Chiacchierata con Filippo Chiello
Siciliano che vive a Torino, Filippo Chiello è un autore con all’attivo diverse pubblicazioni e, oltre la scrittura, tra le sue passioni troviamo anche il viaggio. L’inquietudine che lo spinge a spostarsi è, probabilmente, la stessa che lo spinge a scrivere. L'ho incontrato per farmi raccontare qualcosa delle sue esperienze vissute attraverso le sue passioni.
Prima di arrivare al tuo ultimo romanzo “Dal ponte più alto”, è opportuno fare un excursus di tutte le altre opere, perché la tua attività di autore inizia nel 2005 e hai scritto per il teatro, oltre che dei racconti e dei romanzi. Proprio da una pièce teatrale inizia la tua carriera…
“Dopo avere frequentato la scuola di teatro Viartisti, recito e mi dedico sempre più alla parte drammaturgica. Ho scritto per il teatro “Luggage” e “A Chi Tocca”. Quest’ultima pièce mi ha dato parecchie soddisfazioni sia per come è stata accolta dal pubblico sia per le recensioni della critica. Per qualche anno ho collaborato con Cascina Macondo di Torino, promuovendo attraverso iniziative e incontri la lettura ad alta voce. Pubblico nel 2005 la raccolta di racconti “Destini” (Edizioni Novecento). Dal racconto omonimo viene tratta una piccola pièce che vince la rassegna teatrale Rigenerazione. Nel 2010 esce, per Robin Editore, il mio primo romanzo “Via Santa Chiara 15”. Nello stesso anno la rivista letteraria Stilos (novembre 2010) pubblica l’articolo “Metamorfosi di una città diventata Polo Europeo” nel quale intervista alcuni scrittori torinesi tra cui Baricco, Oggero, Pandiani, Perissinotto e il sottoscritto. Qualche anno dopo pubblico il racconto lungo “Il sangue degli altri” inserito in “Bottega Baretti” (Robin Editore) e il romanzo “Lo diceva Picasso” (2018, Sillabe di Sale Editore)”.
Un lungo percorso, come quello di un viaggiatore appunto, ma in questo caso della scrittura, che ti ha portato a sondare varie forme. Hai riscontrato, se c’è, un filo conduttore tra le tue varie opere?
“Tutte le storie che ho raccontato sia in forma narrativa che teatrale hanno una forte connotazione esistenzialista. Non c’è vita che a un certo punto non si attorcigli attorno o non sbatta contro le poche ed essenziali domande senza risposta che hanno a che vedere con il senso ultimo della nostra esistenza. Un altro elemento costante è la tensione che porta i personaggi a uscire dalle loro gabbie, reali o immaginarie. In “A Chi Tocca”, per esempio, ci sono quattro personaggi che si trovano a convivere in uno spazio chiuso e angusto. Fuori dalla loro stanza incombe una realtà pericolosa e ambigua e loro sono costretti a uscire uno alla volta per proteggersi a vicenda. Alla fine però si libereranno e troveranno il coraggio di affrontare la vita vera. Nell’ultimo mio romanzo, “Dal ponte più alto” (in lavorazione), accanto alla dimensione esistenzialista, appaiono temi più legati alla contemporaneità e ad alcune sue derive distopiche: la paura come emozione permanente, il controllo sociale, il fine vita, la violenza di genere, la presenza sempre più invadente dell’intelligenza artificiale.
“Lo diceva Picasso”, la tua pubblicazione più recente, uscito nel 2018, potremmo definirlo un romanzo nel romanzo, e la trama, che tocca, varie tematiche, si snoda attraverso un viaggio lungo la Penisola. Pensi che il tema del viaggio possa essere un tema ricorrente nelle tue opere?
“Il tema del viaggio è presente in “Luggage” per il teatro, e nei romanzi “Lo diceva Picasso” e anche in “Dal ponte più alto”. Però viaggiare può voler dire mille cose diverse. Semplicemente spostarsi da un luogo a un altro mantenendo inalterate le proprie abitudini e le proprie esigenze, per esempio. Viaggiare in questo caso è solo un diversivo, un’interruzione della routine, uno status symbol. Oppure può voler dire rinunciare al proprio mondo per mescolarsi con altri, accettando i rischi della contaminazione o di scoperte poco rassicuranti. Spostarsi verso posizioni altre, diventare altri. Il mio ultimo romanzo “Dal ponte più alto” è ambientato su una nave da crociera dove, peraltro, io ho lavorato per nove mesi. Ricordo che un giorno attraccammo in un porto marocchino, credo fosse Agadir e io non potei scendere in quanto di turno sulla nave. Erano rimasti pochi turisti a bordo e io che per lavoro dovevo fare conversazione chiesi a uno di loro come mai non fosse andato in escursione con gli altri. Mi rispose che non amava mescolarsi con la gente del luogo, che non sopportava tutti quegli odori e colori così diversi. Un altro giorno accompagnai un gruppo di turisti italiani in escursione a Damasco e ricordo che la guida ci portò a pranzare in un lussuoso ristorante dove avremmo assaggiato l’alta cucina siriana all’ultimo piano di una torre che ci concedeva anche un panorama mozzafiato. Bene, una parte del gruppo mi “costrinse” a chiedere, come rappresentante della nave, al personale del ristorante di poter avere un menù italiano o almeno un piatto di spaghetti al pomodoro. Furono accontentati ma nonostante tutto si lamentarono lo stesso in quanto la pasta non era al dente. Questi due aneddoti sono un esempio di come viaggiare possa essere un semplice spostamento fisico in cui ci si muove con la propria vita incrostata sulle spalle e non la si molli neanche per un attimo. In “Lo Diceva Picasso”, Antonio Mondelli compie un viaggio a piedi che lo porterà dal nord Italia giù fino in Sicilia. Compiere un’impresa simile è uno dei miei sogni in quanto credo che camminare ci metta in contatto con una dimensione fisica della realtà che è in via di estinzione. Mi spiego meglio: oggi il nostro rapporto con la realtà è sempre più filtrato da schermi di ogni tipo. Quando lavoriamo usiamo la tecnologia e compiamo mille operazioni su uno schermo, quando ci divertiamo facciamo lo stesso che sia lo schermo di un cinema, della tv, di un cellulare; i rapporti sociali li curiamo sempre più a distanza. Potrei continuare con altri esempi ma mi fermo qui. La natura è sempre più confinata a esperienze limitate nel tempo e nello spazio e dei cinque sensi che abbiamo, per i motivi elencati sopra, abusiamo della vista e trascuriamo gli altri. Viaggiare diventa allora una fuga dalla dimensione claustrofobica che sta assumendo la nostra vita e, come in “Dal Ponte più alto”, la nostra morte. Oltre all’estinzione di questa dimensione esperienziale della realtà, c’è anche l’estinzione della categoria dell’esotismo. Viaggiare, in passato, voleva dire, non sapere nulla di un luogo prima di arrivarci. Oggi è impossibile. Prima di partire possiamo sapere tutto, persino il tempo che ci accoglierà minuto per minuto, il cibo che mangeremo, cosa visiteremo e quando. Niente sorprese, niente imprevisti. La scoperta si esaurisce tutta sugli schermi prima che il corpo si metta in movimento e i sensi si accendano”.
Il viaggio deve coinvolgere tutti i sensi, sì. Hai viaggiato tanto. Sei stato e hai vissuto, in varie parti del mondo, Olanda, Francia, Brasile e tanti altri. Riesci, in qualche modo, a portarti dietro questa sensualità nei tuoi lavori?
“Dei miei viaggi provo a portare nei miei lavori le tracce che mi sono rimaste dentro, le sensazioni, le immagini. I viaggi intrapresi nel passato sono come certi ricordi: non sappiamo di averli ancora nascosti da qualche parte e risalgono a galla quando meno ce l’aspettiamo. Diciamo che i viaggi che abbiamo fatto si sono conclusi ma per qualche misteriosa ragione alcuni frammenti continuano a muoversi dentro di noi”.
Nello stesso tempo, sempre in “Lo diceva Picasso”, parli di una donna segregata e condannata a scrivere. Cosa rappresenta per te? La staticità è il contrario del viaggio o in qualche modo si somigliano?
“La staticità e il viaggio sono i due movimenti del pendolo che è la nostra vita. Quando siamo fermi miriamo all’altra sponda del fiume, all’orizzonte, al viaggio che ci aspetta. Quando viaggiamo, non dimentichiamo mai il punto fermo da dove siamo partiti e dove ritorneremo. In “Lo Diceva Picasso”, la donna segregata viaggia con l’immaginazione scrivendo una storia mentre Antonio Mondelli, dopo il viaggio a piedi, tornerà al punto di partenza ma trasformato”.
Mi piacerebbe che raccontassi uno dei tuoi aneddoti preferiti che riguardano un viaggio che hai affrontato…
“Durante il soggiorno in Brasile decisi di esplorare questo paese immenso con un viaggio molto fai da te. Una delle tappe di questo mio personalissimo e avventuroso tour fu Manaus, in Amazzonia. Alloggiai in un modesto hotel della città e dopo due giorni di esplorazioni urbane, il diavoletto dell’inquietudine cominciò di nuovo a punzecchiarmi. Chiesi al portiere dell’hotel quale fosse il modo migliore per visitare l’Amazzonia e lui mi disse che conosceva un caboclo che per sessanta dollari al giorno mi avrebbe ospitato nella sua capanna nel cuore della foresta. Organizzai in men che non si dica un gruppetto di viaggiatori e partimmo. Jack ci fece dormire per otto notti in una capanna dove c’erano solo amache. Se di notte ti scappava, te la trattenevi a meno che non volessi avventurarti nell’oscurità più nera del nero a cercare dove farla. La doccia non c’era, ce la facevamo tuffandoci allegramente dentro il fiume anch’esso, come la foresta di notte, nero. Dopo tre giorni Jack ci fece pescare ad appena cinquanta metri dalla riva e da dove ci lavavamo ogni giorno. Tirammo su tantissimi pesci che io, grazie a Hollywood, riconobbi subito: piranha. Il fiume ne era infestato. Chiesi a Jack come mai non ci avesse avvertito, vedendoci sguazzare nel fiume felici e contenti. Rispose che i piranha attaccano solo se sentono l’odore del sangue. Da quel giorno diventammo tutti meno schizzinosi nel sopportare l’odore che emanava dai nostri corpi e quando proprio non ne potevamo fare a meno, prima di tuffarci ci sottoponevamo a un’ispezione accurata del corpo in cerca di piccole ferite che ci avrebbero trasformato in un pasto succulento”.
Ti sei salvato dai Piranha ma non loro da te… scherzo, ovviamente. Grazie per questo racconto inedito. Cosa ti porti, invece, della tua Sicilia nelle tue opere?
“La Sicilia, in un modo o nell’altro, c’è sempre nelle mie opere ma non perché io decida di portarla o di darle spazio. Se lo prende da sola. Come una casa che non abito più ma che non ho venduto. Non solo, l’ho lasciata arredata com’era quando ci abitavo da piccolo. Una casa con la porta e le finestre sempre aperte. Se poi dovessi dire dove nei miei libri si intrufola di più e si mette a proprio agio, beh, allora direi nel modo in cui molti periodi sono costruiti, nel cibo che fa capolino in alcune scene (gli immancabili dolci di ricotta), in un certo senso nell’humour tipico della nostra isola. In “Dal Ponte più alto” uno dei motivi che ricorre in molte scene è come teniamo a bada il terrore della morte. Persino nell’affrontare questo tema, una certa vena a tratti ironica e tratti sarcastica non manca mai”.
Ti comprendo alla perfezione, essendo anche io siciliano. Per finire una domanda che rivolgo spesso a tutti gli autori. Cosa rappresenta per te lavorare con la parola in questo periodo storico in cui la comunicazione telematica è esplosa e siamo sommersi da parole? E che rapporto hai con la parola?
“Faccio parte di quella generazione che ha imparato il mondo attraverso la parola scritta parlata. Una generazione che conosceva la pazienza di leggere articoli lunghi, di seguire ragionamenti complessi che si sviluppavano sulla carta. Oggi, come scriveva Giovanni Sartori, siamo nell’epoca dell’Homo Videns. La comunicazione scritta non è mai stata così abbondante e nello stesso tempo così frammentata, veloce, accerchiata. Per me però lavorare con la parola non è cambiato nel senso che continuo a privilegiare la parola scritta come modalità sia di comprensione e interpretazione della realtà sia di sua rielaborazione personale. La parola rimane per me la chiave di accesso ai misteri dell’esistenza. Quando scrivo, riuscire a trovare e usare quelle giuste, quelle che mi aprono nuove porte nella comprensione di ciò che indago e nell’espressione di ciò che mi preme dentro, è una gioia immensa. Anche perché nel rapporto che ognuno di noi ha con la parola rimane una parte di mistero come dice Mariangela Gualtieri in questi versi “Abbi fede in quel niente/che viene – quel niente/che succede./Non prendere la parola./Lascia sia lei da sola. Diventa tu/la preda. Sia lei che ti cattura.”