domenica 1 dicembre 2024

La poesia è tutto ciò che so

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Asia Vaudo sul valore della lentezza e su quanto possa propagarsi l'onda della Poesia. 



Asia Vaudo è laureata in filologia moderna e da diversi anni porta laboratori di poesia nelle carceri italiane. Dall’attività svolta sono nate delle antologie e una biografia scritta con un ex detenuto. Porta i laboratori anche in alcune scuole di Roma. È direttrice artistica del Poetry Village di Roma, conduce e ha condotto diversi eventi letterari in Italia, tra cui diverse volte al Museo MAXXI. Ha all’attivo cinque pubblicazioni.  


Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Ho sempre saputo l’importanza della poesia, che arriva laddove tanto altro non riesce a giungere. Ho sempre amato scrivere, da quando sono piccola. Ho avuto una meravigliosa maestra alle elementari che mi ha sempre spronata a farlo. Ho sentito il bisogno di fare poesia soltanto negli ultimi anni, poiché ho capito la natura fortemente lirica e poetica della mia prosa. Così ho iniziato un processo di “asciugatura”, lasciandomi incantare dalla parola che splende essenziale sul foglio bianco. 

Che rapporto hai con la poesia? 

La poesia è il mio modo di amare, di stare nel mondo nella maniera più autentica. Di arrivare agli altri, di permettere a chi mi legge di specchiarsi in ciò che scrivo. La poesia è visione, materia, fuoco bruciante. La poesia è tutto ciò che so. 

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Siamo in un periodo in cui si corre continuamente, e nella frenesia dei giorni ci stiamo dimenticando della lentezza. Rieducarsi alla parola significa ritornare alla lentezza, al suo antico significato. La parola ci costringe a fermarci sul foglio, come fa una farfalla su un fiore. Solo fermandoci possiamo ricominciare a sentire il profumo di tutto ciò che ci circonda. 

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Sono convinta che l’intelligenza artificiale non sostituirà mai il valore della parola poetica, la sua forza. Per scrivere una poesia occorre un’anima, e l’intelligenza artificiale non ce l’ha. Non si può “creare” l’anima. Nessun robot o ciò che non è umano potranno mai scrivere una vera poesia. Saranno soltanto imitazioni senza alcuna autenticità. 

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Un’opera che mi sta molto a cuore è Storie di vecchie e di pane, una plaquette, un prosimetro in edizione limitata con la prefazione di Davide Rondoni e le tavole di Roberto Pavoni, per le edizioni di Lamberto Fabbri. Un’opera in cui indago la dimensione della “vecchiezza” in tutte le sue sfumature, da quella ironica a quella erotica, e paragono la pelle, la carne dei “vecchi” alla consistenza del pane. 

La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Certo, la poesia comunica con le nuove generazioni e continua a farlo. Conosco tantissimi giovani poeti che quotidianamente incontrano il valore profondo del verso e ci lavorano con pazienza e passione. 






giovedì 21 novembre 2024

Marthia Carrozzo/Claudio Fabi: Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima), Kurumuni Edizioni (2022)


Ogni singola cellula dell'organismo può vibrare. Che sia del cuore o dei polmoni, che sia dei muscoli o della pelle, della parte più nascosta a quella più esposta del nostro corpo, dalla profondità alla superficie, ogni singola orbita di atomo della nostra essenza può vibrare. Ogni singola vibrazione può riprodurre un suono. Seguendo lo stesso percorso, dall'interiorità più segreta che propaga verso l'esterno, ogni suono che passa attraverso le corde vocali, si slancia dalla laringe, rimbalza tra il palato e i denti, viene modulato dalla lingua, facendosi voce, trova la sua essenza più materiale, più sensuale, può trasformarsi in parola. Chi conosce la poesia di Marthia Carrozzo, chi ha avuto la possibilità di leggerla, ma, soprattutto, di ascoltarla, sa quanto può essere musicale il suo modo di verseggiare, più esattamente, è un vero e proprio canto, che coinvolge anima e sensi, insieme. Ogni sillaba una nota, magicamente accostate e incastonate tra loro a comporre la melodia vocale che veicola il verbo. In questo caso un poemetto caratterizzato da una sapiente struttura anaforica. Ogni anafora, ogni iterazione, detta il ritmo e l'ipnotico incanto. Ogni ripetizione, come ogni battito, ogni respiro, è sempre uguale ma sempre diverso, come è sempre diverso il sangue pompato dal cuore in ogni battito, come è sempre diversa l'aria insufflata dai polmoni in ogni respiro. Seguendo questo stesso identico andamento, dalle viscere ai pori della pelle, di cui la sacerdotessa della Poesia conosce ogni linguaggio, ogni pulsione, ogni brivido, ogni effluvio, effonde verso l'estasi dei sensi, l'intreccio dei sensi. Lo stesso effetto, infatti, lo ottiene in chi ascolta: una commozione che sommuove il corpo in un trionfo di sensi. Questa la sfida che si propone e propone l'autrice nel libretto, uscito per Kurumuni Edizioni nel 2022, “Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima), che fa parte della collana Camminamenti, di cui è anche direttrice. Attraverso le gesta dell'eroina di Otranto, Idrusa, in una versione riletta e riscritta, riportata sulle sue corde personali preferite, in cui la donna rivendica la gestione del proprio corpo, della propria sessualità libera e tracimante, che sa trovare la corrispondenza dei sensi anche nel conflitto imposto. Un esempio che viene dal passato per ispirare tutte le donne dei nostri giorni. Il poemetto è suddiviso in cinque canti, cinque incandescenti stanze, che poi apre, concedendo le chiavi segrete, al Maestro Claudio Fabi, per un intenso scambio che sarà dialogo e interazione. Il Maestro, in questi ambienti, si trova a suo perfetto agio, perché l'intesa con la padrona di casa è autentica e tocca punte di intimità profondissima; parlano la stessa lingua artistica anche se in forme diverse: la Musica e la Poesia. Fabi riesce a raccontarsi ampiamente, sin dalle sue origini musicali; dall'amore per la classica per poi approdare alla contemporanea, per una scelta intima e anche politica, inevitabilmente coinvolto nell'atmosfera rivoluzionaria degli anni settanta, che stravolgerà tutti i settori delle attività sociali e delle creatività sperimentali. Anni di affinamento della sensibilità artistica che lo hanno visto protagonista in campo internazionale sia come compositore sia come consulente di grandi musicisti. Anche se è bellissimo poi sentire raccontare degli anni passati come direttore artistico dell'etichetta discografica Numero Uno e della sua collaborazione con tutti i più grandi esponenti della canzone italiana. Lungo il racconto si delinea la sua affascinante idea di Arte, di fare musica, che ne esalta tutta la sua umile grandezza. Idea che metterà a disposizione di Marthia Carrozzo per una splendida interazione artistica che, a noi, non resta che leggere o, ancora meglio, ascoltare dal vivo. 


sabato 9 novembre 2024

Piano Piano on the Road (2013)

Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, la pianista Alessandra Celletti ci racconta di una serie di concerti tenuti in giro per l'Italia come se fosse un unico continuo concerto, nato principalmente da una grande folle idea e dalla volontà di realizzarla. 




Alessandra, l'idea è talmente affascinante che non possiamo non partire dall'inizio, invitandoti calorosamente a raccontarci come e quando è nata questa idea. 

Era l’estate del 2013, e l’Italia si trovava nel pieno di una crisi economica. Nonostante le difficoltà, sentivo il bisogno di trasformare quel momento difficile in una sfida avvincente, un’opportunità di cambiamento. Non avevo nemmeno un concerto in programma, ma il desiderio di suonare per le persone era fortissimo. Così mi venne un’idea un po’ folle: caricare il mio pianoforte su un camion e portare la musica ovunque, attraversando l’Italia e percorrendo tutto lo stivale. Il progetto nacque dal mio desiderio di libertà e dal sogno di suonare per tutti, ovunque. Una raccolta fondi su Musicraiser rese possibile quell'avventura, coprendo interamente le spese e permettendomi perfino di guadagnare qualcosa. Ho scoperto la generosità delle persone e il loro amore per i progetti autentici. Mi sono sentita amata ed ero felicissima. 

Per “suonare ovunque” cosa intendi precisamente? Perché da quello e da come racconti non sembra che tu sia passata da luoghi classici come teatri o arene, o siti istituzionali…

Quell’estate suonai in luoghi incredibili: in riva al mare, immersa nei boschi, tra i sassi di Matera, e persino sulle montagne di Piano Battaglia in Sicilia, dove le mucche, con i loro campanacci, sembravano una piccola orchestra. Gli sguardi sorpresi e felici delle persone resteranno per sempre impressi nel mio cuore. Quella pazzia, alla fine, si trasformò in un successo e divenne anche un documentario: Piano Piano on the Road, prodotto da Primafilm e diretto da Marco Carlucci. Tra coloro che hanno sostenuto il mio viaggio c’era anche il regista francese Patrice Leconte, che scrisse un testo per presentare il progetto; un piccolo "gioiello" di parole che conservo come fosse una preziosa lettera d’amore:

"Conosco bene le composizioni di Alessandra Celletti, questa straordinaria pianista che, quando si siede al pianoforte, si illumina di una luce che la rende ancora più bella. Mi ha raccontato del suo progetto un po' folle, ma appassionante e originale: portare la musica in lungo e in largo, sedurre le persone lungo i chilometri. La immagino seduta al suo pianoforte, a bordo di un grande camion, avvolta dalla luce del tramonto, mentre le stelle cominciano a disegnare il cielo blu marino. Lei si lascia andare alle melodie più dolci, come un'immagine sognante di un film di Fellini."

Condivido pienamente il pensiero di Patrice Leconte e trovo di una generosità e genialità uniche l'idea di portare la musica tra la gente che abitualmente non ha la possibilità di frequentare i luoghi adibiti alla divulgazione della cultura. Cosa ti ha lasciato dentro questa esperienza? 

Quell’estate ha rappresentato una delle avventure più magiche della mia vita, un sogno realizzato grazie al potere della musica e alla forza dell'immaginazione. 









domenica 3 novembre 2024

Stefania Giammillaro: Errata Complice (peQuod Edizioni, 2024)



Quante corazze si devono indossare per affrontare la vita? Questa è la domanda che sembra serpeggiare insinuante tra le strofe di Stefania Giammillaro, senza che l'autrice stessa se ne accorga, o che consapevolmente voglia eludere, perché sa già la risposta. Sono infinite. Una per ogni singola stagione della vita e nessuna mai calza a pennello, lascia sempre qualcosa di scoperto e di estremamente vulnerabile. Anche se ci volesse abbracciare da soli, come ennesimo atto di protezione e benevolenza personale, sfuggirebbe, in ogni caso, qualcosa.  Cosi incede danzando, con leggerezza tragica, l'andamento delle liriche. Con lo stesso passo che avrebbe un’autrice allenata ai movimenti tersicorei, abituata a portarsi addosso pesi più grandi di lei. Le ingombranti corazze, appunto. La danza, si sa, prevede sudore e fatica. Durante una piroetta, durante un volteggio, si può sudare e si può sanguinare. Questo gruppo di strofe assomiglia a grumi di sangue e sudore sfuggiti all'autrice impegnata nel vitale slancio che procura piacere e dolore allo stesso tempo. Nuclei che fanno parte dell'essenza più profonda. Le parole di cui sono composti questi grumi si fondono chimicamente, per magiche leggi della fisica, quasi casualmente, in una casualità armonica scolpita nel marmo amorfo del caos. Si perde il senso ordinario, per trovare altri sensi, aprire varchi. Ogni combinazione di parole, è un varco, una ferita, una fessura, una crepa di luce, che supera la linea di confine dei significati. Per sentire sgranare e fuggire dalle mani il tangibile e rivestire di nuova sensualità l'inafferrabile. Polpa vibrante distillata chirurgicamente agli alambicchi della saggezza e della passione. Con quella saggezza che prevede il mettersi in gioco generosamente con tutta se stessa. La saggezza sfibrata che non può che esteriorizzare la guerra interiore. E interiorizzare le guerre esteriori. Le parole si allineano autonomamente in versi che trovano la loro intima metrica, senza punteggiatura, perché hanno una loro musicalità interiore, la stessa musicalità che può offrire un'anima nuda. Come se ogni virgola, ogni punto, fosse un inutile orpello che pone ulteriori ostacoli. Invece si sente prepotente l'esigenza di lasciare per strada ogni velo e mostrarsi finalmente in tutta la accecante purezza, che scava nel vuoto più assoluto, sviscera la solitudine più feroce. Anche se si dovesse incorrere in degli errori, non sarebbero semplici sbagli, o abbagli, sarebbero alleati in grado di illuminare l’errare, sarebbero complici, come vuole il titolo dell'opera. I grumi espulsi spargono tracce di esperienze vissute in cui si mescolano il passato e il presente, i sogni e gli incubi, il rapporto con se stessi e con Dio, che poi a volte è la stessa cosa, e quindi irrisolto, anche quando sembra arrivare la soluzione, irrisolvibile. Le gioie e i traumi, come, soprattutto, quello di un amore, che purtroppo a volte si può rivelare tossico, in grado di avvelenare una parte dell'esistenza e portarla a derive decisamente insane, fino all'annientamento. Fino a scarnificare le radici più profonde, quelle deĺle origini isolane. Il dialetto siciliano, così, riemerge come lingua principale, in filastrocca, che, l’autrice tornata bambina, canta a se stessa, per permette alle tracce di coagularsi in un percorso trascendente che implica, peccato, colpa e perdono. Perché si può perdonare il peccato e la colpa. Si può perdonare se stessi, errando, danzando. Santificando il peccato e la colpa.




domenica 27 ottobre 2024

Bud Powell: La gioia tra le dita

Per la rubrica: Archeologia musicale, la storia del musicista che, con il pianoforte, riusciva a raggiungere Charlie Parker nei suoi voli di note. 



Probabilmente uno dei momenti più importanti della sua carriera Bud Powell lo tocca nel 1947 quando Charlie Parker lo chiama a far parte della sua orchestra, nel pirotecnico quintetto che dà vita al progetto Charlie Parker All Stars, che vede tra gli altri Miles Davis alla tromba e Max Roach (vedi sotto) alla batteria. Il destino mette insieme quella che probabilmente è la staffetta più importante del bebop. Parker e il suo sax e Powell che con il piano riesce a fare quello che Parker fa con il suo strumento. Bud, è il nomignolo di Earl Rudolph, nato e cresciuto in una famiglia di musicisti; sviluppa affinità per il pianoforte fin da bambino, sullo strumento studia e si esercita a lungo su un repertorio classico, ma la scintilla che fa scattare l'innamoramento la percepisce con l'ascolto dei brani di James P. Johnson (vedi sotto) e Art Tatum. Bud si porta dentro lo stile stride, lo metabolizza nel profondo e poi, quando finalmente lo sente suo, lo rivoluziona. Raggiunge una tecnica grazie alla quale riesce a svincolare le mani da qualsiasi fissità o riferimento. Entrambe le mani hanno la libertà di fare da armonizzazione o improvvisazione melodica con arabeschi di fraseggi eseguiti ad altissima velocità. Grazie a questa tecnica riesce a riprodurre con il piano gli assoli volteggianti che Bird improvvisava con la tromba. Le dita planano leggere sulla tastiera del piano, sfiorano i tasti sulle punte dei polpastrelli, non sembrano nemmeno premerli, ma ogni tasto premuto, ogni nota spremuta, sprizza gioia musicale, gioia per chi ascolta, gioia per chi suona. Una gioia che aveva dentro anche se costretta a convivere con il malessere psichico. Una sorta di schizofrenia incurabile per quei tempi. Una notte del 1945, alla fine di un concerto tenuto con il suo mentore Thelonious Monk, vagabondava per strada insieme a lui, tutti e due ubriachi, per smaltire l'adrenalina e coccolare la creatività. Vennero arrestati per bivacco, ma forse soltanto perché neri e sbronzi, da un corpo di una polizia privata e con l'occasione pestati di botte; I forti colpi ricevuti alla testa contribuirono notevolmente ad acuire la sua patologia. Da quella notte Bud iniziò a soffrire di fortissime emicranie, di amnesie, di disturbi del comportamento, che non riusciva a tenere a bada con nessuna medicina, neanche con potenti psicofarmaci. L'unico momentaneo e illusorio sollievo lo forniva l'alcool o la Marijuana. In più di un'occasione negli anni è stato ricoverato per svariati mesi in cliniche, o arrestato per possesso di sostanze e sottoposto a quella che credevano la migliore cura in quel periodo, la terapia elettroconvulsiva. L'elettroshock, ovviamente, non migliorava affatto la sua salute, anzi ne minava ancora di più le condizioni fisiche. Nonostante la malattia e i ricoveri, per tutti gli anni cinquanta ha tenuto concerti memorabili, ha suonato con i più grandi musicisti del periodo e composto alcuni dei brani più belli che il Jazz possa vantare. Pezzi come Dance Of The Infidels o Un Poco Loco, Tempus Fugue It o Bouncing With Bud, trasportano la sua gioia musicale fino a noi oggi. Nel 1959 decide di rimettersi in sesto fisicamente e si allontana dal suo ambiente trasferendosi a Parigi. dove vive un barlume di temporaneo benessere. Suona in Jam Sassion con Kenny Clarke e Pierre Michelott e dal vivo riesce ancora a sprigionare tutto il suo talento. Il fisico indebolito, però, non ha più le difese necessarie a respingere gli attacchi esterni. Contrae la tubercolosi e la dipendenza dall'alcool lo abbatte ancora di più. Negli ultimi anni si lascia andare, perde quasi la vista, non riesce più ad affrontare i sintomi sempre più gravi della sua malattia. Muore all'età di quarantuno anni alla totale deriva. Se un pizzico di quella gioia che trasmetteva con la sua musica, oltre che provarla mentre la eseguiva, la avesse conservata per sé e per la sua vita, probabilmente sarebbe stata meno tormentata e più lunga, ma non possiamo intrometterci tra quello che la Musica dà e toglie, e dobbiamo ritenerci fortunati se ci ha dato la possibilità di ascoltare ancora e per sempre il talento gioioso di Bud Powell.



MAX ROACH:

JAMES P. JOHNSON:







domenica 20 ottobre 2024

Concerto al Central Pub di Montecosaro (Mc) - 4 luglio 2024

Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo,  Filippo Marangoni ci racconta l'emozione di portare, il progetto appena partorito, davanti al pubblico,  con i Flamingo. 



Dopo tantissimi anni di esperienza sui palchi di tutta la penisola suonando blues e rock blues (cover e tributi etc) ho finalmente dato impulso all'esigenza interiore di raccontare qualcosa di personale, che comprendesse le mie esperienze ed influenze raccolte nel corso della vita. La Band si chiama Flamingo, abbiamo realizzato un album blues oriented di 11 brani inediti ed ho iniziato quest'avventura componendo in solitudine linee melodiche e progressioni armoniche con il mio strumento, la chitarra. L'emozione più grande è stata poi quella di condividere le mie "bozze" con altri musicisti della Band, i quali hanno via via apportato il loro contributo ed insieme, con impegno e sacrificio abbiamo visto crescere e prendere forma a delle semplici idee che sono diventate canzoni. Un'altro fondamentale passaggio è stato quello di provare effettivamente in Studio con tutti i musicisti l'esecuzione di queste nuove canzoni ed è stata davvero una bella emozione per me che le ho concepite integralmente, quella di veder realizzare una realtà (musicale) partendo da una semplice intuizione. 



In questo periodo storico un album blues oriented mi fa pensare ad atmosfere da pub, in cui la gente vuole il contatto diretto con i musicisti, sorseggiando una birra, e se la proposta non è coinvolgente si avverte subito che qualcosa non va. Immagino l'emozione e la tensione…

L'emozione prima del primo concerto di presentazione dell'Album era palpabile… quello stato emozionale che è un mix di adrenalina e preoccupazione, il momento cruciale in cui bisognava salire sul palco e mettersi completamente in gioco, suonando la propria musica e sperando che la reazione del pubblico fosse positiva. Tenendo conto del fatto che il pubblico più vasto non aveva mai ascoltato i brani del disco per cui la curiosità da un lato e la preoccupazione dall'altro erano massime. Rotto il ghiaccio con l'esecuzione del primo brano in scaletta, tutto è andato se vogliamo "in discesa", abbiamo iniziato a suonare tutti più sciolti ed improvvisare sulle strutture armoniche dei nostri brani con maggiore libertà, e mentre il concerto proseguiva cresceva via via di intensità e ciò generava un maggiore coinvolgimento del pubblico. 

E questo entusiasmo avrà avuto un effetto positivo anche su di voi che vi stavate esibendo…

Sentire gli applausi, e l'apprezzamento spontaneo e manifesto della gente è stata davvero un'emozione molto bella, che ci ha ripagato del grande impegno trasfuso nel progetto, delle nottate trascorse ad arrangiare, provare e di nuovo rivedere il lavoro per cercare di migliorarlo, e che ci ha dato lo stimolo a proseguire sulla strada intrapresa sempre con maggiore entusiasmo e forza d'animo, pur sapendo quante difficoltà incontra una band di musica originale inedita.

Cosa vi ha lasciato dentro un'emozione del genere?

L'aver quindi registrato un Album e portato dinanzi al pubblico nei live la nostra musica è stata la conclusione di un percorso che ha visto apprezzare anche all'esterno ciò che era stato creato, mettendosi in gioco. Tutte emozioni positive che premiano l'impegno ed il sacrificio che c'è dietro un lavoro del genere. Il tutto può sintetizzarsi nel potere che la musica ha di unire una band nell'obbiettivo comune di fare musica con il cuore, e dell'insegnamento che deve trarsi, ovvero che è sempre importante credere in se stessi e non aver paura di esporsi, naturalmente se si è consapevoli di aver dato il meglio, il valore del sacrificio in fondo. 









sabato 12 ottobre 2024

Uno strumento per arrivare all’Altro

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Cristina Simoncini sulla possibilità ancora fondamentale della condivisione attraverso la comunicazione. 


Nata a San Giovanni Valdarno (Arezzo) il 10 marzo del 1966, Cristina Simoncini è rimasta a lungo solo lettrice prima di cominciare a scrivere. Ha pubblicato poesie su riviste cartacee (Il Foglio Clandestino, Aperiodico Ad Apparizione Aleatoria, Nova Rivista d’arte e di scienza) e su molti spazi virtuali (fra i quali Avamposto, Limina Mundi, La rosa in più, Circolare poesia eccetera). Sta lavorando alla sua prima opera poetica.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

L’ho apprezzata da sempre, da bambina, a scuola, dove si imparavano a memoria, o recitandole con mia madre, e poi alle Superiori e all’Università, con consapevolezza maggiore. Solo da una decina d’anni a questa parte però la leggo e studio con regolarità e grande passione, e ho iniziato a scrivere.

Che rapporto hai con la poesia? 

Buono direi, fatto di passione, di attenzione e di cura. La poesia non è comunque la mia vita, non coincide con essa. Nessuna esasperazione, partecipazione a tutti i costi, eccetera. Mi piace essere letta da persone comuni, quello sì. 

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Per me la parola è uno strumento per arrivare all’Altro, persone e realtà soprattutto, memoria, esperienze significative condivisibili. Conta molto se produce cura dell’Altro, quindi, anche attraverso procedimenti di immedesimazione. L’abuso è nel farla diventare strumento di uso dell’Altro, in più sensi. Un lavoro attento sulla parola produce consapevolezza e attenzione, è fondamentale. In ogni campo credo, non solo in poesia.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Con lo studio, con la padronanza dei mezzi e della tecnologia, con la passione, con il rimanere ancorati alla realtà, alla concretezza. 

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Non ho opere mie pubblicate se non su riviste, se è questo che intendi. Sulle singole poesie è difficile da dire. Ma ci sono molte opere degli altri in cui mi riconosco e che sento mie, dai romanzi di Faulkner a quelli di Onetti alle poesie di Mark Strand o di Seamus Heaney. In quello che ho scritto sino a oggi, avendo una componente autobiografica forte, mi riconosco sicuramente. È la mia esperienza della realtà e degli altri, il modo in cui ne sono stata attraversata.

La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Sì, credo che le nuove generazioni avranno la loro poesia, con cui comunicare, in un modo che solo loro, protagonisti del tempo che verrà, sanno. Magari molto diverso dal nostro, dato che si confrontano con uno sviluppo dei mezzi di comunicazione così variegato e complesso.