domenica 16 novembre 2025

Scott LaFaro: Quella maledetta voglia di dialogare

Per la rubrica: Archeologia musicale, l'esatto momento in cui, alla metà degli anni cinquanta nella scena jazz, il contrabbasso si emancipa da semplice strumento di accompagnamento e incomincia a brillare di luce propria. 



Il contrabbasso ha sempre avuto un ruolo di accompagnamento agli altri strumenti, a sostegno della batteria. Nel Jazz ci sono stati e ci sono ancora grandi contrabbassisti, che hanno un bel senso del tempo, un bello swing, con la personalità e il feeling necessario a supportare il brano musicale in esecuzione, facendo in modo che non scenda il livello della base mentre un sax si lancia in un assolo, o il piano o la chitarra improvvisano fraseggi astratti. Scott LaFaro era uno di quei musicisti dotati di questa personalità e di questo sentimento, ma riuscì anche ad andare oltre. Fu il primo contrabbassista con una tecnica tale da poter sovvertire le partiture e iniziare ad usare un linguaggio simile a quello degli strumenti "nobili". Iniziò a improvvisare pizzicando con passione le quattro corde, scrivendo frasi melodiche complesse in grado di dialogare allo stesso livello con strumenti quale il piano o il sax. Dopo di lui il contrabbasso non sarà più lo stesso di prima. Bill Evans rimane folgorato dal suo talento e con lui instaura una sintonia totale, tanto da presentare un trio, con il batterista Paul Motian, in cui i tre strumenti hanno la stessa importanza, ed è la prima volta in assoluto nell'ambito jazzistico, sia dal vivo che nelle incisioni, che il contrabbasso non figura come semplice accompagnatore. E pensare che il contrabbasso non era neanche il suo primo amore musicale. Figlio di un musicista di chiare origini italiane, il suo nome completo è Rocco Scott La Faro, o Lo Faro, ma lui amerà firmarsi come Scott LaFaro. Nato a Newark ma trasferitosi con la famiglia a Geneva, respira e s'impregna di musica fin da bambino. Suona il piano, ma a meno di sedici anni sa esprimersi perfettamente con il sax e il clarinetto. La propensione verso l'arte lo porta ad esibirsi nei locali notturni della sua città dove inizia l'amore per il contrabbasso. Per un periodo suona in un complesso che propone prevalentemente R'n'B, ma non è il suo genere. Si iscrive al college ma non è la sua strada. Un incidente sportivo, che gli procura una ferita al labbro, gli impedisce di esercitarsi al sax per qualche settimana e per lui è drammatico, perché ogni attimo è fondamentale per allenare l'estro. Ma il suo periodo di disorientamento non dura molto, nel 1956 conosce Chet Baker ed entra a far parte del suo quintetto. Scopre che il jazz è il suo genere e il contrabbasso il suo strumento. La frequentazione di musicisti più esperti gli permette di affinare la sua tecnica, sviluppando una notevole precisione d'intonazione e arricchendo il frasario improvvisativo. Il suo talento ben presto lo mette in risalto e dal 1957 inizia un vorticoso periodo di collaborazioni che lo vede suonare accanto a quasi tutti i più grandi jazzmen di quegli anni, riuscendo ad imporre ad ognuno di loro la sua maledetta voglia di dialogare a livello musicale e di non figurare mai come un semplice comprimario. Registra "Latinsville!" con Victor Feldman. Partecipa alla registrazione dell'epocale "Free jazz" di Ornette Coleman. Suona nelle orchestre di Pat Moran, Stan Getz, Stan Kenton, Tony Scott, Benny Goodman solo per citarne alcuni. La sintonia maggiore, ovviamente, la prova con Bill Evans, che appena lasciato il quintetto di Miles Davis, può così proporre la sua idea di jazz, in cui gli strumenti sono tutti protagonisti allo stesso modo, con Scott appunto e Motian alla batteria. Scott grazie alla sintonia instaurata con Evans e Motian può mettere a punto la sua teoria di composizioni simultanee che porteranno alla produzione di tre album considerati capolavori del genere: "Portrait in Jazz" del 1959 e nel 1961 "Sunday at the Village Vanguard" e "Waltz for Dabby" in cui compaiono le uniche composizioni realizzate dallo stesso Scott. Quando Bill Evans riceve la notizia dell'incidente stradale che toglie la vita a Scott, rimane talmente scosso che non riesce a suonare per un anno. È il luglio del 1961 e Scott ha soltanto venticinque anni. La sua vita è bruciata in fretta così come ardeva potente il suo genio che in un brevissimo lasso di tempo è riuscito a cambiare il modo di suonare il contrabbasso per sempre.








domenica 2 novembre 2025

Linguaggio distillato

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Sara Bini sulla capacità trasformative della poesia, sulla sua potenza di raggiungere gli animi affini, su come possa elevarsi a forma di catarsi e tanto altro…
                             

Sara Bini è una poetessa, cantautrice e counselor a mediazione artistica. Nel 1997 ha pubblicato la silloge di poesie “Sehnsucht –Nostalgia dei Senza Terra”, con cui ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale di Poesia e Narrativa “Cinque Terre”, nel settore Silloge Edita. Nel 2019, con Lilit Books, è uscito il suo saggio “I figli di Lilith. Un tributo a Isolde Kurz e al Divino in ogni donna”. Nel 2022 ha pubblicato “Suono, Scrivo, Creo e Canto”, un saggio sulla creatività e sul songwriting. Sempre lo stesso anno, con Delta 3 Edizioni, ha fatto uscire la sua silloge poetica ‘Ultrafania’. Nel 2024, con Interno Libri, è uscita la sua sua raccolta poetica “Cristalli” e nel 2025, Transeuropa Edizioni ha pubblicato la sua raccolta di liriche “D’inCanti diVersi’ nella collana ‘Nuova Poetica’. È autrice del blog “Nostalgia dei Senza Terra”, e sul suo omonimo canale YouTube si possono ascoltare alcune delle sue poesie e canzoni.

Riferimenti social: Blog: www.sarabini.blogspot.com 

Canale YouTube: https://www.youtube.com/@SaraBini

Instagram: Sara Bini Songwriter

La Via della Poesia 

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Molto presto. Ho scritto la mia prima poesia a otto anni, osservando la fiamma di una candela. Penso di aver intuito quasi subito che, in primis, la poesia rappresentava per me la via di comunicazione privilegiata con la mia parte più nobile, elevata ed eterna. Di conseguenza, è diventata il medium privilegiato per connettermi con le anime affini, coloro che hanno una sensibilità simile alla mia e si riconoscono in questa forma espressiva. La comunicazione è sempre una questione di codici e frequenze, più siamo sintonizzati sugli stessi ‘canali’, meglio ci si comprende. Nella maggior parte dei casi, la poesia è linguaggio distillato: tanta informazione (emotiva, cognitiva, spirituale) compressa in poche parole o suoni. Il risultato è che il messaggio assume una maggiore forza di penetrazione, impatto e potenza.

Che rapporto hai con la poesia? 

La poesia è una delle mie poche certezze: è una forma di Presenza, nel senso più alto del termine. Si fa carico dei miei abissi e li trasmuta in splendori. Non può risolvere le tempeste o le sofferenze della vita, ma le può cantare in bellezza. Questa è già una forma di catarsi e redenzione. 

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

La parola un tempo aveva un valore sacrale e creativo, basti pensare a tutte le cosmogonie che iniziano con l’emissione di un suono da parte di una potenza divina. Adesso, in un’epoca in cui si privilegia l’apparenza, la parola perde la sua connessione con la verità essenziale e diventa facilmente strumento di divisione e manipolazione. Un esempio di questo è il continuo conio di etichette e categorizzazioni che facilitano la polarizzazione degli animi e l’identificazione emotiva con un ‘gruppo’. Al giorno d’oggi, occorre affinare la percezione per intuire la qualità delle intenzioni e delle motivazioni celate nei bei discorsi e verificare gli esiti, spesso distruttivi, che essi in realtà producono. 

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Questa domanda si aggancia idealmente alla conclusione della mia risposta precedente. Se leggiamo poesie o ascoltiamo canzoni scritte dall’intelligenza artificiale, da un punto di vista formale possono risultare assai migliori di quelle che potrebbe creare un essere umano ordinario. Ma a livello di contenuti e di calore emotivo? Può una macchina o un algoritmo riprodurre quel guizzo di genio che capovolge la prospettiva ordinaria su un dato argomento o su una determinata situazione? Può una macchina generare emozioni e trasmetterle? L’intelligenza artificiale compete con quella naturale solo se noi perdiamo la nostra umanità, perfetta nella sua meravigliosa imperfezione, anestetizzando il nostro sentire e il nostro pensare.

Qual è la tua opera (o le tue opere) in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Per quanto riguarda la poesia, la mia ultima silloge, “D’inCanti diVersi” è forse l’esito più compiuto di tutta la mia produzione, e non solo perché è l’ultima creazione in ordine di tempo. D’altro canto, reputo la mia opera più riuscita il poemetto ‘Con-Passione’, che ho scritto nel 2005 a 27 anni e che ha avuto una genesi, per me, ancora fonte di mistero. “D’inCanti diVersi”, invece, incarna o “in-carta” la piena consapevolezza del mio stile e dei miei strumenti di poetessa, maturati in quarant’anni di sperimentazioni e ispirazioni. In questa raccolta, l’esperienza di vita e la padronanza tecnica hanno raggiunto una maturità espressiva che coniuga in modo molto limpido pathos e logos, sentimento e plasticità formale.

                                   

La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Grazie al mio lavoro e agli ambienti che frequento, ho avuto il piacere di scoprire che diversi adolescenti scrivono e leggono poesie. Per chi di loro non ama questo genere, mi chiedo quanto, a scuola, noi insegnanti siamo capaci di trasmettere quel fuoco che ha animato i grandi poeti di ogni tempo. Nonostante io fossi già predisposta alle materie umanistiche, devo comunque ringraziare quei professori e quelle maestre che hanno saputo alimentare in me l’amore per la lettura, la letteratura e la corrispondenza ideale con i poeti di ogni epoca e luogo. Credo che la Poesia continuerà sempre a parlare agli animi svegli e pronti, a dispetto dell’età anagrafica. Non smetterà di bussare anche alle porte degli spiriti “assonnati”, aspettando il momento giusto per poter entrare e consegnare i suoi doni e i suoi misteri. 

                       



giovedì 16 ottobre 2025

Lo Scompiglio- Opera in 2 atti

 Soltanto un musicista più pazzo di me poteva coinvolgermi nella stesura del libretto di un'opera lirica.

Non è stato facile, riuscire a coniugare le esigenze del compositore Marco Pofi con la mia visione, ma alla fine siamo pervenuti alla creazione di qualcosa che assomiglia davvero alla favola della chimica della vita.

E così, grazie soprattutto all'accoglienza dell'Accademia Filarmonica Europea con Ernesto Celani Direttore Artistico, con la direzione orchestrale del M* Claudia Martini, si va in scena, sabato 25 ottobre.






domenica 12 ottobre 2025

Un nuovo approccio al caos

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Manuela Faella, sul valore confidenziale della poesia, sul peso delle parole, sulla possibilità di guardare il caos con nuovi occhi.



Manuela Faella si occupa da anni di scrittura e di editoria. Ha collaborato alla stesura di un’enciclopedia storico-geografica presso una casa editrice molisana; ha lavorato presso la redazione romana della rivista “Firma”; ha scritto testi per Officina Rambaldi; ha operato privatamente come ghost writer. Ha lavorato per molti anni presso la casa editrice Pagine di Roma. È stata redattrice e curatrice della rivista trimestrale di storia contemporanea “Nova Historica”, ha collaborato con le riviste “Poeti e Poesia”, “Equipeco” e, più recentemente, con “Almanacco della Scienza CNR” con recensioni e articoli sulla poesia contemporanea. Si è dedicata in passato all’ideazione e organizzazione di reading, in cui sono stati ospitati giovani poeti, tra gli altri: “Reading Poems” e “Tre di-versi”, nel quartiere di San Lorenzo a Roma, dove vive e lavora. Ha personalmente partecipato a molti reading collettivi recitando i propri testi. Ha pubblicato una raccolta autoprodotta dal titolo “Vortici” (Roma, 2005); il libro di poesie “Dove sei padre”, (Terresommerse, Roma, 2007); le sue poesie su molte antologie e riviste letterarie tra cui, più recentemente, “Amicizia Virale” (Progetto Cultura, Roma, 2021) e “La Nave di Amleto” (Progetto Cultura, Roma, 2023).

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un’importante forma di comunicazione?

Come lettrice da che ho memoria di banchi di scuola e di libri tra le mani. Leggevo molto ai tempi del liceo, adoravo tuffarmi per ore dentro le pagine delle mie poetesse e poeti preferiti e capire che non ero la sola ad avere alcune idee, a provare certi sentimenti; loro comunicavano con me attraverso i loro versi. Quanto a scrivere, da quando morì mio padre, avevo 20 anni. Lo strappo del mio primo lutto genitoriale, capitato in un’età già di per sé già intensa di emozioni e paturnie varie, fu talmente doloroso da cambiare intimamente il mio modo di sentire e molte altre cose. Quelli che seguirono furono anni di difficile gestione, per usare un eufemismo, non mi bastava più scribacchiare sul diario per sfogarmi e decisi di provare a pubblicare, sentivo l’esigenza di comunicare in modo più ampio quello che mi stava succedendo, per condividere e cercare conforto: se la comunicazione poetica funzionava da lettrice, allora avrebbe potuto funzionare anche da scrittrice… Il mio primo libretto fu un lavoro autoprodotto dal titolo Vortici. Poi cominciai a scrivere con più costanza e attenzione, fino alla pubblicazione di Dove sei Padre, diversi anni dopo. Recentemente ho pubblicato La Tolleranza del Caos. 

Che rapporto hai con la poesia?

Finora è stata la mia migliore amica. Mi ha confortato sia leggerla che scriverla, c’è sempre stata quando l’ho cercata, mi ha alleviato i dolori e la solitudine di certi momenti, mi ha fatto emozionare, riflettere, divertire, esprimere, sfogare, ha riempito gli spazi vuoti. Vorrei provare adesso a trasformare questo rapporto di amicizia così personale e intimo in qualcosa di meno autoriferito e autobiografico. Uscire un po' dall’idea della poesia come espressione della mia persona, osservare meglio ciò che ho intorno e raccontarlo, certo sempre attraverso il mio sguardo e quella che sono. Approfondire lo studio della parola, con impegno, ricerca, cura, dedizione, professionalità. Vediamo se ci riesco…

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

La parola non può non contare, conta sempre e sempre conterà, ha costituito la maggior forma di comunicazione da quando esiste fino ai nostri giorni. Quello che mi sembra cambiato nel tempo non è tanto il “contare” delle parole, ma l’attenzione ed il rispetto verso il loro utilizzo, è come se si fossero “alleggerite” di significato. Dal mio punto di vista, in passato le parole erano di meno e pesavano di più, esprimevano meno concetti ma chiari e fissi, adesso sembrano avere l’urgenza di moltiplicarsi per disintegrare il pensiero e rafforzare il caos che ci caratterizza in questo momento storico. Siamo sovrastati da milioni di parole al giorno, scritte, parlate e udite in modo facile, accessibile, veloce, confusionario, confuso e confondente. Ognuno di noi può parlare e comunicare in un secondo con moltissime persone con tutte le parole che vuole (mail, social, chat etc.), senza limiti dettati dallo spazio di una pagina o di una colonna di un articolo di giornale; le parole di ogni singola persona si moltiplicano per milioni di persone in pochi attimi… Cito, per il mio augurio che quanto prima si ripristini il giusto “peso”, i versi di una canzone dei C.S.I, gruppo che ho molto amato: ho dato al mio dolore la forma di parole abusate che mi prometto di non pronunciare mai più. Dovremmo prendere esempio, pensare un attimo in più a quello che scriviamo e diciamo prima di scriverlo o dirlo, scrivere meno e meglio, leggere meno e meglio, parlare meno e ascoltare di più – se fossimo migliori ascoltatori saremmo anche migliori scrittori e oratori. Questo per non doverci pentire di ciò che diciamo o scriviamo (le idee passono, anzi devono cambiare), anche perché nell’epoca di internet è tutto ancora più indelebile. 

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell’intelligenza artificiale?

Sto ancora riflettendo su questa rivoluzione, mi sto ancora informando e aggiornando, non ho ancora un’idea chiara e di conseguenza un’opinione e una posizione in proposito. Una cosa però mi sento di dirla, anche se non escludo di poter essere smentita: la parola umana esprime un vissuto, ciò che ognuno di noi racconta attraverso le parole porta con sé il carico di ciò che ha visto e fatto, l’attraversare degli anni e dei cambiamenti, l’esperienza, l’intensità di alcuni momenti, la gioia, il dolore, insomma la vita reale e quotidiana, quella che ti lascia in faccia un pezzo di ruga al giorno. Aggiungo che ognuno di noi è unico ed ha una storia di crescita unica e irripetibile in modo perfetto, di conseguenza per quanto l’IA possa, interrogata con un giusto prompt, scrivere sonetti, poemetti, racconti etc, ciò che scriverà non potrà mai essere la derivazione di un’esperienza personale quindi, in un certo senso, unica e autentica. La parola umana e quella artificiale possono sicuramente interagire e completarsi. Se dovessero sfidarsi, probabilmente in ambiti di lavoro e simili vincerebbe IA perché sicuramente più erudita (non c’è paragone tra i dati che IA processa in un secondo e quelli che deteniamo noi nel nostro cervello), ma dove c’è arte, racconto, sentimento, espressione artistica la parola umana avrebbe più armi. 

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?

Sicuramente i testi in cui mi riconosco di più sono quelli di La tolleranza del caos, ultimo libro pubblicato per i tipi di Ensemble (giugno 2025). L’opera raccoglie poesie scritte in 18 anni, dall’uscita nel 2007 del mio secondo libro Dove sei Padre. Ho raccolto in tutto questo tempo moltissimo altro materiale, ma quella pubblicata è la breve selezione che mi sono sentita di fare, per convinzione sulle poesie e perché è stato possibile metterle in ordine costruendo una linea temporale che parte da molto indietro. Questo libro è quello che maggiormente mi rappresenta perché descrive in quattro tappe di fatto tutta la mia vita finora. Costruirlo, oltre che scriverlo, per me è stato un lavoro importantissimo, ho ricordato e rivissuto l’infanzia, i momenti bui attraversati dopo la morte di mio padre, la mia vita da adulta e da madre, fino a diventare quello che più o meno sono ora: una persona che sta tentando un nuovo approccio al caos insensato che governa il mondo. Non più il tentativo di comprenderlo, accettarlo, metterlo in ordine e controllarlo, piuttosto sto provando a tollerarlo, portando pazienza nei confronti di una strana e sadica entità che non capisco, non accetto, non posso né ordinare né controllare ma con cui non posso fare a meno di convivere. In questo libro mi identifico di più perché mi identifico in ogni sua parte, perché ogni sua parte rappresenta una parte di me e della mia storia. Le altre opere sono parziali.

La poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?

Si assolutamente, anzi mi sembra che la poesia stia vivendo un momento di grande popolarità tra i giovani. Forse Leopardi, Ungaretti o Montale fanno fatica, ma ci sono tantissime poetesse e poeti emergenti che, essendo essi stessi espressione delle nuove generazioni, arrivano dritto ai cuori dei ragazzi (non cito alcuni nomi per non dimenticarne altri che lo meriterebbero ugualmente). La poesia, come tutto il resto, è cambiata nel tempo. Ci sono nuovi contenuti, nuovi stili e anche nuove forme, per esempio la poesia performativa, rap, hip hop, il poetry slam, che hanno riportato in vita assonanze, allitterazioni e rime per molto tempo accuratamente evitate dalla poesia contemporanea, pena la ridicolarizzazione dei versi. Queste forme di comunicazione poetica oggi funzionano benissimo con i più giovani, e non solo.





domenica 28 settembre 2025

Sam Cooke: A Change Is Gonna Come

Per la rubrica: Archeologia musicale, l'incredibile storia di uno dei rappresentanti più significativi agli albori del genere che verrà battezzato: Soul.



La sua voce era inconfondibile, sin da ragazzo; se ne erano accorti tutti, soprattutto i membri del coro gospel di cui faceva parte. Il gospel fa parte di quella categoria di musica considerata sacra, e quando Sam registra il suo primo pezzo al di fuori del coro di appartenenza, non basta che cambi nome, da Sam in Dale, lo riconoscono ugualmente e si grida allo scandalo, perché usa la sua voce, non come di consueto, per intonare inni sacri, ma per un'incisione considerata profana. Il brano in questione, Lovable, registrato nel 1956, che fonde la spiritualità gospel alla calda materialità rhythm and blues, virando verso il pop, dà vita a un nuovo genere musicale, poi battezzato Soul, la musica dell'anima. Il reverendo del coro comprese la potenza vocale del suo adepto e concesse il perdono, anzi diede anche il suo bene placito per continuare a cantare in quel modo. Così Sam passò alla corte del profano e in maniera profana condusse tutta la sua breve vita. Decise di aggiungere una "e" al suo cognome, trasformandolo da Cook in Cooke, sostenendo che in quel modo fosse più elegante. Forse alla base di questo cambiamento c'è la volontà di porre una sottile distanza tra il suo nome e quello di suo padre che era un Ministro della Chiesa Battista. Sul suo conto si vociferava che canticchiasse il motivo della sua canzone più famosa, Wonderful World, a tutte le donne che voleva conquistare. "Non so molto di storia, non so molto di biologia, non so molto di algebra, ma so tutto sull'amore". Sì, sapeva tutto sull'amore e sulle donne. Non si tiene il conto delle donne che ha amato. Le donne, però, da lui tanto desiderate, furono anche il motivo delle sue disgrazie. Tra le numerose avventure si contano anche dei matrimoni in piena regola, ma tutti più o meno fallimentari. Fu sempre a causa di una donna che trovò la fine della sua vita. La dinamica dell'episodio non è ben chiara, ma da quello che è stato ipoteticamente ricostruito si sa che si trovava in un motel con la sua "ultima" conquista, mentre la sua "ultima" moglie lo aspettava a casa. In un momento di caos, scoppiato a causa di un furto, subito da Sam dalla stessa donna che era con lui, sembra che il cantante abbia aggredito seminudo la direttrice del motel in cerca di spiegazioni. La signora impaurita, colta dal panico, trovò la pistola che usava per proteggersi ed esplose dei colpi alla cieca, uno di questi raggiunse il cuore di Sam, ponendo fine alla sua vita a soli trentatré anni. Il processo in maniera molto sbrigativa stabilì che si trattava di legittima difesa. Tutti i suoi pezzi più famosi parlavano d'amore e nel giro di pochi anni le sue dichiarazioni cantate fornirono materiale fondamentale per il genere Soul. Sono indimenticabili brani come You Send Me, Lovable, Cupid, Wonderful World, Bring It On Home To Me. Le modalità della sua morte, la prematura dipartita e la fama di donnaiolo spesso offuscano il ricordo della sua carriera e della sua sensibilità, che invece, era profondamente sofferente, perché colpito dalla perdita del figlio tragicamente annegato nella piscina di casa a soli diciotto mesi, ed era altresì attenta alle problematiche sociali. Nello stesso anno in cui ha subito la batosta emotiva, ed è ancora intento a metabolizzare il dolore, esce la canzone di Bob Dylan Blowin' In The Wind, ne resta fatalmente catturato, tanto da decidere di voler aiutare la sua gente con la sua arte e sempre nel 1963 compone una delle canzoni di protesta più importanti della storia della musica: A Change Is Gonna Come. Il brano che invoca un cambiamento immediato era una risposta alle domande poste dal brano di Dylan e divenne l'inno per i diritti civili degli afroamericani. Lui non ebbe mai la soddisfazione di vedere prendere il volo alla sua creatura, perché pubblicata nel 1964 pochi mesi prima della sua uccisione e inizialmente si era rivelata come un insuccesso commerciale rispetto alle sue precedenti. Innumerevole è la lista di artisti influenzata da questo brano a partire da Bob Dylan stesso, che ne propose una cover, a Bob Marley che si ispirava alle capacità vocali di Cooke. Senza dimenticare John Lennon, Bruce Springsteen, e vari rapper della nuova generazione. Una canzone di protesta, quindi, ma intonata dalla voce Soul di Sam, che raggiunge vette elevatissime e si presta alla seduzione gutturale, una voce celestiale e profana che scaturisce direttamente dall'anima, risuona, anch'essa, come una canzone d'amore dedicata all'umanità intera.









 







domenica 14 settembre 2025

Tra poesia e canzone

Claudio Orlandi, voce dei Pane, in questa conversazione, ci porta dentro il suo universo: il rapporto con la parola, le influenze poetiche e musicali, l’incontro con il pubblico, il ruolo della poesia oggi – tra umanità e intelligenza artificiale.


Claudio Orlandi è nato nell’agosto del 1973 a Roma, dove si è laureato in Scienze Politiche. Voce e autore dei testi del gruppo musicale Pane, con il quale ha realizzato cinque dischi: Pane (2003), Tutta la dolcezza ai vermi (Lilium, 2008), Orsa Maggiore (2011), Dismissione (Sossella, 2014), The River Knows – A Tribute to the Doors (2018). Del 2009 il disco Corde e martello in duo piano e voce. Dirige sul proprio canale YouTube Radio Pomona, proposta di letture di testi poetici. Nel giugno 2021 pubblica con Tic edizioni Il mare a Pietralata. Poesie e canzoni 1990-2020. Dal gennaio 2025 è parte della redazione del blog letterario "Fissando in volto il gelo".

Info _ Blog personale di Claudio Orlandi 

https://orlandiclo739.wixsite.com/claudioorlandi

Canale Youtube gruppo Pane

https://www.youtube.com/@progettopane/videos


Quando ti sei accorto che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Forma di comunicazione, ma anche di conoscenza. Ma come prima dimensione, credo la poesia sia un modo per esprimere le proprie emozioni in relazione alle proprie esperienze di vita. In questo senso ho iniziato a scrivere – come molti – le prime poesiole in età adolescenziale, cercando di raccontare, descrivere in modo personale quello che mi colpiva. Aspirazioni, visioni, amori, le possibilità che immaginavo davanti a me. Col tempo, quella che era un’attività spontanea e quasi istintiva è diventata una consuetudine, forse anche un modo di essere. In seguito ho poi iniziato ad usare la voce e scrivere i testi per le canzoni, e da allora le due strade – poesia e canzone, testo e voce – hanno continuato a intrecciarsi, ed eccoci qui. 

Che rapporto hai con la poesia? 

Come accennato la poesia, per me, è fondamentalmente una delle possibilità espressive dell’uomo, in qualche modo è connaturata a noi stessi. In realtà tutti compongono poesia ogni giorno, che essa sia scritta o resa come atto del vivere quotidiano. Nel mio caso, a parte le letture scolastiche, negli anni giovanili, una figura centrale per la crescita è stata Jim Morrison. Mi viene in mente una sua frase “La suprema arte è la poesia, poiché ciò che ci definisce come esseri umani è il linguaggio”. Come noto, Morrison leggeva tantissimo e scriveva poesie. ‘The Doors’ deriva da ‘The Doors of Perception’ un saggio scritto da Aldous Huxley che prende spunto dal noto verso di Blake: "Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è, cioè infinita." Morrison da ragazzo era appassionato della Beat Generation, di Jack Kerouac, ma anche di Arthur Rimbaud; così che anch’io, ho iniziato da giovanissimo a leggere i testi Beat, in particolare Allen Ginsberg di “Juke box all’idrogeno” e il genio di Charleville. La poesia, quasi in modo naturale, è sconfinata, “evoluta”, nel teatro-canzone, nel concerto, nell’esibizione scenica. Sono rimasto nel solco di quelle prime forti ascendenze culturali. Nel tempo – ho superato anch’io il mezzo secolo - la relazione con la poesia si è sviluppata, arricchendosi di continue letture, domande, incontri, questioni che costellano fino ad oggi il pensare quotidiano.  

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Sicuramente la parola è il vettore più comune e manifesto per l’espressione poetica, ma esiste anche tanta poesia che non necessariamente utilizza la parola, il segno scritto convenzionale. In ogni caso la parola è anche uno strumento e come tale può essere utilizzato in tanti modi e da soggetti differenti, con finalità diverse. Se leggo “massimo abuso telematico” mi viene in mente il monumentale “1984” di Orwell, e come il regime utilizzi la parola per gestire il dominio totalitario. Ecco, in questi anni, mi sembra che il Potere stia veramente utilizzando con sempre più forza la parola per le proprie finalità. Studiare la parola significa allora, non solo costruire l’immaginario (il mare a Pietralata) ma anche essere in grado di smascherare la propaganda, decostruire i castelli, le narrazioni farlocche e porre versioni alternative, conflittuali e resistenti. Probabilmente è per questo motivo che il Potere ha sempre ricoperto di lode i poeti di corte e cercato di ridurre al silenzio i poeti dissidenti. Il Potere non può nulla contro il poeta discorde, l’eretico, il disertore, se non cacciarlo. Per questo una delle patrie di elezione del poeta è l’Esilio. 

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Rivolgo la domanda direttamente all’AI, ecco la sua risposta: “«La parola umana e quella dell’intelligenza artificiale non sono davvero in competizione: nascono da due fonti diverse. La parola dell’uomo porta con sé la memoria del corpo, l’ombra dell’esperienza, la vibrazione delle emozioni. La parola della macchina, invece, è costruzione statistica, una combinazione possibile tra milioni di altre parole. Eppure possono interagire: la parola artificiale può diventare uno specchio, un’eco, un contrappunto che stimola nuove vie. Ma il senso, il gesto creativo, rimane umano, perché senza vita vissuta la lingua resta pura superficie. Forse il compito dell’uomo oggi non è difendere la parola, ma abitarla con più forza, renderla sempre più incarnata. Perché il rischio dell’intelligenza artificiale è produrre un linguaggio fluido, levigato, che non conosce ferite. La poesia, invece, nasce proprio dalle crepe: dal silenzio, dallo strappo, dall’eccesso che nessuna macchina può calcolare.» Mi sembra una bella risposta 😉 

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Come detto “Il mare a Pietralata” è una raccolta di poesie e testi dell’arco di trenta anni. È un corpo polimorfo nel quale sono contenute varie fasi. Così per i dischi Pane. Sono stati realizzati a distanza di diversi anni l’uno dall’altro e ciascuno rispecchia il momento. Il prossimo disco sarà una rappresentazione dell’oggi. Mi riconosco nel percorso complessivo. Per quanto riguarda le canzoni, penso che “L’Umore” sia ad oggi uno dei nostri pezzi più riusciti. 



La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Ovviamente sì. Finché ci sarà umanità avremo poesia. 


Visto che sei anche un musicista nasce spontanea la domanda se c'è un concerto tra quelli già fatti nella tua vita che ti è rimasto nel cuore e perché?

Eravamo a Trento, nel 2008, fine agosto, un caldo torrido. Ma non era il caldo il problema, quanto il luogo, piazza Dante - parco della stazione. Come tutte le stazioni che si rispettino, il parchetto era frequentato da persone borderline, per lo più stranieri in cerca di svoltare la giornata. Iniziamo nel pomeriggio a montare il palco e l’attrezzatura e subito si avvicinano persone non proprio raccomandabili e sensibilmente alterate dall’alcol e forse anche dalla nostra presenza. Sai quegli eventi che si organizzano per la “riqualificazione” di certi luoghi. Per farla breve dopo qualche momento di tensione e di dubbio sulla riuscita del concerto, si è giunti alla sera e abbiamo iniziato a suonare. Di colpo il parchetto, nella sua veste notturna si è riempito di persone che nel silenzio hanno ascoltato il live. E quelle stesse persone che avevano mostrato qualche diffidenza si sono ritrovate ad applaudire con entusiasmo. La musica aveva portato l’armonia tra tutti. Ci salutammo con grandi abbracci. 

Ci sono nuovi progetti?

Come accennato stiamo concludendo la realizzazione del nuovo disco, che contiamo di far uscire entro la fine dell’anno. Stile Pane, brani in italiano, quasi tutti di nostra scrittura ma con un dialogo forte con la poesia italiana contemporanea. Nati in tempi diversi – alcuni anche molti anni fa - ma modellati e ultimati in questi mesi. Tra pause forzate, meditazioni sonore e letture della realtà. Siamo soddisfatti, è un disco che ci rappresenta profondamente. 






giovedì 4 settembre 2025

Next Stop Martinsicuro

E si va in Abruzzo... a presentare il progetto Mitopoesia di frontiera... Insieme a me il Maestro Marco Pofi.  Introduce con le sue poesie la scrittrice Tiziana Ciampetti. 




domenica 24 agosto 2025

George Russell: La musica è fatta a scale


Durante il primo ricovero, a causa della tubercolosi, George Russell assiste dal letto dell'ospedale all'evolversi del secondo conflitto mondiale e ha la fortuna di incontrare il musicista che gli impartisce i fondamentali elementi per la geniale idea a cui lavorerà in futuro contribuendo notevolmente allo sviluppo teorico del Jazz. George è nato da un padre bianco e una madre nera, ben presto adottato, però, dalla coppia di coniugi Bessie e Joseph Russell. Il padre adottivo oltre ad essere uno chef era anche un educatore musicale e ha consentito a George di frequentare ambienti artistici fin da bambino. Da subito mostra una predilezione per la voce e la batteria che lo porta a vincere una borsa di studio.  All'uscita dall'ospedale frequenta il circolo culturale che gravita attorno all'appartamento di Gil Evans, insieme ad altri grandi jazzisti degli anni quaranta, ma i sintomi della malattia non sono scomparsi del tutto. Durante il secondo ricovero che dura ben sedici mesi, sempre a causa della tubercolosi, deve rassegnarsi alla sfortuna di perdere l'occasione di entrare a far parte della band di Charly Parker, ma ha la possibilità di mettere su carta la sua rivoluzionaria teoria. Il lavoro si chiama "The lydian chromatic concept of tonal organization" che propone l'utilizzo del modo lidio di suonare. Il Jazz è costituito essenzialmente da improvvisazione e i musicisti si affidano a delle scale tonali limitate. Il metodo di Russell importa metriche dalla tradizione gregoriana e quella più antica dei compositori greci per inserire modi musicali su scale cromatiche che prevedono lo spostamento dei semitoni allargando le possibilità improvvisative. Durante gli anni quaranta elabora le sue teorie mettendole in pratica per altri artisti come Dizzie Gillespie e Buddy Di Franco. Abbandonata la batteria decide di dedicarsi al piano e il debutto discografico avviene nel 1956 con "The Jazz Workshop" un disco dalle armonie originalissime e dense come se a suonare fossero più dei sei musicisti del sestetto. Lui compare come arrangiatore e come autore, al suo fianco, responsabile del pianoforte, c'è Bill Evans.  Un altro importante passaggio discografico lo scrive con "New York, N.Y." in cui al sax tenore troviamo John Coltrane, e con quello che forse è il suo capolavoro "Jazz In The Space Age" del 1960, progetti che riscuotono entusiasti consensi da parte della critica. Bill Evans e John Coltrane che collaborano con Georg Russell in questi dischi, fanno anche parte dello storico quintetto di Miles Davis, che nel 1959 registra "Kind Of Blue", riconosciuto come il primo album di Jazz modale della storia. I brani sono registrati e incisi senza fare le prove, e seguono alla lettera le teorie di George Russell. Le trame d'improvvisazione sono lasciate al talento e alla creatività del musicista, che non segue scale tonali ossessive e veloci come nel be bop, ma si arrampica su linee melodiche anche senza relazione apparente tra di loro. Ogni musicista interpreta a suo modo la partitura. Miles Davis alla tromba ha il suo mood lento che detta il tempo, il suo tempo, sospeso in volo come in continua tensione fra acuti e silenzi, Bill Evans risponde con il suo stile ricco di citazioni intellettuali e John Coltrane travolge tutto con la sua tecnica torrenziale che precipita e risale a valanga dalle scale modali. Coltrane, divoratore di teorie musicali, qualche anno più tardi firmerà un altro fondamentale album che arricchisce il genere: "Impressions", in cui esprime tutta la sua evoluzione emotiva ispirata da sonorità provenienti dai posti più diversi del mondo traducendola in frasi melodiche da capogiro. Per sfociare nell'apoteosi di "A Love Supreme" del 1964, un'immensa preghiera modale, che raccoglie tutte le religioni del mondo. Russell nel corso dei decenni ha applicato le sue teorie in molteplici settori musicali, anche in quello classico, collaborando con i più grandi artisti dei nostri tempi. Muore nel 2009 all'età di ottantasei anni ma senza la giusta risonanza mediatica. Forse non ha raggiunto il grande pubblico né come batterista, né come pianista, ma come teorico e arrangiatore ha davvero contribuito allo sviluppo del Jazz con un termine che lui amava: Evoluzione, non rivoluzione. La sua teoria rappresenta davvero una forma di evoluzione e merita riconoscimenti planetari.








sabato 19 luglio 2025

Enrico (Henri) Crolla: Tra mandolini e Jazz Manouche

Per la rubrica: Archeologia musicale, la storia di un musicista che raggiunge il successo negli anni cinquanta, non facendosi influenzare dalle mode del momento, ma fondendo le radici mandolinare ai virtuosismi gitani e allo swing. 


La sua passione è pizzicare le corde della chitarra, fare danzare le dita tra la tastiera e la cassa del suo strumento, seguendo le melodie che viaggiano tra i pensieri. La sua memoria è un archivio denso di conoscenze musicali. La sua sensibilità lo rende capace di captare insegnamenti anche se non ha mai studiato. Non è precisamente un autodidatta, perché è nato in una famiglia di mandolinari ambulanti e, quindi, la musica la respira da quando è nato. Suo sogno fin da bambino, infatti, è possedere un banjo, per questo motivo va a suonare il mandolino, a meno di dieci anni, davanti ai locali dei quartieri eleganti, accumulando le elemosine. Quando finalmente Enrico Crolla si può esibire con la sua personale chitarra, incanta gli spettatori con il suo senso del tempo, l’eganza ricca di morbidi fraseggi virtuosistici, e il suo stile che fonde lo swing di New York e di New Orleans con le trame melodiche gitane, chiamate manouche, le tecniche flamenco, con elementi nostalgici legati alle radici mandolinistiche. Fin qui si potrebbe pensare che stiamo raccontando la storia di un musicista italiano e invece lui in Italia c'è soltanto nato, in un ospedale di Napoli nel febbraio del 1920, e nel Bel Paese è pressoché sconosciuto, perché all'età di due anni, durante il grande flusso migratorio degli anni venti, si trasferisce, con tutta la numerosa famiglia, in Francia, a Parigi, nel quartiere periferico di Porte de Choisy, denominato soltanto Zone, dove le baracche degli italiani immigrati e quelle degli zingari Sinti sono indistinguibili. Si può affermare che la sua avventura inizi proprio nella baraccopoli parigina. Enrico naturalmente continua a comportarsi come un italiano. Segue la tradizione di famiglia che è quella di suonare, che è anche il suo sogno, che insegue con il suo carattere allegro, anche introverso, ma nel guardarsi dentro può estrapolare dalla propria interiorità scintille di genio da offrire agli altri in maniera solare. Con il simbolo del sole, infatti, ama firmare in calce le sue composizioni, al posto del suo nome. Quelle baracche diventano la sua casa, perché in quel luogo intriso di contaminazioni musicali può sempre rimanere in contatto con la sua arte, grazie alle continue carovane di musicisti che portano strumenti e stili di musica da tutto il pianeta. E poi incontra l'uomo che con una mano deturpata, con soltanto quattro dita nella mano sinistra suona come se ne avesse venti. Quell'uomo è Django Reinhardt, il chitarrista leggendario che gli insegnerà tutte le più raffinate tecniche dello strumento a sei corde. Enrico non dimenticherà mai la grandezza del suo maestro, anche quando raggiunge il successo, e ogni volta che si esibisce in un locale e lo vede entrare immediatamente cede la sua chitarra per far posto al suo mentore. Quando Enrico suona si aprono tutte le porte, grazie alla sua musica ha la possibilità di conoscere il grande poeta Jacques Prévert, con il quale instaura un stretto legame artistico, come si può apprezzare dalle diverse incisioni frutto della loro collaborazione, e di amicizia, il poeta infatti lo inserirà nell'ambiente intellettuale parigino, dove il musicista potrà completare la sua formazione. Il suo eccezionale talento non passa inosservato, ben presto raggiunge il successo e i francesi lo amano al punto da volerlo naturalizzare, così il suo nome viene mutato in Henri, e il cognome pronunciato con l'accento sull'ultima vocale come è tipico in Francia. Durante gli anni di celebrità vive un intensissimo periodo di produttività. È laeder di una band che diviene di culto, Henri Crolla sa Guitare et Son Ensemble, viene incaricato di incidere ben quaranta colonne sonore di pellicole dove compaiono i più grandi attori francesi di quel periodo come Brigitte Bardot e Jaen Gabin. Viene ripreso mentre accompagna alla chitarra Yves Montand (altro italiano famoso in Francia) che canta il celebre brano Tournesol nel film Souvenir de Paris. Nel pieno della sua carriera, a soli quaranta anni, viene stroncato da una malattia inguaribile, proprio come avvenne, sette anni prima, al suo maestro Django Reinhardt. Il suo talento sta tornando fortunatamente in auge grazie ai chitarristi della nuova generazione jazz, ma anche rock e blues, che apprezzano la tecnica elegante e contaminata del mandolinaro manouche.











domenica 6 luglio 2025

La parola inquieta

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Antonella Caggiano, sulla capacità della poesia di imprimere una direzione nell'inquietudine, far tremare dall'emozione scavando in profondità, porre le basi per l'ascolto. 


Antonella Caggiano vive a Pescara dal 2016, dove insegna materie letterarie. Ha collaborato a <<Il Roma>> e <<Il giornale di Napoli>>, divenendo giornalista pubblicista. Ha pubblicato: Estensioni, Galzerano editore,1990; Cronaca di uno zen annunciato, Albatros, 2010; Dolce di sale, con prefazione di Dante Maffia, Costa edizioni, maggio 2022; La vena delle viole, con nota, in quarta di copertina, di Davide Rondoni, Carta Canta editore, novembre 2023; Il ricordo perfetto, tradotto in romeno, Cosmopoli, Eikon Editori, 2025, il saggio Sassi di parole, Edizione Mondo nuovo, 2025. Le opere sono state accolte positivamente dalla critica. Molte poesie sono state tradotte in diverse lingue. Ha ottenuto importanti riconoscimenti in molti premi letterari. È giurata di premi letterari. È organizzatrice di eventi culturali. È membro dell’Accademia Internazionale “Mihai Eminescu”. Ha partecipato a diversi Festival internazionali della poesia. Collabora con riviste letterarie on line. Alcuni suoi testi sono presenti in antologie, fra le altre in: <<‘900 e oltre>> a cura di Roberto Pasanise e Gerardo Salvadori, introdotta da Pompeo Giannantonio, della facoltà di Lettere di Napoli; nella rivista <<Poeti e Poesia>>, curata da Elio Pecora.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Avevo undici anni quando ho avvertito l’intuizione della scrittura poetica. La prima volta è arrivata prepotente e improvvisa, in un’occasione familiare un po’ malinconica. Ne ricordo ancora esattamente la penombra e il suono delle voci come in uno sfondo da film. Non mi sono posta domande circa l’importanza, la vivo come forma linguistica che più di altre è congruente col mio sentire, cucendo su misura le visioni, le musiche. Il mio percepire è evocazione di parole che mi trastullano e mi fanno alzare di notte. La parola non è mai esatta, è sempre un cammino in fieri. La parola inquieta è quella che orienta la direzione.  

Che rapporto hai con la poesia? 

È un bene ed un male necessari. 

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

La poesia è atto di ribellione. Sempre lo è stato. Non segue le mode, ma ad esse si contrappone e le contraddice. È, anzi, anticipazione dei tempi. È intuizione che va affiancata alla conoscenza dei grandi poeti e poetesse che hanno creato e sperimentato. Su questa strada occorre proseguire, coltivando lo studio della parola in un sapiente gioco linguistico in cui si rivela la vera essenza umana in un’armonia dell’unicità nella diversità. Laddove la velocità della rete annichilisce e aliena, attraverso un linguaggio banalizzato e semplificato, la poesia rallenta, induce alla riflessione e umanizza.  

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale? Sapresti riconoscere uno scritto artificiale da uno umano? 

L'argomento è centrale nel dibattito contemporaneo su linguaggio, tecnologia e creatività. Va affrontato su due piani: interazione e competizione, e poi riconoscibilità. La poesia è mistero e il mistero getta la sua ombra nello spazio che esiste tra percezione ed espressione. In quello spazio la parola poetica è balbuziente, riflettendo l’imperfezione dell’uomo che, pur anelando all’infinito, sente e cade. Il sangue e la carne appartengono all’uomo. Le emozioni nascono dal corpo e sono parte di un’esperienza, un vissuto. Invece, le espressioni poetiche riprodotte dall’Intelligenza artificiale sono molto lineari, talvolta ripetitive e non vi si percepisce il trauma o la profondità autentica. L’IA, per quanto sofisticata, non sente. Questo limite è anche il suo tratto distintivo. Può emulare, ma non esperire. Tuttavia la parola umana e quella artificiale possono essere complementari. Utile si può rivelare l’IA nella ricerca, nell’offrire spunti, idee, tradurre, riassumere. In merito alla competizione, invece, l’IA ha superato di gran lunga l’umano per la velocità e l’efficienza. Non è una scoperta recente l’Intelligenza Artificiale. Anticipando quasi di sessant’anni, Primo Levi racconta l’attuale ChatGPT quando pubblica, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila, la raccolta di racconti di fantascienza Storie Naturali. In essa il racconto Il Versificatore è anche un macchinario acquistato da un poeta per velocizzare la sua scrittura poetica, così da accontentare la sua clientela. Ancora una volta l’intuizione arriva prima della scienza. l’IA è stata creata dall’uomo, ma non può certamente sostituirlo. L’uomo resta l’unico a poter sanguinare di parola. L’IA può imitare ma non tremare.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Solitamente è l’ultima. La vena delle viole è l’opera nella quale ritrovo il seme di intuizioni che hanno caratterizzato un lungo percorso. Il labor limae faticoso, durato anni, è segno di un anelito verso la ricerca della parola che incarni il più possibile con onestà quel sentire originario. È una silloge che mi ha richiesto tante energie per venire alla luce e che ha i miei colori. Ma la poesia è ricerca continua. Dunque l’opera che ancora non ho scritto è forse quella in cui maggiormente mi riconosco. 


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Quando a scuola si parla di poesia, l’interesse è alto. E pure la tensione. Bisogna prestare molta attenzione a come si comunica con gli adolescenti e a come si voglia trasmettere la parola poetica. Evitare che la poesia diventi meramente scolastica, assunta come compito, è prioritario. La poesia proposta come slancio in un linguaggio nuovo e come ascolto, crea em-patia, gancio per arrivare all’altro e a se stessi. Al termine di uno dei laboratori di poesia che normalmente conduco in classe, chiesi ai miei alunni di dire in poesia come si sentissero. Il più indisciplinato e disinteressato alle lezioni alzò la mano: “Mi sento una margherita calpestata” quasi urlò. Mi chiarì con poche parole quanto per anni non ero riuscita a comprendere. Il problema dei nostri giovani è che sono molto soli. Hanno bisogno di ascolto e di sentirsi liberi di esprimere emozioni. 



domenica 29 giugno 2025

Ghigo Agosti: il Rock and Roll in Italia

Per la rubrica: Archeologia musicale,  il fermento rivoluzionario del rock’n’roll prende il sopravvento anche in Italia,  in una scena musicale che sa riservare notevoli sorprese. 



Elvis Presley, Bill Haley, Chuck Berry ed altri guidavano la rivoluzione musicale che portava il mondo verso la rinascita, dopo la seconda guerra mondiale. Anche in Italia, con l’avvento della TV e l’apertura al mercato Internazionale, si sentiva la voglia di accogliere i nuovi generi. Nonostante il gusto popolare attingesse notevolmente al tradizionale melodico, non si trattava di un completo salto nel buio, perché il Jazz era già diffuso negli anni trenta con le grandi orchestre e lo swing si era imposto grazie ad artisti come Natalino Otto, il Trio Lescano o Alberto Rabagliati. Anche dal punto di vista musicale, oltre agli altri settori, il Belpaese aveva voglia di decollare, basti pensare al successo di Domenico Modugno Nel Blu dipinto di Blu, cantata con le braccia allargate come ali nell’invito a prendere il volo. Succede tutto molto velocemente e in pochi anni. Tra i primi a proporre una cover di un brano rock and roll ci sono i membri del Quartetto Cetra, anche se la loro versione di Rock Around The Clock (ribattezzata L’Orologio Matto, 1956) fa lo stesso effetto di una tisana al malto bevuta in un whisky bar. Forse, però, era necessario edulcorarla per presentarla ad un pubblico più ampio: il pubblico televisivo che stava formando i suoi gusti e non poteva essere aggredito, secondo le regole cautelative e censorie della neonata RAI. A formare il suo gusto, proprio in quel periodo, c’è anche un ragazzo che ama la musica alternativa e si nutre nella vasta collezione di dischi stranieri di importazione, del cugino Paolo Tosi, impregnandosi di piano-boogie e ragtime. Questo ragazzo è Arrigo Riccardo Agosti, detto Ghigo, e spesso organizza jam session a casa sua, a cui partecipano molti degli esponenti della scena Jazz milanese e altri musicisti di altra estrazione, tra cui Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Forma una band che chiama Ghigo e Gli Arrabbiati in cui si alternano vari musicisti e collaboratori; suoneranno con lui anche Ricky Gianco e Guidone, oltre Giorgio Gaber. Dal 1954 in poi si esibiscono nei locali milanesi proponendo il sound di Ghigo, costituito da riff ossessivi e percussivi; accelerare il ritmo è la sua prerogativa, è il suo rock and roll, che confluisce in brani come Stazione del Rock e Coccinella, composti dal 1955 al 1957. Forse i primi brani del genere scritti direttamente in italiano, e, forse, tra i primi anche a livello europeo. Per lui, però, la possibilità di pubblicarli si presenta relativamente tardi, soltanto nel 1959, dopo anni di concerti e esibizioni dal vivo, in cui coinvolge il pubblico, con il pianoforte o con la voce, con i suoi pezzi caratterizzati da testi diretti e innovativi. Stazione del Rock è un invito all’amore, alla libertà, al ballo. Coccinella, invece, in maniera molto velata, è la descrizione di un approccio verso un travestito; probabilmente ispirata dal personaggio francese di Madame Coccinelle, balzato agli onori delle cronache per essere il primo transgender della storia. Il suo stile, in cui prevale una vocalità intensa, frenetica, protesa all’urlo, con finto accento americano, unita a una esuberante presenza scenica, lo rende riconoscibile e unico nel panorama artistico. In quegli anni, come accennavo prima, la scena musicale è in totale fermento. Nel 1957, infatti, viene organizzato il primo festival del Rock and Roll italiano (il Trofeo Oransoda), che vede partecipare, tra gli altri, Adriano Celentano e negli anni a seguire anche Little Tony; un potente strumento per la diffusione di questo genere musicale nel nostro Paese. Ghigo si distingue comunque per il suo spirito irrequieto; durante le performances, sbraccia, si dimena, fino a strapparsi la camicia. Lo stesso spirito che non gli permette di accontentarsi mai e che lo obbliga a sperimentare continuamente, una volta che il rock si è affermato e che da esso, negli anni sessanta, iniziano a nascere altri sottogeneri. Le sue ambizioni di innovazione, lo portano a formare altre band come Ghigo e i Goghi, o Black Sunday Flowers, o ancora a stupire cambiando spesso immagine e trovando pseudonimi fantasiosi e meno, come Mister Anima, Rico Agosti o Probus Harlem, per esplorare nuove musicalità; è tra i primi urlatori, con il suo partito estremista, a contrapporsi alle scelte musicali della RAI, e a gettare le basi per il rock demenziale; ma anche tra gli iniziatori del beat in Italia, della psichedelia e del progressive. Nella sua variegata e incontrollabile produzione vanno citati i brani Conosco Jenny, o Tredici Vermi Con Il Filtro e i formidabili Non Voglio Pietà e Solitudine Time, firmati come Mr. Anima, da non dimenticare Madness e Hot Rock. Lo stesso spirito che poi gli suggerisce di abbandonare tutto, quando ormai la soddisfazione non è più la stessa. Nel 1974 decide di ritirarsi dalle scene per dedicarsi alla fotografia, alla grafica, al giornalismo, e inoltre alla poesia, al teatro, e nel tempo libero anche allo sport.






Chuck Berry: 


    Natalino Otto:

domenica 1 giugno 2025

Immagine, musica, filosofia

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Alessandra Iannotta sui valori fondamentali della poesia e quello più fondamentale in assoluto, inseminare tutti gli organi. 



Alessandra Iannotta è nata a Roma nel 1965. Da oltre 25 anni esercita nella Capitale la professione di avvocato civilista. Ha partecipato a vari concorsi nazionali ed internazionali di poesia e di narrativa ricevendo premi, menzioni speciali e riconoscimenti vari. Ha pubblicato, nel 2015, un libro di poesie in prosa, dal titolo “Sangria al Grippiale” (Ed.Dante Alighieri). Nel giugno 2019, il suo primo romanzo dal titolo “Gli occhi di Asha” (Kanaga Edizioni). Nel novembre 2019, il romanzo è stato premiato, come premio speciale “Milano Donna”; un estratto del primo capitolo è stato pubblicato su Rai Letteratura. Nel novembre 2020, ha pubblicato la silloge poetica “Panni al vento” (Ed. L’Erudita). Nel luglio 2022 ha pubblicato una silloge di 138 poesie, dal titolo “Come panni al vento” (Nino Bozzi Editore – Gruppo CTL Editore). Ha avuto modo di sperimentare che la poesia, abbracciata alla musica, può aiutare ad accrescere la bellezza di entrambe le suddette forme artistiche, recitando le sue poesie: -accanto al Maestro, Alessandro Vena, pianista di fama internazionale, presso l’Auditorium San Domenico di Foligno; -accanto al Maestro Martin Palmeri, compositore argentino di fama internazionale, presso il teatro Greco di Roma; -accanto al Maestro Luca Fialdini a Forte dei Marmi, presso Villa Bertelli.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?

Ho amato la poesia fin da bambina, ne scrivo da sempre, ma ho sentito la voglia irrefrenabile di condividere questa mia grande passione solo nel 2015 quando, dopo aver superato un anno difficile, sono stata invitata ad una serata di letture di poesie… quella sera stessa, rientrata a casa, sulle note di Beethoven, ho scritto una poesia intitolata “Vita” ed ho deciso che questa volta, avrei iniziato a condividere con gli altri la mia passione!

Che rapporto hai con la poesia? 

Credo in una poesia non filtrata dalle gabbie della mente, non costruita a tavolino, non imbrigliata in regole stilistiche, capace di raggiungere il cuore di tutti perché capace di catturare la meraviglia che ci circonda, la parte più autentica che abita l’uomo. Credo che la poesia, capace di abbracciare molteplici declinazioni di creatività, sia la più alta espressione artistica. Per me, infatti, la poesia è, prima di tutto, immagine, qualcosa che cattura il mio occhio, ma che, nel contempo, va oltre il mondo visibile, lì c’è il brivido della poesia, il poeta, quindi, è un po’ un pittore che dipinge con la penna; la poesia è, poi, musica perché le parole devono avere un ritmo, il poeta, quindi, è anche un po’ un musicista; infine, e lì, a mio avviso, siede il cuore della poesia, c’è nel linguaggio poetico un messaggio che eleva l’uomo e, quindi, il poeta è anche un po’ un filosofo capace di far riflettere il lettore, non con la testa, ma con il cuore.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Sono certa che oggi la poesia ritroverà il posto di centralità che merita all’interno del panorama culturale mondiale. Il poeta, infatti, è l’artista della parola e mai, come oggi, c’è un estremo bisogno di arte, di un linguaggio costruttore di bellezza, e dunque di poesia! Nel mondo contemporaneo, dominato dalla tecnologia, è indispensabile recuperare la parte più autentica che abita l’uomo, riuscire a dare voce alla nostra parte irrazionale dove regna regina la creatività, che è alla base di ogni forma di espressione artistica, e che non potrà mai essere sostituita dalla macchina.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Penso che si tratti di mondi differenti e, dunque, che non sia corretto parlare di competizione. L’intelligenza artificiale assembla dati, mentre la creatività è prerogativa dell’essere umano che, prima di essere carne, è coscienza…

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Sono, profondamente, legata ai miei primi cinque libri (tre libri di poesie, una favola poetica e il mio primo romanzo dal titolo “Gli occhi di Asha”) che ho pubblicato con quattro diverse case editrici e di cui, essendo scaduti tutti i relativi contratti di edizione, ho recuperato i diritti. Nel 2024, ho autopubblicato su Amazon, il mio ultimo libro, un romanzo dal titolo “Muse sciamane” ed è questa l’opera a cui mi piacerebbe accennare. Si tratta di un romanzo in cui i lettori potranno, agevolmente, ritrovarsi all’interno degli intrecci narrativi e, nel contempo, essere, tuttavia, trasportati in mondi fantastici in quanto nell’opera entrano, prepotentemente, anche numerosi elementi immaginifici e poetici. È, infine, un romanzo filosofico perché è capace di fornire al lettore le chiavi per vivere con più leggerezza e gioia!



La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Viviamo tutti nella storia che, inevitabilmente, cambia, ma, a differenza della maggior parte degli adulti, i giovani conservano la freschezza di una visione della vita più libera dalle maglie mentali, più intuitiva e, quindi, più vicina al sentire del poeta. In un mondo, come quello in cui viviamo, dove tutto è estremamente veloce, sussiste, a mio avviso, l’urgenza di aiutare i giovani a recuperare la capacità di entrare nella profondità della parola che, lungi dall’essere solo uno strumento per comunicare, è prima di tutto generativa di pensiero. I giovani, meno contaminati da sovrastrutture rispetto a noi adulti, hanno solo bisogno di guide, che, in modo gioioso, catturando la loro attenzione, siano capaci di fargli riscoprire la potenza e la bellezza della parola poetica.