Per la rubrica: Viva la musica dal Vivo, ringrazio infinitamente, Rough Max Pieri, PG Petricca e Giannasso, per aver scelto il mio blog per fare un resoconto sull'ultimo tour nel nord dell'Europa in promozione del disco "Dispersi".
Devo dirti che suonare fuori dai confini nazionali sta diventando una bella abitudine. Siamo ormai al quarto o quinto tour che facciamo e l’aspetto più sorprendente di tutti rimane senza dubbio il gradimento che la musica sta ottenendo grazie all’uso della lingua italiana. È un paradosso che la scelta dell’idioma nazionale sia coincisa con l’interesse di un’etichetta discografica svizzera, la Road Sweet Road, che ha licenziato poi il nostro ultimo disco, “Dispersi”.
A proposito dell’ultimo disco, avete tirato fuori un blues grintoso e corposo. A mio parere, una goduria assoluta. Incredibile come si presti alla lingua italiana o al dialetto abruzzese. Tanto che mi fa pensare: come fa il blues a essere ancora così bello? Solo perché siete bravi voi?
Se siamo o meno bravi non possiamo certamente essere noi a dirlo. Prendiamo atto delle buone recensioni che ha ricevuto il disco e delle richieste che ci arrivano per i concerti - più dall’estero che dall’Italia è vero - ma pazienza. La maggior parte degli operatori culturali nazionali conosce il progetto, non può essere un rammarico se piace o no, tanto per noi, quanto per loro. Il discorso sul blues è invece più articolato e complesso. Siamo di fronte a una forma musicale diretta e semplice, fatta di pochi accordi, di rapporti armonici assai simili a diverse musiche popolari nel mondo, Italia inclusa. La differenza - come sempre - viene fatta dall’anima e dalla passione che ci metti dentro. Questa peculiarità rende il blues molto trasversale, apprezzato in contesti anche fra loro molto diversi. A noi, ad esempio, è capitato di suonare per strada, in mezzo al caos del traffico, di fronte a un pubblico sospeso per un attimo dall’inseguire la propria vita. Ma abbiamo suonato anche nelle sale concerto, dove non si sente volare una mosca e si percepisce in maniera palpabile la voglia di ascoltare il respiro delle note.
Alla fine il pubblico se ne frega della lingua, si fa trascinare dalla musica, giusto?
Abbiamo avuto più volte la prova che la lingua non costituisce affatto un limite. Soprattutto in Germania ci hanno più volte fatto intendere che l’italiano, inserito nel contesto del blues, suona molto intrigante, quasi esotico. Alla fine, credo che il mood, il groove e l’attitudine generale della proposta musicale facciano sempre una grande differenza, rappresentando aspetti universali della musica, che tutti possono capire, al di là delle barriere linguistiche.
C'è una città o un concerto a cui siete più legati?
Ogni concerto ci lascia sempre qualcosa, indipendentemente dal luogo dove si tiene. Il bello di suonare in giro è conoscere meglio i contesti e le persone. Non si riesce a vedere granché delle città dove si suona, ma si scoprono altri aspetti dei luoghi e delle comunità - forse più profondi e significativi - che da turisti probabilmente non si riesce a intercettare e comprendere fino in fondo.
Perché ancora il blues? Può ancora comunicare qualcosa alle nuove generazioni?
A mio parere esiste un grande equivoco intorno al blues, che rischia di portare alla sua stessa estinzione. I principali artefici di questo equivoco siamo noi musicisti, soprattutto quando non riusciamo a liberarci dai cliché, dal tecnicismo autoreferenziale, dall’aura mitica della cultura angloamericana, che pare debba per forza costituire un esempio monolitico da ripetere pedissequamente. Come collettivo di musicisti abbiamo cercato di uscire dalla logica della “riserva indiana” per rimescolare le carte, non solo adottando l’uso della madrelingua o del dialetto, ma recuperando anche elementi della musica nazionale, sia folk, che cantautorale. Non so quanto siamo riusciti in questo tentativo e, soprattutto, quanto di tutto questo lavoro possa arrivare alle nuove generazioni. La scelta del formato solido (il vinile) e di non farsi brillare per vanagloria sulle piattaforme costituisce un limite consapevole. Mi auguro solo che i millennial non scoprano con stupore la nostra musica fra qualche anno, liberi dall’influenza del suono digitale e di tendenza, ma - al contempo - troppo tardi per poterla ancora apprezzare nella sua forma migliore: analogica e dal vivo.
Nel disco si parla di dispersione, di ritrovamenti, ma anche di andare e vagare. Ecco, come il blues è senza radici, la strada è la vostra vera casa?
La tematica di fondo dei brani è incentrata sulla confusione dei tempi che stiamo vivendo. Il fatto che non esistano più certezze e punti di riferimento sta facendo naufragare molte speranze per il futuro. In questo contesto, alla maggior parte delle persone pare normale e consolatorio trasformare la propria esistenza in una grottesca parodia, dove i pensieri, i sentimenti e persino i corpi possano essere migliorati, editati e modificati. Uscire di casa e vagare sulla strada alla ricerca delle proprie imperfezioni e dei propri limiti sembra uno stile di vita sorpassato, un modo forse estremo di sperimentare l’esistenza, ma probabilmente anche l’unico per recuperare qualcosa di sacro a cui potersi aggrappare con fiducia.
Cosa volete trovare e cosa volete perdere nell’avventura musicale?
Direi trovare noi stessi e perdersi di nuovo. Poi sperimentare ed errare - nel senso di commettere errori, ma anche di vagabondare - come se si trattasse della migliore e più gloriosa opportunità di salvezza.
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