiano Godano, la voce e l'anima dei Marlene Kuntz. Un palco che ci ha accolto con la sua energia antica e nuova, con il pubblico in ascolto attento, pronto a ricevere il nostro racconto.


Conosco bene il parco, conserva ancora un'atmosfera incantata, in cui si respira tutta la storia pregna di mito. È uno dei pochi posti in cui si possono ammirare ancora le lucciole, e immagino che il pubblico sia stato altrettanto entusiasta, invogliato dalla vostra proposta. 


Abbiamo portato in scena "Libera", uno spettacolo che è nato senza che lo sapessimo, da canzoni e monologhi creati in momenti diversi, in vite separate. Le mie canzoni, nate dal mio vissuto, e le parole di Cecilia, figlie di riflessioni profonde e storie di donne straordinarie, hanno trovato un filo invisibile che le ha legate insieme. Come se, in qualche modo, il destino avesse deciso che queste storie dovessero incontrarsi.

Sul palco, le nostre voci si sono fuse per raccontare di donne che hanno lottato, che non si sono piegate di fronte alle difficoltà. C'era la forza delle rivoluzioni, piccole e grandi, personali e collettive, che attraversano le vite di tutte noi. E in quella sera così intensa, sotto il cielo aperto, abbiamo condiviso qualcosa di più della musica o delle parole: abbiamo condiviso la nostra verità. 


E a voi, invece, intimamente, cosa vi ha lasciato dentro questa notte di scambio così intenso? 


Questa notte, tra gli sguardi attenti e l'ascolto profondo, il nostro spettacolo è diventato vita, emozione pura. È stata una serata che porterò dentro per sempre, grata per la connessione sincera  che si è creata tra noi e chi ci ascoltava, nel fluire di note e versi.










domenica 15 settembre 2024

Tutto può partorire un verso

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Selene Pascasi sulla possibilità di conoscere e conoscersi meglio, provocare cambiamenti, attraverso le domande che soltanto la Poesia può porre.



Selene Pascasi, avvocato per un ventennio e oggi funzionario tributario, è giornalista, firma del Sole 24 Ore con all'attivo migliaia di pubblicazioni, critico musicale al Lunezia. Autrice di una monografia per Giappichelli, un lavoro criminologico per l'Accademia Americana di Scienze Forensi, 5 raccolte poetiche, 3 aforismari e 2 romanzi, vince molti Premi letterari. È ora in libreria con il romanzo Dimmi che esisto sulla violenza contro le donne (Chiocciola) e la silloge Un tempo minimo (Eretica) 

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?

Da sempre. La scrittura è cresciuta con me, quello con la poesia è un legame innato. Ho scritto versi fin da bambina quando annotavo su fogli sparsi i miei pensieri che, sebbene acerbi, erano comunque espressioni dei miei stati d’animo. Un groviglio di emozioni che mi vivevano dentro e che, pian piano, mi chiedevano forma e inchiostro. Così, vinta la barriera delle fragilità e del pudore, da adulta ho trovato il coraggio di mettermi a nudo con i lettori e pubblicare.

Che rapporto hai con la poesia?

Viscerale e inevitabile, perché non potrei fare a meno di scrivere. Ma la poesia per me non è solo nero su carta. È anche un modo speciale di guardare il mondo, percepirne ogni sfumatura, ogni dolore, ogni odore. Da un soffio di vento, da un profumo, dal pianto di un bimbo, dal sorriso sdentato di un vecchio, da un amore finito, da un sogno sospeso, da una promessa mancata e persino dal silenzio… tutto può partorire un verso. E poi grazie alla poesia riesco ad astrarmi da me stessa e osservarmi vivere e così conoscermi meglio.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Conta tantissimo in ogni periodo storico ma nel momento in cui viviamo conta molto di più perché si stanno perdendo punti di riferimento, la dignità sta lasciando il posto all’apparenza e la fedeltà alle coscienze rischia di diventare un optional. Ecco che la poesia può scrivere mille inizi, può risvegliare dall’apatia del vivere, può scuotere dall’anestesia del pensiero. E sai perché? Perché la Poesia sollecita le domande prima che le risposte, non ha scadenza e regala emozioni diverse ad ogni lettura. La Poesia è uno spiraglio di eterno che dovremmo imparare ad amare con tutti i sensi.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Non può, o meglio, è la parola dell’intelligenza artificiale che non può competere con quella umana. La nota AI è in grado di scrivere la poesia perfetta, rispettosa dei canoni imposti e talora anche abbastanza credibile. Ma mai e poi mai, la parola dell’intelligenza artificiale potrà veicolare l’animo e trascinarlo verso il lettore tanto da tatuargli addosso indelebili emozioni. Potrà donargli svago, sorrisi, ma sono sicura che non gli inietterà mai dentro quella sensazione di salvezza che solo la poesia umana è in grado di instillargli nel cuore.

Qual è la tua opera (o le tue opere) in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?

Tra le opere poetiche, la raccolta A un ricordo da te (Scrivere Poesia) perché si forma lentamente negli anni in cui ho assistito mio padre Silvio purtroppo volato via. Un periodo di simbiosi con lui in cui l’ho amato stringendo ogni istante consapevole che potesse essere l’ultimo. E prendersi cura di chi sprofonda (scrivo in Genesi “come quando si muore da vivi” / “come quando si vive da morti”) è un patto di lucidità con se stessi arduo da onorare. In narrativa, invece, tengo molto al romanzo d’esordio Dimmi che esisto – ripubblicato da Chiocchiola – perché tratta della violenza di genere. L’intento è di esortare le vittime di abusi a non sentirsi mai responsabili della brutalità maschile e non cercare a tutti i costi, fino a rischiare la vita, di mantenere in piedi un rapporto tossico pur di non restare da sole.

La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?

Può e deve farlo. Un Poeta ha l’obbligo morale di rivolgersi ai giovani, di sollecitarli a reagire, a riflettere, a tornare padroni delle proprie vite, a liberarsi dalla schiavitù del web, dei social e del cellulare che spegne la loro creatività. E poi la poesia è terapeutica perché aiuta a scovare i mostri che ci portiamo dentro, a farci pace e trarne la forza per rinascere. Insomma, la poesia è uno strumento dotato di una forza pazzesca, rivoluzionaria e salvifica.








domenica 8 settembre 2024

Richard Brautigan: “American Dust. Prima che il vento si porti via tutto” (1982)

 

Ci sono dei pomeriggi roventi d’estate in cui si sente soltanto lo sfregare delle cicale, il picchiare dei raggi del sole che fa evaporare le zone d’ombra, il tremolio delle gialle stoppie. Nel raggio di chilometri non si muove foglia e hai l’immensità della campagna a disposizione. Questa immensità ti assale come un senso di solitudine insopprimibile… e anche lo spazio infinito trasmette un senso di claustrofobia asfissiante. Cosa può fare un bambino di dodici anni, nell’estate del 1948, nella campagne alla periferia di Tacoma nell’Oregon? Gironzola con la bicicletta e coccola la sua ingombrante solitudine, imbattendosi in altre solitudini. Ascolta i saggi anziani che parlano del passato e della Grande Crisi. Spesso va a trovare il vecchio alcolizzato, di cui tutti hanno paura, che vive in una capanna fatiscente. Oppure spia la coppia di grassoni che ogni giorno si porta dietro il salotto di casa, arredando il loro pezzo di riva sul laghetto, per mettersi comodi sul divano a pescare carpe. Oppure ancora, può scorrazzare con la bicicletta insieme a un altro bambino solo come lui. In tutta questa solitudine e in tutta questa libertà può anche scegliere di fare quello che vuole ma… che sia estate o che sia inverno, sono poche le scelte che ha a disposizione. Può scegliere di raccogliere le lattine del suo amico alcolizzato e venderle per pochi centesimi. Può scegliere di spendere quei pochi centesimi per comprare dei prelibatissimi hamburger. La scelta che può rompere la sequenza della normale routine concessa a un bambino è quella di spendere i centesimi per dei proiettili invece che per l’hamburger; girare con un fucile sottobraccio a cavallo della sua bicicletta e provare a fare una battuta di caccia con il suo coetaneo. Tanto nel 1948, in un Paese che ancora si lecca le ferite inferte dalla guerra mondiale, nessuno fa caso a un piccolo adolescente che va in giro con un fucile sottobraccio e che compra proiettili invece che hamburger. Soltanto che qualcosa va storto, come può succedere nelle dinamiche infantili alle prese con situazioni da adulti. Un proiettile vagante colpisce il suo amichetto e lo uccide. Il romanzo “American Dust. Prima che il vento si porti via tutto”, uscito nel 1982, (il cui titolo originale è “So the Wind Won't Blow It All Away”) è la ricostruzione mnemonica di un uomo adulto che prova a ripercorrere le istantanee che hanno portato all’incidente. Il bambino protagonista è l’alter ego dello scrittore Richard Brautigan. Il peso del rimorso, la solitudine ma anche la spensieratezza fanciullesca e piacevoli scosse di ironia pervadono le pagine di questo breve e immenso romanzo. Insieme alla poesia che cadenza ritmicamente i capitoli e che afferra il cuore con senso di amarezza e sollievo insieme… “So the wind won’t blow it all away… Dust… American dust…”. I ricordi sono incasellati in maniera casuale come quando si sfoglia un album fotografico e ogni fotografia è totalmente a fuoco nel suo essere sfocata. Lucida, spietata, divertente e dolente. Una boccata d’ossigeno che ricrea i flussi d’affezione nei confronti di un libro che una volta che l’hai letto non puoi più abbandonare. Richard Brautigan scrive questo racconto nel suo periodo di depressione massima. Alla fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, quando sono lontani ormai gli anni della gloria e del successo internazionale ottenuto con “Pesca alla trota in America” uscito nel 1967 (e che ha fatto riscoprire tutti i suoi lavori precedenti, facendone, suo malgrado, icona della stagione artistica Hippy). Sono invece presenti le angoscianti riflessioni sul Sogno americano e sul commercio libero di armi che ogni anno produce stragi fratricide fuori controllo. Sceglie infatti di ambientare il suo racconto nel cosiddetto periodo di pace postbellica, subito dopo il decennio della Grande Depressione (economica) e la fine della seconda guerra mondiale. Negli anni della ricostruzione, proprio alle radici del consolidamento del Sogno americano… e sceglie di parlare di gente schiacciata da questo sogno; coglie proprio il momento di passaggio, quella linea invisibile che, una volta varcata, ha posto fine alla capacità della gente di fantasticare, con il colpo di grazia inferto dall’avvento della TV. I suoi personaggi senza nome sono dei vinti, e questo romanzo nella sua leggerezza si inserisce con forte determinazione  nella grande epopea letteraria degli sconfitti. Polvere da ricordare, o da dimenticare, prima che il vento spazzi via tutto. Prende spunto da un episodio realmente accaduto nella sua vita, contrassegnata durante l’infanzia da violenza, dipendenze, un continuo cambio dei punti di riferimento genitoriali in una famiglia estremamente instabile. Sicuramente, un grande senso di solitudine è presente, nella sua esistenza, sin da bambino ma, l’incidente occorsogli con il fucile, nella realtà, non porta alla morte del suo coetaneo; gli procura soltanto una ferita all’orecchio. Nel farla riemergere a galla però, forse per un escamotage letterario, forse perché ormai vede ogni singolo frammento della sua vita sotto la lente della sindrome depressiva affogata nell’alcol, i fatti si enfatizzano e il logorio dei rimorsi si amplifica, insieme al senso di inadeguatezza, scavando nella sua sensibilità artistica. La giocosa malinconia che caratterizza la sua prosa porta alla creazione di questo capolavoro ma anche alla consapevolezza di non poter tornare più indietro, di aver oltrepassato un limite oltre il quale niente ha più senso e non rimane che togliersi la vita. Una ferita d’arma da fuoco, appunto, inferta alla tempia, a soli quarantanove anni, nel 1984, pone fine alle sue sofferenze nella totale solitudine della sua casa di campagna di Bolinas in California. Con la consapevolezza ulteriore di aver finalmente scritto il libro che aveva sempre sognato di scrivere. So the wind won’t blow it all away… Dust… American dust…