sabato 30 marzo 2024

1988. The Church. “Starfish”

 


Mentre scintillavamo come stelle, al culmine dell’illusione, involontariamente ci stavamo perdendo. Mentre ci consumavamo al massimo dello splendore sfavillante ci stavamo smarrendo. Inebriati dal luccichio delle paillettes degli anni ottanta non ci rendevano conto che stavamo per essere inghiottiti nel buco nero degli anni a seguire. Non sapevamo davvero quello che stavamo cercando, pieni di energie, con la voglia di saltare sul mondo, di spaccare tutto e ogni cosa proibita o meno sembrava a portata di mano. Edonismo narcisista e individualista, arrivismo esasperato, rampante, sostituivano i valori degli anni precedenti, l’idea dell’amore libero e la dilatazione dell’anima per una maggiore consapevolezza di sé, il collettivismo e la lotta al potere. I soldi sembravano girare facilmente e quei soldi anche se insanguinati ci facevano raggiungere le nostre comodità, i nostri squallidi, falsi, miti. Quello di cui avevamo realmente bisogno, da sempre e per sempre, erano le sostanze, sostanze che ci facessero perdere la cognizione di quello che avevamo perso, e di quello che stavamo perdendo ancora. Che ci facessero perdere la cognizione della nostra identità. Alcool o droghe per sopperire a tutto questo. Le sostanze pericolose venivano nascoste negli anfratti bui, nei cessi delle stazioni notturne o nelle periferie senza controllo. I treni arrivavano e partivano per nuove destinazioni. Si poteva cambiare pelle ogni giorno come un viscido e potente rettile. E ogni volta era un successo. Ogni nuova alba era un successo. Dopo la notte vissuta a inseguire la via lattea senza sapere davvero dove andare. I punti cardinali scossi e rimescolati nell’incavo delle nostre mani come fossero dadi impazziti di un gioco divino e infantile. La somma dei numeri era sempre inferiore a quella scommessa. E comunque facevamo scommesse sempre più grandi. Potevamo sintonizzarci con tutte le correnti più intense e scorrere, scorrere via incontrollati. C’erano ancora angoli del pianeta che scintillavamo per noi, che ci riservavano qualche scintilla personale. In fondo al mare come una stella marina o dentro un vulcano, o nella galassia più lontana. Il massimo del piacere. Sì, avremmo potuto rinascere, vivere una nuova stagione ma abbiamo preferito perderci, perderci inesorabilmente nel grembo che ci ospitava, fosse un amore passeggero, o una sbronza, o un viaggio fortunato. Nessuno dio, nessun valore, nessuno futuro. Solo altre piccole, Improbabili, sempre più rare, scintille personali. Così giravano The Church, con il loro album "Starfish”, raccontando gli anni ottanta, nel mio mangianastri portatile, e in qualche modo riempivano il vuoto lacerante che si era creato dentro di me nel 1988. Il più doloroso che si possa immaginare per un ragazzo. La perdita del padre. Un vitale punto di riferimento. L'unico modo per non soffrire che la mia mente pseudo adolescente mi suggerì fu quello di cancellare ogni sensazione. Ricordo. Emozione. Una tabula rasa. Come se non avessi mai vissuto. Così mi ritrovo a Palermo,  agli inizi degli anni novanta, chiuso in me stesso, a studiare chimica, con la necessità di aggiungere esperienze forti al mio bagaglio da rampollo di provincia. Una delle prime emozioni fu l'ascolto di Starfish, passatomi, due anni dopo l'uscita ufficiale del disco, in un'audiocassetta registrata, in maniera casalinga, come una dose presa da uno spacciatore, da una delle prime persone che ho conosciuto a Palermo, un ragazzo di cui adesso non ricordo più il nome, ma a cui sarò per sempre grato. Del tutto inconsapevolmente mi passò uno dei dischi più rappresentativi di quegli anni. Palermo era bellissima. Aveva già l'aria di una metropoli esotica, con i suoi mercati le sue cupole arabe, i profumi del porto e le architetture normanne tra quelle abusive. Con il suo fascino ancora pericoloso e tremendamente accogliente per uno studente. La meraviglia era così grande che non ci siamo mai accorti che in quegli anni si combatteva una guerra intestina. Ogni mattina, al risveglio, la notte ci restituiva, dal suo fondale di tenebre, un morto ammazzato per mano mafiosa, mentre la vita continuava come se niente fosse. Si combatteva. Qualcuno moriva, qualcuno lottava per un concetto astratto di giustizia, qualcuno rivendicava la propria giustizia personale, qualcuno ambiva al Potere, mentre io dovevo assolvere soltanto al mio dovere di studente. Non c'erano i lustrini e la spensieratezza degli anni ottanta. Ero perso tra le volte di fumo del mio vuoto. E anche se Palermo era bellissima, io ci ho messo un po’ prima di amarla. Non riuscivo, o non sapevo, amare nessun luogo. Cittadino del tutto. Cittadino del niente. Sognavo sulle note di Starfish seguendo le crepe dei muri della mia stanza, con i sogni che sprizzavano incontenibili da quelle crepe. Ero giovane e avrei potuto innamorarmi. Ma forse ero troppo giovane e continuavo a innamorarmi della donna sbagliata. Erano troppe le scale da fare e il sogno aumentava per ogni rampa che superavo. Quando sono arrivato sulla cima, il piacere era bello, bellissimo, ma meno del sogno. Non avevo ancora trovato la mia scintilla personale. Quella maledetta tendenza a sognare mi ha fottuto la vita, ma era comunque la cosa più bella che mi potesse capitare. Forse era quella, sì, era quella la mia scintilla personale. Ritrovandomi, come sempre, col culo sull’asfalto e magie nelle tasche.


The Church nel 1988: Steve Kilbey: Basso, voce solista. Peter Koppes: Chitarra, voce solista in A New Season. Marty Willson-Piper: Chitarra, voce solista in Spark. Richard Ploog: Batteria, percussioni. 


Tracklist: 1. Destination. 2. Under the Milky Way. 3. Blood Money. 4. Lost. 5.North, South, East and West. 6. Spark. 7. Antenna. 8. Reptile. 9. A New Season. 10. Hotel Womb




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