sabato 30 marzo 2024

1988. The Church. “Starfish”

 


Mentre scintillavamo come stelle, al culmine dell’illusione, involontariamente ci stavamo perdendo. Mentre ci consumavamo al massimo dello splendore sfavillante ci stavamo smarrendo. Inebriati dal luccichio delle paillettes degli anni ottanta non ci rendevano conto che stavamo per essere inghiottiti nel buco nero degli anni a seguire. Non sapevamo davvero quello che stavamo cercando, pieni di energie, con la voglia di saltare sul mondo, di spaccare tutto e ogni cosa proibita o meno sembrava a portata di mano. Edonismo narcisista e individualista, arrivismo esasperato, rampante, sostituivano i valori degli anni precedenti, l’idea dell’amore libero e la dilatazione dell’anima per una maggiore consapevolezza di sé, il collettivismo e la lotta al potere. I soldi sembravano girare facilmente e quei soldi anche se insanguinati ci facevano raggiungere le nostre comodità, i nostri squallidi, falsi, miti. Quello di cui avevamo realmente bisogno, da sempre e per sempre, erano le sostanze, sostanze che ci facessero perdere la cognizione di quello che avevamo perso, e di quello che stavamo perdendo ancora. Che ci facessero perdere la cognizione della nostra identità. Alcool o droghe per sopperire a tutto questo. Le sostanze pericolose venivano nascoste negli anfratti bui, nei cessi delle stazioni notturne o nelle periferie senza controllo. I treni arrivavano e partivano per nuove destinazioni. Si poteva cambiare pelle ogni giorno come un viscido e potente rettile. E ogni volta era un successo. Ogni nuova alba era un successo. Dopo la notte vissuta a inseguire la via lattea senza sapere davvero dove andare. I punti cardinali scossi e rimescolati nell’incavo delle nostre mani come fossero dadi impazziti di un gioco divino e infantile. La somma dei numeri era sempre inferiore a quella scommessa. E comunque facevamo scommesse sempre più grandi. Potevamo sintonizzarci con tutte le correnti più intense e scorrere, scorrere via incontrollati. C’erano ancora angoli del pianeta che scintillavamo per noi, che ci riservavano qualche scintilla personale. In fondo al mare come una stella marina o dentro un vulcano, o nella galassia più lontana. Il massimo del piacere. Sì, avremmo potuto rinascere, vivere una nuova stagione ma abbiamo preferito perderci, perderci inesorabilmente nel grembo che ci ospitava, fosse un amore passeggero, o una sbronza, o un viaggio fortunato. Nessuno dio, nessun valore, nessuno futuro. Solo altre piccole, Improbabili, sempre più rare, scintille personali. Così giravano The Church, con il loro album "Starfish”, raccontando gli anni ottanta, nel mio mangianastri portatile, e in qualche modo riempivano il vuoto lacerante che si era creato dentro di me nel 1988. Il più doloroso che si possa immaginare per un ragazzo. La perdita del padre. Un vitale punto di riferimento. L'unico modo per non soffrire che la mia mente pseudo adolescente mi suggerì fu quello di cancellare ogni sensazione. Ricordo. Emozione. Una tabula rasa. Come se non avessi mai vissuto. Così mi ritrovo a Palermo,  agli inizi degli anni novanta, chiuso in me stesso, a studiare chimica, con la necessità di aggiungere esperienze forti al mio bagaglio da rampollo di provincia. Una delle prime emozioni fu l'ascolto di Starfish, passatomi, due anni dopo l'uscita ufficiale del disco, in un'audiocassetta registrata, in maniera casalinga, come una dose presa da uno spacciatore, da una delle prime persone che ho conosciuto a Palermo, un ragazzo di cui adesso non ricordo più il nome, ma a cui sarò per sempre grato. Del tutto inconsapevolmente mi passò uno dei dischi più rappresentativi di quegli anni. Palermo era bellissima. Aveva già l'aria di una metropoli esotica, con i suoi mercati le sue cupole arabe, i profumi del porto e le architetture normanne tra quelle abusive. Con il suo fascino ancora pericoloso e tremendamente accogliente per uno studente. La meraviglia era così grande che non ci siamo mai accorti che in quegli anni si combatteva una guerra intestina. Ogni mattina, al risveglio, la notte ci restituiva, dal suo fondale di tenebre, un morto ammazzato per mano mafiosa, mentre la vita continuava come se niente fosse. Si combatteva. Qualcuno moriva, qualcuno lottava per un concetto astratto di giustizia, qualcuno rivendicava la propria giustizia personale, qualcuno ambiva al Potere, mentre io dovevo assolvere soltanto al mio dovere di studente. Non c'erano i lustrini e la spensieratezza degli anni ottanta. Ero perso tra le volte di fumo del mio vuoto. E anche se Palermo era bellissima, io ci ho messo un po’ prima di amarla. Non riuscivo, o non sapevo, amare nessun luogo. Cittadino del tutto. Cittadino del niente. Sognavo sulle note di Starfish seguendo le crepe dei muri della mia stanza, con i sogni che sprizzavano incontenibili da quelle crepe. Ero giovane e avrei potuto innamorarmi. Ma forse ero troppo giovane e continuavo a innamorarmi della donna sbagliata. Erano troppe le scale da fare e il sogno aumentava per ogni rampa che superavo. Quando sono arrivato sulla cima, il piacere era bello, bellissimo, ma meno del sogno. Non avevo ancora trovato la mia scintilla personale. Quella maledetta tendenza a sognare mi ha fottuto la vita, ma era comunque la cosa più bella che mi potesse capitare. Forse era quella, sì, era quella la mia scintilla personale. Ritrovandomi, come sempre, col culo sull’asfalto e magie nelle tasche.


The Church nel 1988: Steve Kilbey: Basso, voce solista. Peter Koppes: Chitarra, voce solista in A New Season. Marty Willson-Piper: Chitarra, voce solista in Spark. Richard Ploog: Batteria, percussioni. 


Tracklist: 1. Destination. 2. Under the Milky Way. 3. Blood Money. 4. Lost. 5.North, South, East and West. 6. Spark. 7. Antenna. 8. Reptile. 9. A New Season. 10. Hotel Womb




domenica 24 marzo 2024

Giuseppe Bonaviri: “Il vicolo blu” (2003)

 


C’è una Sicilia magica caratterizzata da un animismo profondo che pervade ogni elemento della natura. Come se lo scricchiolio delle foglie nel sottobosco fosse dotato di vita propria, o l’ombra che si allunga o si accorcia in base alla posizione di un lume, fosse viva. Così anche l’effusione lattiginosa dell’alba ha una sua segreta essenza, per non parlare del rotolare incendiario del tramonto. Il belare impazzito di un caprone, lo sprofondare di un seme nel grembo della terra, il suo perdersi nell’oscurità, il ritorno alla luce, il suo germogliare e la sua raccolta, tutto può essere propiziato da un antico rituale contadino, o da incantesimi di bambini. D’altronde anni di dominazione araba avranno pur lasciato un segno. Su un altura, nella campagna, poco fuori la cittadina di Mineo, c’è una grande pietra piatta dove si radunavano poeti contadini da ogni angolo dell’isola e declamavano a braccio le loro composizioni estemporanee. Lo scrittore Giuseppe Bonaviri, nato proprio in quel paese, affascinato da questa tradizione, intende, fin dal suo primo lavoro “Il sarto della stradalunga”(1954), riportarla in vita e ripercorrerne il filone magico. Tutta la sua straordinaria produzione è ambientata in Sicilia e soprattutto nei suoi luoghi natii. Basta dare un’occhiata ai suoi lavori di narrativa, citando tra gli altri “La divina foresta”(1969), “Notti sull’altura” (1971), “L’isola amorosa” (1973), o alle sue raccolte di poesia, come “Il dire celeste” (1976) fino a “I cavalli lunari”(2004), per rendersi conto della sua volontà ferma di esplorare, e illuminare di nuovo chiarore, l’intreccio culturale che permea ogni espressione vibrante della sua terra. Con il romanzo “Il vicolo blu” pubblicato nel 2003, fa un tuffo nel passato di quasi cinquanta anni per ripercorrere la stradalunga del sarto che, non era nient’altri che suo padre. Proprio l’anno dopo aver perso quasi tutti,  tranne una, tra fratelli e sorelle, a lui Giuseppe, che era il più grande di cinque figli, non rimane che la memoria per sfuggire al nulla che inghiotte senza ritegno. L’unico balsamo che può lenire le artigliate di una morte obliante. Una memoria di rarefatti ricordi e invenzioni, trasposizioni di esperienze realmente vissute o di come avrebbero potuto essere se vissute davvero. Trasferendo ogni elemento in un periodo di tempo in cui stavano tutti insieme. Il padre, la madre e i cinque fratelli. Prima che si disperdessero per andare a cercare lavoro. Prima che Giuseppe partisse per Frosinone per svolgere il suo mestiere di medico… molto prima: il tempo dell’infanzia. Infatti i protagonisti sono loro bambini, che scoprono il mondo con i loro occhi sognanti, curiosi ed inesperti. Vivono il trasferimento dal paese verso l’altura di Camuti come un vero e proprio viaggio iniziatico. Verso il buio e la luce insieme… ed è un gioco visionario di chiaroscuri lo stile che sceglie Bonaviri per descrivere questa dimensione incantata. C’è un forte legame tra immagini, parole e emozioni che vuole trasmettere. Così ogni volta che i protagonisti bambini si apprestano a vivere un accadimento,  o a scoprire qualcosa di sconosciuto,  anche la scrittura cambia, si adegua alla situazione, sempre con ricchezza di lessico e terminologia. Per dipanare la nebbia della vita e quella della memoria, serve un linguaggio nebuloso, come un filo di nuvole che ricuce tutto e che conduce oltre ogni nebbia, in un tempo senza tempo, un tempo eterno, il tempo del cosmo. Fatto di cicli stagionali, mensili, quotidiani. I bambini possono assistere alla crudeltà della natura senza esserne scioccati, perché questa crudeltà rientra nel ciclo cosmico… ed è magia. Possono assistere all’uccisione di un capretto ma anche alla composizione di una laude per violino da parte dei contadini in onore della vittima. Possono assistere all’incagliarsi delle ali di un passerotto tra le spine dei fichi d’India ma anche all’apertura delle foglie della stessa pianta per curare le ferite. Possono scoprire le prime pulsioni della sessualità; tutto è materia, densa materia. Lo stesso vale per il modo di narrare i vari quadri da parte di Bonaviri, da ogni parola ne deve estrapolare la materia, il colore, il suono, il gusto, l’olfatto, il tatto. E si serve di tutte le parole che conosce per cogliere l’anima di ogni cosa, riportare in vita le deità liberatrici e descrivere, il gemmare dei mandorli, o lo schioccare della pioggia, il battere del fabbro o il movimento delle ombre. La sofferenza dei papaveri recisi durante l’aratura o il soffio del vento. Si serve dell’italiano, ma l’italiano non basta; si serve del dialetto ma non basta neanche quello. Inventa parole, le scova dalla terminologia medica, botanica, contadina, astronomica. Solo così si può comprendere il perché il vicolo dove vivono i bambini è un vicolo blu: con la descrizione dell’aria; che prima è un leggero blu instabile, poi caligine bluastra, poi ancora un’aria pendula tinta di blu e quindi un aura cenerognola. Poi il suono: una voce maschile che dice che c’è solo il nulla e una dolce voce femminile che dice che tornerà la luce. Il ciclo cosmico si chiude. Così come si chiude il ciclo letterario di Giuseppe Bonaviri. Prima della sua morte, avvenuta nel 2009, ci saranno altre uscite, vale la pena ricordare “L’incredibile storia di un cranio” (2006) o “Autobiografia in do minore”(2007), ma con la pubblicazione del romanzo “Il vicolo blu”, nel 2003, quando stava per compiere quasi ottant’anni, che si ricongiunge alla sua prima pubblicazione “Il sarto della stradalunga” del 1954, per Bonaviri equivale alla chiusura ideale del cerchio letterario… e quindi cosmico. 






domenica 17 marzo 2024

Quella linea sottile che unisce Blasco e il Signor G

 Per la rubrica: PHARMASONG 

Valium, quella linea sottile che unisce Blasco al Signor G.



Valium, che nome dolce, Valium. Già soltanto per la dolcezza del nome mette voglia di addormentarsi con questa parola che rimbalza tra le guance, riempiendo la bocca, accarezza il palato, scivola sulla lingua, appaga la gola.

Valium,  che nome rassicurante, Valium, così familiare, ormai. Tutti a casa ne dovremmo avere una boccetta. Affidare a poche gocce di questo rimedio tutti i nostri problemi, senza affrontarli realmente. 

Valium è il nome commerciale registrato del diazepam, una molecola di sintesi, appartenente alla classe delle benzodiazepine, tutte derivati cento volte più potenti del clordiazepossido, la prima benzodiazepina sintetizzata casualmente. Sedativi del Sistema Nervoso Centrale. 

Una sostanza sviluppata nei laboratori per far fronte a una patologia che emerge nel secolo scorso, classificata come malattia moderna. L'ansia.

Un disturbo riconosciuto soltanto nei primi del Novecento, quando gli studi psicanalitici e sul cervello divennero più incisivi. L'individuo sottoposto a stress, di qualsiasi intensità esso sia, presenta sintomi che si ripercuotono sull’apparato respiratorio, cardiaco, digerente, ghiandolare, nervoso, provocando una serie di disturbi non indifferenti, come sudorazione, panico, aumento dri battiti, nausea, sensazione di schiacciamento toracico e altri. Durante la seconda guerra mondiale questi disturbi si intensificarono ulteriormente e diffusero a una larga fetta della popolazione, così divenne necessario tirare fuori dai laboratori i tranquillanti, i cosiddetti ansiolitici. Che combattono l'ansia, appunto, aiutano a dormire meglio, rilassano la muscolatura. Anche per sostituire l'uso dei barbiturici di gran lunga più dannosi. Ma non è da sottovalutare il fatto che anche l'uso non controllato e l'abuso dei tranquillanti possono portare a farmacotolleranza e dipendenza fisica e psichica, come una vera e propria sostanza che agisce sul Sistema Nervoso Centrale. 

Ben presto ci siamo resi conto che la vita moderna, con i suoi ritmi frenetici e l'eccesso di stimoli, è una fonte di stress ben superiore a quella della seconda guerra mondiale, così i tranquillanti hanno trovato spazio in maniera sconsiderata in tutta la popolazione mondiale senza mai fare la differenza tra stress minori o potenzialmente cronici. 

Di questo abuso si rese conto Vasco Rossi, da attento osservatore della realtà e della società, e prendendo in prestito un giro di blues già usato da Giorgio Gaber nel brano Lo Shampoo, pubblica nel 1981 Valium, un divertissemant provocatorio, inserito nell'album “Siamo solo noi” conosciuto soprattutto per l'omonimo brano. 

Il brano Valium  ricalca il motivetto de Lo Shampoo, uno dei tanti capolavori di Gaber, in cui il signor G, sempre nel suo stile, si lancia in una provocazione, ironica e raffinata, al modo di vivere degli anni tra i sessanta e i settanta. Periodo in cui si trovò il modo di sciacquare via gli ideali sessantottini ma nella soffice leggerezza della schiuma. 

Lo stile del Blasco è molto più diretto, degno di un corsaro del rock allenato agli arrembagi. Il testo parla da sé, oltre a contenere una citazione al suo mito anarchico romantico Gino Paoli,  in cui molto probabilmente si riconosce, e alla sua gatta con una macchia nera, denuncia il facile utilizzo di tranquillanti.

Dormire, dormire, anestetizzarsi per non affrontare la realtà. Anestetizzarsi fino a morire. Perché non affrontare la realtà è come morire da vivi. Non accettare le emozioni che, anche se brutte, sempre emozioni sono, equivale a non vivere.

È la prima volta nella storia della musica che un nome di un tranquillante diventa protagonista e dà il titolo a una canzone.

Qualche anno dopo si fanno ispirare dai tranquillanti anche i CCCP con Valium, Tavor, Serenase (1986), Samuele Bersani con En e Xanax, e I Cani con Lexotan, entrambe del 2013. Ma queste sono tante altre storie. 

Nell'ultimo periodo si fa molto in farmacia per evitare l'uso non controllato dei tranquillanti, soprattutto nei casi di ansia lieve, o per disturbi minori, e si tende a consigliare rimedi naturali come il mio amato biancospino, o la passiflora, o ancora meglio la lavanda. 


Vasco Rossi 

Valium 

Dieci gocce di Valium

Per dormire meglio

Dieci gocce di Valium

Per dormire sul serio

Dieci gocce di Valium

Come lo prendo

Venti gocce di Valium

Per dormire meglio

Tutta la notte

A contare le gatte

Quelle con una macchia nera sul muso

Nelle soffitte vicino al mare

Voglio dormire

Cento gocce di Valium

Per dormire del tutto

Non sentire più niente

Cancellare la mente

E domani mattina

Domani mattina

Domani mattina

Non svegliarsi neanche










domenica 10 marzo 2024

La poesia che cura

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali

Chiacchierata con Viola Bruno sul valore terapeutico della poesia.



Viola Bruno ha quarantatré anni e vive in Maremma. È cresciuta in riva al mare: non potrebbe vivere senza la sua voce, senza la sua consolazione. Oltre alla poesia, ama la musica, la fotografia, la letteratura, l’arte in ogni sua forma.
Di luce compressa è la sua prima silloge, finalista al Premio Carrera 2023, versi sgorgati da un percorso di analisi che le ha consentito di raggiungere molte consapevolezze, di soffermarsi sulle emozioni, di dar loro un nome, di cercare finalmente le parole per esprimerle: di trovare la sua voce. I suoi versi sono contenuti anche in tre Antologie pubblicate da l’Inedito Letterario: I segreti delle piccole cose, Poesie d’amore e Fiumi di parole d’amore.


Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?

Circa tre anni fa, quando ho iniziato un percorso di analisi, per affrontare i fantasmi che condizionavano la mia esistenza. In quel momento la poesia è divenuta per me la naturale forma di comunicazione: ho iniziato a trasfigurare le esperienze negative, i dolori, i fardelli che appesantivano la mia vita, plasmandoli come pasta da modellare, trasformandoli in componimenti poetici. Materialmente cedendoli, inchiodandoli, al foglio. Così me ne sono liberata, ho dato loro una nuova forma accettabile. La poesia è stata parte determinante della terapia. In qualche modo mi ha salvata. Dunque non posso che esserle devota.

Che rapporto hai con la poesia?

La poesia mi abita e mi accompagna in ogni cosa. Tutto la contiene. È la fotografia, lo sguardo sull'esistenza, sulle piccole e sulle grandi esperienze. È immagine tradotta in parole. Prima che poeta, sono una lettrice. Ne ho letta e ne leggo molta, dai Grandi del passato ai poeti contemporanei. Solo così, credo, ci si possa rendere conto di ciò che è la poesia e tentare questo cammino.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Lavorare la parola e con la parola è un lavoro da certosini, da maestri intarsiatori, ovvero richiede tempo e precisione. La poesia richiede una messa a fuoco paziente: prima di riuscire a centrare l'immagine che si ha nella propria mente, si fanno infiniti tentativi, come una pesca a spinning: si lancia l'amo e si tira su, in continuazione. Spesso a vuoto. Finché non abbocca qualcosa. Fare un pasto da quella pesca è impresa ardua quanto avvincente, quanto faticosa. Ci vogliono tempo e pazienza, ovvero qualcosa che ad oggi, abituati al consumo immediato, al mordi e fuggi telematico, è merce rara.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Cercando di preservare quanto più possibile il calore che solo l'anima contiene e sprigiona. Facendone un uso ragionato, essenziale, ponderato. Temo che non sarà affatto facile preservare l'unicità dell'essere umano, poiché la si sottovaluta, poiché spesso altri interessi interferiscono con questa assoluta priorità.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?

Sono alla mia prima opera, pubblicata nel giugno 2023. Essa contiene un viaggio ed una trasformazione. Dal buio verso la luce, dal dolore verso l'amore. La silloge, il cui titolo è "Di luce compressa" (L’Inedito Edizioni) si compone di quattro sezioni, che corrispondono alle fasi del percorso di analisi intrapreso: Canto d’Abbandono, Il riciclo del dolore, Archeologia dell’anima, In ogni possederci c’è l’eterno. Ogni sezione è corredata da una fotografia, scattata per rappresentarne il sentimento dominante e da una citazione emblematica di grandi poeti e personaggi (Sbarbaro, Farrokhzad, Romagnoli, Hillesum) che ammiro profondamente. È la testimonianza di una breccia nell’oscurità, di una possibilità: quella di affrontare le nostre paure e fare di ogni dolore un gradino per risalire il pozzo, verso la luce, verso l’amore per sé stessi e per gli altri, attraverso il perdono e la compassione.


Curo-

la creatura appena uscita da me

finalmente madre di me stessa


inversa singolare maieutica

nell’utero rientrata

nella mente concepita

da un unico seme

fusione di cuore e ragione

corteccia infrango e tolgo

la prima tenera pelle calzo

il vecchio carapace dimentico-


germinata dal tepore

delle mie, delle tue carezze

varo-

il primo respiro nel mondo.


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?

Sì, sono ottimista. Credo che se quel fuoco che brucia nell'animo umano è rimasto inalterato sino ad oggi, continuerà a vivere in eterno. Almeno per chi possiede, in modo innato, un ramoscello e una scintilla dentro al petto.







domenica 3 marzo 2024

Natalino Otto: il Re del Ritmo

 



Dopo aver viaggiato tanto, lontano da casa, pur di lavorare come musicista; dopo aver solcato i mari dell’intero globo terracqueo, e aver toccato le sponde dei continenti, scaldando le traversate dei passeggeri con la sua voce, può affiorare in maniera sottile e densa la nostalgia dei propri luoghi natii. Sulle navi da crociera, dove Natale Codognotto si è rifugiato per allontanarsi dal suo destino da sarto, è entrato a contatto con le novità musicali provenienti da oltreoceano. Intorno alla metà degli anni trenta, dalle metropoli americane culle del jazz, prende quota la tendenza allo swing delle grandi orchestre. Natale è totalmente invaghito di quel nuovo stile musicale, da provetto batterista non può non essere conquistato dal ritmo incalzante, con radici antiche. Lo interiorizza fino a sentirlo suo e questo nuovo ritmo sarà alla base di ogni sua manifestazione. Il suo talento non passa inosservato; anche a New York si accorgono di lui e della sua voce: intensa, lineare, sincopata in maniera particolare. Lo invitano a tenere delle trasmissioni radiofoniche. La voglia di tornare in Italia, però, è ormai incontenibile, anche se significa affrontare una situazione difficile, seppur carico di esperienze originalissime da condividere con il proprio pubblico. Nella penisola il Jazz è diffuso in maniera abbastanza tentacolare, si suona in ogni sperduto club, disseminato nelle più piccole province, ma la Società delle Nazioni non approva le politiche belliche del governo mussoliniano e infligge delle sanzioni, per tutta risposta il regime fascista sceglie di autoregolarsi e vieta la diffusione alla radio delle tendenze esterofile. Le orchestre jazz, veri diffusori di ritmi d'oltreoceano, tra cui quelle di Pippo Barzizza, Armando Fragna, Gorni Kramer, Eros Sciorilli, Romero Alvaro, Alberto Semprini e Luciano Zuccheri, fanno ottima musica ma nell’impossibilità di promuoverla come si deve, lo stesso vale per le proposte artistiche di Codognotto. Il suo Swing, innovativo, importato dall’America senza modificare nulla nella struttura musicale, facile da ascoltare,  conquista il pubblico anche se non trasmesso, così come conquista la casa discografica Fonit  che può promuovere la sua musica attraverso altri canali.  Le numerosissime incisioni con la Fonit le firma con il nome di Natalino Otto e molte di queste saranno dei successi senza precedenti. Inizia la collaborazione con le orchestre dei grandi maestri con cui ha la possibilità di comporre e proporre brani reinterpretati come Polvere di stelle e Le tristezze di Saint Louis (Saint Louis Blues) e soprattutto Biri-eiriei, il primo in Italia a utilizzare la tecnica Scat attraverso la voce e la musicalità dello Swing. Oltre a firmare di suo pugno molti dei brani, si avvale del contributo dei più grandi autori del periodo, così nascono canzoni d’amore senza tempo per la loro bellezza, come Mamma… voglio anch’io la fidanzata, o Solo me ne vo per la città (In cerca di te), o ancora Laura. Non ci sono soltanto i sentimenti tra le sue corde, Natalino Otto è un musicista vero che ha rischiato il tutto per tutto pur di realizzare il suo sogno e far decollare la sua carriera artistica,  senza mai perdere la voglia di divertirsi, così dà vita a brani come l’irresistibile Mamma mi piace il ritmo, e Impara a cantare; Che Ritmo…  senti che ritmo, l’indimenticabile La classe degli asini, l’immortale Ho un sassolino nella scarpa, ma non si possono non menzionare Pinocchio o Mister Paganini. Nel suo repertorio non mancano testi dedicati alla descrizione delle problematiche sociali, sempre con il suo stile scanzonato, come Amore e totocalcio. Questi sono soltanto alcuni tra i più celebri brani della sua sconfinata discografia degli anni quaranta; anni in cui tiene su il morale di una nazione provata dalla guerra e ne assiste alla complicata nascita della Repubblica, continuando a battere il suo ritmo solare e coinvolgente. Il suo successo lo porta ad interpretare, aiutato anche dalla sua presenza fisica, ruoli da protagonista al cinema e a sbancare i teatri. In qualche modo l’onda lunga del successo gli permette di resistere anche alle rivoluzionarie forme di comunicazione degli anni cinquanta. Con la nascita della televisione tutte le attenzioni mediatiche si spostano sul tubo catodico. Anche il festival di Sanremo, che probabilmente è il maggiore veicolo della canzone melodica all’italiana, si sposta sulle frequenze televisive, facendo registrare la presenza di Natalino Otto in ben cinque occasioni, tra cui quella con la moglie Flo Sandon’s e l’ultima insieme a Johnny Dorelli nel 1958, in cui non è mai vincitore; ed in effetti in questa nuova veste non sembra perfettamente a suo agio come lo era, nell’ultimo successo prima della TV, l’audace Vendo Ritmo del 1953. Inizia un periodo difficile a causa dell’apertura al mercato musicale estero che porta in Italia i brani originali da cui Otto aveva preso ispirazione. Inoltre un altro genere più esplosivo sta prendendo piede: il Rock and Roll e l’inevitabile cambio dei gusti dei giovani assetati consumatori lo porta ad esplorare altre soluzioni. Il fattore che, però, pesa maggiormente sulla sua graduale uscita di scena è l’atteggiamento dei dirigenti Rai dell’epoca che lo imbrigliano in ruoli artistici non adatti al suo bagaglio musicale e al suo innato istinto da pioniere e innovatore. Negli anni sessanta le sue apparizioni pubbliche sono ormai limitatissime, passa il suo tempo a dedicarsi alle casa discografica da lui fondata, la Telerecord nel tentativo di lanciare sulla scena musicale italiana nuovi artisti. Quelle rare volte che va in sala d’incisione lo fa per rendere omaggio alla sua città natale, Genova, ma stavolta sceglie un altro ritmo, ancora più primitivo e poco conosciuto, quello della Bossa. Il ritmo ce l’ha sempre avuto nel sangue e il ritmo non l’ha mai tradito, a tradirlo a soli cinquantasette anni invece è il ritmo del suo cuore che lo abbandona a causa di un infarto nel 1969, ma non sottraendogli la corona da Re del Ritmo che con il suo stile ha creato le basi dell’intero patrimonio musicale alternativo in Italia.