domenica 14 settembre 2025

Tra poesia e canzone

Claudio Orlandi, voce dei Pane, in questa conversazione, ci porta dentro il suo universo: il rapporto con la parola, le influenze poetiche e musicali, l’incontro con il pubblico, il ruolo della poesia oggi – tra umanità e intelligenza artificiale.


Claudio Orlandi è nato nell’agosto del 1973 a Roma, dove si è laureato in Scienze Politiche. Voce e autore dei testi del gruppo musicale Pane, con il quale ha realizzato cinque dischi: Pane (2003), Tutta la dolcezza ai vermi (Lilium, 2008), Orsa Maggiore (2011), Dismissione (Sossella, 2014), The River Knows – A Tribute to the Doors (2018). Del 2009 il disco Corde e martello in duo piano e voce. Dirige sul proprio canale YouTube Radio Pomona, proposta di letture di testi poetici. Nel giugno 2021 pubblica con Tic edizioni Il mare a Pietralata. Poesie e canzoni 1990-2020. Dal gennaio 2025 è parte della redazione del blog letterario "Fissando in volto il gelo".

Info _ Blog personale di Claudio Orlandi 

https://orlandiclo739.wixsite.com/claudioorlandi

Canale Youtube gruppo Pane

https://www.youtube.com/@progettopane/videos


Quando ti sei accorto che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Forma di comunicazione, ma anche di conoscenza. Ma come prima dimensione, credo la poesia sia un modo per esprimere le proprie emozioni in relazione alle proprie esperienze di vita. In questo senso ho iniziato a scrivere – come molti – le prime poesiole in età adolescenziale, cercando di raccontare, descrivere in modo personale quello che mi colpiva. Aspirazioni, visioni, amori, le possibilità che immaginavo davanti a me. Col tempo, quella che era un’attività spontanea e quasi istintiva è diventata una consuetudine, forse anche un modo di essere. In seguito ho poi iniziato ad usare la voce e scrivere i testi per le canzoni, e da allora le due strade – poesia e canzone, testo e voce – hanno continuato a intrecciarsi, ed eccoci qui. 

Che rapporto hai con la poesia? 

Come accennato la poesia, per me, è fondamentalmente una delle possibilità espressive dell’uomo, in qualche modo è connaturata a noi stessi. In realtà tutti compongono poesia ogni giorno, che essa sia scritta o resa come atto del vivere quotidiano. Nel mio caso, a parte le letture scolastiche, negli anni giovanili, una figura centrale per la crescita è stata Jim Morrison. Mi viene in mente una sua frase “La suprema arte è la poesia, poiché ciò che ci definisce come esseri umani è il linguaggio”. Come noto, Morrison leggeva tantissimo e scriveva poesie. ‘The Doors’ deriva da ‘The Doors of Perception’ un saggio scritto da Aldous Huxley che prende spunto dal noto verso di Blake: "Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è, cioè infinita." Morrison da ragazzo era appassionato della Beat Generation, di Jack Kerouac, ma anche di Arthur Rimbaud; così che anch’io, ho iniziato da giovanissimo a leggere i testi Beat, in particolare Allen Ginsberg di “Juke box all’idrogeno” e il genio di Charleville. La poesia, quasi in modo naturale, è sconfinata, “evoluta”, nel teatro-canzone, nel concerto, nell’esibizione scenica. Sono rimasto nel solco di quelle prime forti ascendenze culturali. Nel tempo – ho superato anch’io il mezzo secolo - la relazione con la poesia si è sviluppata, arricchendosi di continue letture, domande, incontri, questioni che costellano fino ad oggi il pensare quotidiano.  

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Sicuramente la parola è il vettore più comune e manifesto per l’espressione poetica, ma esiste anche tanta poesia che non necessariamente utilizza la parola, il segno scritto convenzionale. In ogni caso la parola è anche uno strumento e come tale può essere utilizzato in tanti modi e da soggetti differenti, con finalità diverse. Se leggo “massimo abuso telematico” mi viene in mente il monumentale “1984” di Orwell, e come il regime utilizzi la parola per gestire il dominio totalitario. Ecco, in questi anni, mi sembra che il Potere stia veramente utilizzando con sempre più forza la parola per le proprie finalità. Studiare la parola significa allora, non solo costruire l’immaginario (il mare a Pietralata) ma anche essere in grado di smascherare la propaganda, decostruire i castelli, le narrazioni farlocche e porre versioni alternative, conflittuali e resistenti. Probabilmente è per questo motivo che il Potere ha sempre ricoperto di lode i poeti di corte e cercato di ridurre al silenzio i poeti dissidenti. Il Potere non può nulla contro il poeta discorde, l’eretico, il disertore, se non cacciarlo. Per questo una delle patrie di elezione del poeta è l’Esilio. 

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Rivolgo la domanda direttamente all’AI, ecco la sua risposta: “«La parola umana e quella dell’intelligenza artificiale non sono davvero in competizione: nascono da due fonti diverse. La parola dell’uomo porta con sé la memoria del corpo, l’ombra dell’esperienza, la vibrazione delle emozioni. La parola della macchina, invece, è costruzione statistica, una combinazione possibile tra milioni di altre parole. Eppure possono interagire: la parola artificiale può diventare uno specchio, un’eco, un contrappunto che stimola nuove vie. Ma il senso, il gesto creativo, rimane umano, perché senza vita vissuta la lingua resta pura superficie. Forse il compito dell’uomo oggi non è difendere la parola, ma abitarla con più forza, renderla sempre più incarnata. Perché il rischio dell’intelligenza artificiale è produrre un linguaggio fluido, levigato, che non conosce ferite. La poesia, invece, nasce proprio dalle crepe: dal silenzio, dallo strappo, dall’eccesso che nessuna macchina può calcolare.» Mi sembra una bella risposta 😉 

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Come detto “Il mare a Pietralata” è una raccolta di poesie e testi dell’arco di trenta anni. È un corpo polimorfo nel quale sono contenute varie fasi. Così per i dischi Pane. Sono stati realizzati a distanza di diversi anni l’uno dall’altro e ciascuno rispecchia il momento. Il prossimo disco sarà una rappresentazione dell’oggi. Mi riconosco nel percorso complessivo. Per quanto riguarda le canzoni, penso che “L’Umore” sia ad oggi uno dei nostri pezzi più riusciti. 



La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Ovviamente sì. Finché ci sarà umanità avremo poesia. 


Visto che sei anche un musicista nasce spontanea la domanda se c'è un concerto tra quelli già fatti nella tua vita che ti è rimasto nel cuore e perché?

Eravamo a Trento, nel 2008, fine agosto, un caldo torrido. Ma non era il caldo il problema, quanto il luogo, piazza Dante - parco della stazione. Come tutte le stazioni che si rispettino, il parchetto era frequentato da persone borderline, per lo più stranieri in cerca di svoltare la giornata. Iniziamo nel pomeriggio a montare il palco e l’attrezzatura e subito si avvicinano persone non proprio raccomandabili e sensibilmente alterate dall’alcol e forse anche dalla nostra presenza. Sai quegli eventi che si organizzano per la “riqualificazione” di certi luoghi. Per farla breve dopo qualche momento di tensione e di dubbio sulla riuscita del concerto, si è giunti alla sera e abbiamo iniziato a suonare. Di colpo il parchetto, nella sua veste notturna si è riempito di persone che nel silenzio hanno ascoltato il live. E quelle stesse persone che avevano mostrato qualche diffidenza si sono ritrovate ad applaudire con entusiasmo. La musica aveva portato l’armonia tra tutti. Ci salutammo con grandi abbracci. 

Ci sono nuovi progetti?

Come accennato stiamo concludendo la realizzazione del nuovo disco, che contiamo di far uscire entro la fine dell’anno. Stile Pane, brani in italiano, quasi tutti di nostra scrittura ma con un dialogo forte con la poesia italiana contemporanea. Nati in tempi diversi – alcuni anche molti anni fa - ma modellati e ultimati in questi mesi. Tra pause forzate, meditazioni sonore e letture della realtà. Siamo soddisfatti, è un disco che ci rappresenta profondamente. 






giovedì 4 settembre 2025

Next Stop Martinsicuro

E si va in Abruzzo... a presentare il progetto Mitopoesia di frontiera... Insieme a me il Maestro Marco Pofi.  Introduce con le sue poesie la scrittrice Tiziana Ciampetti. 




domenica 24 agosto 2025

George Russell: La musica è fatta a scale


Durante il primo ricovero, a causa della tubercolosi, George Russell assiste dal letto dell'ospedale all'evolversi del secondo conflitto mondiale e ha la fortuna di incontrare il musicista che gli impartisce i fondamentali elementi per la geniale idea a cui lavorerà in futuro contribuendo notevolmente allo sviluppo teorico del Jazz. George è nato da un padre bianco e una madre nera, ben presto adottato, però, dalla coppia di coniugi Bessie e Joseph Russell. Il padre adottivo oltre ad essere uno chef era anche un educatore musicale e ha consentito a George di frequentare ambienti artistici fin da bambino. Da subito mostra una predilezione per la voce e la batteria che lo porta a vincere una borsa di studio.  All'uscita dall'ospedale frequenta il circolo culturale che gravita attorno all'appartamento di Gil Evans, insieme ad altri grandi jazzisti degli anni quaranta, ma i sintomi della malattia non sono scomparsi del tutto. Durante il secondo ricovero che dura ben sedici mesi, sempre a causa della tubercolosi, deve rassegnarsi alla sfortuna di perdere l'occasione di entrare a far parte della band di Charly Parker, ma ha la possibilità di mettere su carta la sua rivoluzionaria teoria. Il lavoro si chiama "The lydian chromatic concept of tonal organization" che propone l'utilizzo del modo lidio di suonare. Il Jazz è costituito essenzialmente da improvvisazione e i musicisti si affidano a delle scale tonali limitate. Il metodo di Russell importa metriche dalla tradizione gregoriana e quella più antica dei compositori greci per inserire modi musicali su scale cromatiche che prevedono lo spostamento dei semitoni allargando le possibilità improvvisative. Durante gli anni quaranta elabora le sue teorie mettendole in pratica per altri artisti come Dizzie Gillespie e Buddy Di Franco. Abbandonata la batteria decide di dedicarsi al piano e il debutto discografico avviene nel 1956 con "The Jazz Workshop" un disco dalle armonie originalissime e dense come se a suonare fossero più dei sei musicisti del sestetto. Lui compare come arrangiatore e come autore, al suo fianco, responsabile del pianoforte, c'è Bill Evans.  Un altro importante passaggio discografico lo scrive con "New York, N.Y." in cui al sax tenore troviamo John Coltrane, e con quello che forse è il suo capolavoro "Jazz In The Space Age" del 1960, progetti che riscuotono entusiasti consensi da parte della critica. Bill Evans e John Coltrane che collaborano con Georg Russell in questi dischi, fanno anche parte dello storico quintetto di Miles Davis, che nel 1959 registra "Kind Of Blue", riconosciuto come il primo album di Jazz modale della storia. I brani sono registrati e incisi senza fare le prove, e seguono alla lettera le teorie di George Russell. Le trame d'improvvisazione sono lasciate al talento e alla creatività del musicista, che non segue scale tonali ossessive e veloci come nel be bop, ma si arrampica su linee melodiche anche senza relazione apparente tra di loro. Ogni musicista interpreta a suo modo la partitura. Miles Davis alla tromba ha il suo mood lento che detta il tempo, il suo tempo, sospeso in volo come in continua tensione fra acuti e silenzi, Bill Evans risponde con il suo stile ricco di citazioni intellettuali e John Coltrane travolge tutto con la sua tecnica torrenziale che precipita e risale a valanga dalle scale modali. Coltrane, divoratore di teorie musicali, qualche anno più tardi firmerà un altro fondamentale album che arricchisce il genere: "Impressions", in cui esprime tutta la sua evoluzione emotiva ispirata da sonorità provenienti dai posti più diversi del mondo traducendola in frasi melodiche da capogiro. Per sfociare nell'apoteosi di "A Love Supreme" del 1964, un'immensa preghiera modale, che raccoglie tutte le religioni del mondo. Russell nel corso dei decenni ha applicato le sue teorie in molteplici settori musicali, anche in quello classico, collaborando con i più grandi artisti dei nostri tempi. Muore nel 2009 all'età di ottantasei anni ma senza la giusta risonanza mediatica. Forse non ha raggiunto il grande pubblico né come batterista, né come pianista, ma come teorico e arrangiatore ha davvero contribuito allo sviluppo del Jazz con un termine che lui amava: Evoluzione, non rivoluzione. La sua teoria rappresenta davvero una forma di evoluzione e merita riconoscimenti planetari.








sabato 19 luglio 2025

Enrico (Henri) Crolla: Tra mandolini e Jazz Manouche

Per la rubrica: Archeologia musicale, la storia di un musicista che raggiunge il successo negli anni cinquanta, non facendosi influenzare dalle mode del momento, ma fondendo le radici mandolinare ai virtuosismi gitani e allo swing. 


La sua passione è pizzicare le corde della chitarra, fare danzare le dita tra la tastiera e la cassa del suo strumento, seguendo le melodie che viaggiano tra i pensieri. La sua memoria è un archivio denso di conoscenze musicali. La sua sensibilità lo rende capace di captare insegnamenti anche se non ha mai studiato. Non è precisamente un autodidatta, perché è nato in una famiglia di mandolinari ambulanti e, quindi, la musica la respira da quando è nato. Suo sogno fin da bambino, infatti, è possedere un banjo, per questo motivo va a suonare il mandolino, a meno di dieci anni, davanti ai locali dei quartieri eleganti, accumulando le elemosine. Quando finalmente Enrico Crolla si può esibire con la sua personale chitarra, incanta gli spettatori con il suo senso del tempo, l’eganza ricca di morbidi fraseggi virtuosistici, e il suo stile che fonde lo swing di New York e di New Orleans con le trame melodiche gitane, chiamate manouche, le tecniche flamenco, con elementi nostalgici legati alle radici mandolinistiche. Fin qui si potrebbe pensare che stiamo raccontando la storia di un musicista italiano e invece lui in Italia c'è soltanto nato, in un ospedale di Napoli nel febbraio del 1920, e nel Bel Paese è pressoché sconosciuto, perché all'età di due anni, durante il grande flusso migratorio degli anni venti, si trasferisce, con tutta la numerosa famiglia, in Francia, a Parigi, nel quartiere periferico di Porte de Choisy, denominato soltanto Zone, dove le baracche degli italiani immigrati e quelle degli zingari Sinti sono indistinguibili. Si può affermare che la sua avventura inizi proprio nella baraccopoli parigina. Enrico naturalmente continua a comportarsi come un italiano. Segue la tradizione di famiglia che è quella di suonare, che è anche il suo sogno, che insegue con il suo carattere allegro, anche introverso, ma nel guardarsi dentro può estrapolare dalla propria interiorità scintille di genio da offrire agli altri in maniera solare. Con il simbolo del sole, infatti, ama firmare in calce le sue composizioni, al posto del suo nome. Quelle baracche diventano la sua casa, perché in quel luogo intriso di contaminazioni musicali può sempre rimanere in contatto con la sua arte, grazie alle continue carovane di musicisti che portano strumenti e stili di musica da tutto il pianeta. E poi incontra l'uomo che con una mano deturpata, con soltanto quattro dita nella mano sinistra suona come se ne avesse venti. Quell'uomo è Django Reinhardt, il chitarrista leggendario che gli insegnerà tutte le più raffinate tecniche dello strumento a sei corde. Enrico non dimenticherà mai la grandezza del suo maestro, anche quando raggiunge il successo, e ogni volta che si esibisce in un locale e lo vede entrare immediatamente cede la sua chitarra per far posto al suo mentore. Quando Enrico suona si aprono tutte le porte, grazie alla sua musica ha la possibilità di conoscere il grande poeta Jacques Prévert, con il quale instaura un stretto legame artistico, come si può apprezzare dalle diverse incisioni frutto della loro collaborazione, e di amicizia, il poeta infatti lo inserirà nell'ambiente intellettuale parigino, dove il musicista potrà completare la sua formazione. Il suo eccezionale talento non passa inosservato, ben presto raggiunge il successo e i francesi lo amano al punto da volerlo naturalizzare, così il suo nome viene mutato in Henri, e il cognome pronunciato con l'accento sull'ultima vocale come è tipico in Francia. Durante gli anni di celebrità vive un intensissimo periodo di produttività. È laeder di una band che diviene di culto, Henri Crolla sa Guitare et Son Ensemble, viene incaricato di incidere ben quaranta colonne sonore di pellicole dove compaiono i più grandi attori francesi di quel periodo come Brigitte Bardot e Jaen Gabin. Viene ripreso mentre accompagna alla chitarra Yves Montand (altro italiano famoso in Francia) che canta il celebre brano Tournesol nel film Souvenir de Paris. Nel pieno della sua carriera, a soli quaranta anni, viene stroncato da una malattia inguaribile, proprio come avvenne, sette anni prima, al suo maestro Django Reinhardt. Il suo talento sta tornando fortunatamente in auge grazie ai chitarristi della nuova generazione jazz, ma anche rock e blues, che apprezzano la tecnica elegante e contaminata del mandolinaro manouche.











domenica 6 luglio 2025

La parola inquieta

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Antonella Caggiano, sulla capacità della poesia di imprimere una direzione nell'inquietudine, far tremare dall'emozione scavando in profondità, porre le basi per l'ascolto. 


Antonella Caggiano vive a Pescara dal 2016, dove insegna materie letterarie. Ha collaborato a <<Il Roma>> e <<Il giornale di Napoli>>, divenendo giornalista pubblicista. Ha pubblicato: Estensioni, Galzerano editore,1990; Cronaca di uno zen annunciato, Albatros, 2010; Dolce di sale, con prefazione di Dante Maffia, Costa edizioni, maggio 2022; La vena delle viole, con nota, in quarta di copertina, di Davide Rondoni, Carta Canta editore, novembre 2023; Il ricordo perfetto, tradotto in romeno, Cosmopoli, Eikon Editori, 2025, il saggio Sassi di parole, Edizione Mondo nuovo, 2025. Le opere sono state accolte positivamente dalla critica. Molte poesie sono state tradotte in diverse lingue. Ha ottenuto importanti riconoscimenti in molti premi letterari. È giurata di premi letterari. È organizzatrice di eventi culturali. È membro dell’Accademia Internazionale “Mihai Eminescu”. Ha partecipato a diversi Festival internazionali della poesia. Collabora con riviste letterarie on line. Alcuni suoi testi sono presenti in antologie, fra le altre in: <<‘900 e oltre>> a cura di Roberto Pasanise e Gerardo Salvadori, introdotta da Pompeo Giannantonio, della facoltà di Lettere di Napoli; nella rivista <<Poeti e Poesia>>, curata da Elio Pecora.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Avevo undici anni quando ho avvertito l’intuizione della scrittura poetica. La prima volta è arrivata prepotente e improvvisa, in un’occasione familiare un po’ malinconica. Ne ricordo ancora esattamente la penombra e il suono delle voci come in uno sfondo da film. Non mi sono posta domande circa l’importanza, la vivo come forma linguistica che più di altre è congruente col mio sentire, cucendo su misura le visioni, le musiche. Il mio percepire è evocazione di parole che mi trastullano e mi fanno alzare di notte. La parola non è mai esatta, è sempre un cammino in fieri. La parola inquieta è quella che orienta la direzione.  

Che rapporto hai con la poesia? 

È un bene ed un male necessari. 

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

La poesia è atto di ribellione. Sempre lo è stato. Non segue le mode, ma ad esse si contrappone e le contraddice. È, anzi, anticipazione dei tempi. È intuizione che va affiancata alla conoscenza dei grandi poeti e poetesse che hanno creato e sperimentato. Su questa strada occorre proseguire, coltivando lo studio della parola in un sapiente gioco linguistico in cui si rivela la vera essenza umana in un’armonia dell’unicità nella diversità. Laddove la velocità della rete annichilisce e aliena, attraverso un linguaggio banalizzato e semplificato, la poesia rallenta, induce alla riflessione e umanizza.  

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale? Sapresti riconoscere uno scritto artificiale da uno umano? 

L'argomento è centrale nel dibattito contemporaneo su linguaggio, tecnologia e creatività. Va affrontato su due piani: interazione e competizione, e poi riconoscibilità. La poesia è mistero e il mistero getta la sua ombra nello spazio che esiste tra percezione ed espressione. In quello spazio la parola poetica è balbuziente, riflettendo l’imperfezione dell’uomo che, pur anelando all’infinito, sente e cade. Il sangue e la carne appartengono all’uomo. Le emozioni nascono dal corpo e sono parte di un’esperienza, un vissuto. Invece, le espressioni poetiche riprodotte dall’Intelligenza artificiale sono molto lineari, talvolta ripetitive e non vi si percepisce il trauma o la profondità autentica. L’IA, per quanto sofisticata, non sente. Questo limite è anche il suo tratto distintivo. Può emulare, ma non esperire. Tuttavia la parola umana e quella artificiale possono essere complementari. Utile si può rivelare l’IA nella ricerca, nell’offrire spunti, idee, tradurre, riassumere. In merito alla competizione, invece, l’IA ha superato di gran lunga l’umano per la velocità e l’efficienza. Non è una scoperta recente l’Intelligenza Artificiale. Anticipando quasi di sessant’anni, Primo Levi racconta l’attuale ChatGPT quando pubblica, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila, la raccolta di racconti di fantascienza Storie Naturali. In essa il racconto Il Versificatore è anche un macchinario acquistato da un poeta per velocizzare la sua scrittura poetica, così da accontentare la sua clientela. Ancora una volta l’intuizione arriva prima della scienza. l’IA è stata creata dall’uomo, ma non può certamente sostituirlo. L’uomo resta l’unico a poter sanguinare di parola. L’IA può imitare ma non tremare.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Solitamente è l’ultima. La vena delle viole è l’opera nella quale ritrovo il seme di intuizioni che hanno caratterizzato un lungo percorso. Il labor limae faticoso, durato anni, è segno di un anelito verso la ricerca della parola che incarni il più possibile con onestà quel sentire originario. È una silloge che mi ha richiesto tante energie per venire alla luce e che ha i miei colori. Ma la poesia è ricerca continua. Dunque l’opera che ancora non ho scritto è forse quella in cui maggiormente mi riconosco. 


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Quando a scuola si parla di poesia, l’interesse è alto. E pure la tensione. Bisogna prestare molta attenzione a come si comunica con gli adolescenti e a come si voglia trasmettere la parola poetica. Evitare che la poesia diventi meramente scolastica, assunta come compito, è prioritario. La poesia proposta come slancio in un linguaggio nuovo e come ascolto, crea em-patia, gancio per arrivare all’altro e a se stessi. Al termine di uno dei laboratori di poesia che normalmente conduco in classe, chiesi ai miei alunni di dire in poesia come si sentissero. Il più indisciplinato e disinteressato alle lezioni alzò la mano: “Mi sento una margherita calpestata” quasi urlò. Mi chiarì con poche parole quanto per anni non ero riuscita a comprendere. Il problema dei nostri giovani è che sono molto soli. Hanno bisogno di ascolto e di sentirsi liberi di esprimere emozioni. 



domenica 29 giugno 2025

Ghigo Agosti: il Rock and Roll in Italia

Per la rubrica: Archeologia musicale,  il fermento rivoluzionario del rock’n’roll prende il sopravvento anche in Italia,  in una scena musicale che sa riservare notevoli sorprese. 



Elvis Presley, Bill Haley, Chuck Berry ed altri guidavano la rivoluzione musicale che portava il mondo verso la rinascita, dopo la seconda guerra mondiale. Anche in Italia, con l’avvento della TV e l’apertura al mercato Internazionale, si sentiva la voglia di accogliere i nuovi generi. Nonostante il gusto popolare attingesse notevolmente al tradizionale melodico, non si trattava di un completo salto nel buio, perché il Jazz era già diffuso negli anni trenta con le grandi orchestre e lo swing si era imposto grazie ad artisti come Natalino Otto, il Trio Lescano o Alberto Rabagliati. Anche dal punto di vista musicale, oltre agli altri settori, il Belpaese aveva voglia di decollare, basti pensare al successo di Domenico Modugno Nel Blu dipinto di Blu, cantata con le braccia allargate come ali nell’invito a prendere il volo. Succede tutto molto velocemente e in pochi anni. Tra i primi a proporre una cover di un brano rock and roll ci sono i membri del Quartetto Cetra, anche se la loro versione di Rock Around The Clock (ribattezzata L’Orologio Matto, 1956) fa lo stesso effetto di una tisana al malto bevuta in un whisky bar. Forse, però, era necessario edulcorarla per presentarla ad un pubblico più ampio: il pubblico televisivo che stava formando i suoi gusti e non poteva essere aggredito, secondo le regole cautelative e censorie della neonata RAI. A formare il suo gusto, proprio in quel periodo, c’è anche un ragazzo che ama la musica alternativa e si nutre nella vasta collezione di dischi stranieri di importazione, del cugino Paolo Tosi, impregnandosi di piano-boogie e ragtime. Questo ragazzo è Arrigo Riccardo Agosti, detto Ghigo, e spesso organizza jam session a casa sua, a cui partecipano molti degli esponenti della scena Jazz milanese e altri musicisti di altra estrazione, tra cui Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Forma una band che chiama Ghigo e Gli Arrabbiati in cui si alternano vari musicisti e collaboratori; suoneranno con lui anche Ricky Gianco e Guidone, oltre Giorgio Gaber. Dal 1954 in poi si esibiscono nei locali milanesi proponendo il sound di Ghigo, costituito da riff ossessivi e percussivi; accelerare il ritmo è la sua prerogativa, è il suo rock and roll, che confluisce in brani come Stazione del Rock e Coccinella, composti dal 1955 al 1957. Forse i primi brani del genere scritti direttamente in italiano, e, forse, tra i primi anche a livello europeo. Per lui, però, la possibilità di pubblicarli si presenta relativamente tardi, soltanto nel 1959, dopo anni di concerti e esibizioni dal vivo, in cui coinvolge il pubblico, con il pianoforte o con la voce, con i suoi pezzi caratterizzati da testi diretti e innovativi. Stazione del Rock è un invito all’amore, alla libertà, al ballo. Coccinella, invece, in maniera molto velata, è la descrizione di un approccio verso un travestito; probabilmente ispirata dal personaggio francese di Madame Coccinelle, balzato agli onori delle cronache per essere il primo transgender della storia. Il suo stile, in cui prevale una vocalità intensa, frenetica, protesa all’urlo, con finto accento americano, unita a una esuberante presenza scenica, lo rende riconoscibile e unico nel panorama artistico. In quegli anni, come accennavo prima, la scena musicale è in totale fermento. Nel 1957, infatti, viene organizzato il primo festival del Rock and Roll italiano (il Trofeo Oransoda), che vede partecipare, tra gli altri, Adriano Celentano e negli anni a seguire anche Little Tony; un potente strumento per la diffusione di questo genere musicale nel nostro Paese. Ghigo si distingue comunque per il suo spirito irrequieto; durante le performances, sbraccia, si dimena, fino a strapparsi la camicia. Lo stesso spirito che non gli permette di accontentarsi mai e che lo obbliga a sperimentare continuamente, una volta che il rock si è affermato e che da esso, negli anni sessanta, iniziano a nascere altri sottogeneri. Le sue ambizioni di innovazione, lo portano a formare altre band come Ghigo e i Goghi, o Black Sunday Flowers, o ancora a stupire cambiando spesso immagine e trovando pseudonimi fantasiosi e meno, come Mister Anima, Rico Agosti o Probus Harlem, per esplorare nuove musicalità; è tra i primi urlatori, con il suo partito estremista, a contrapporsi alle scelte musicali della RAI, e a gettare le basi per il rock demenziale; ma anche tra gli iniziatori del beat in Italia, della psichedelia e del progressive. Nella sua variegata e incontrollabile produzione vanno citati i brani Conosco Jenny, o Tredici Vermi Con Il Filtro e i formidabili Non Voglio Pietà e Solitudine Time, firmati come Mr. Anima, da non dimenticare Madness e Hot Rock. Lo stesso spirito che poi gli suggerisce di abbandonare tutto, quando ormai la soddisfazione non è più la stessa. Nel 1974 decide di ritirarsi dalle scene per dedicarsi alla fotografia, alla grafica, al giornalismo, e inoltre alla poesia, al teatro, e nel tempo libero anche allo sport.






Chuck Berry: 


    Natalino Otto:

domenica 1 giugno 2025

Immagine, musica, filosofia

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Alessandra Iannotta sui valori fondamentali della poesia e quello più fondamentale in assoluto, inseminare tutti gli organi. 



Alessandra Iannotta è nata a Roma nel 1965. Da oltre 25 anni esercita nella Capitale la professione di avvocato civilista. Ha partecipato a vari concorsi nazionali ed internazionali di poesia e di narrativa ricevendo premi, menzioni speciali e riconoscimenti vari. Ha pubblicato, nel 2015, un libro di poesie in prosa, dal titolo “Sangria al Grippiale” (Ed.Dante Alighieri). Nel giugno 2019, il suo primo romanzo dal titolo “Gli occhi di Asha” (Kanaga Edizioni). Nel novembre 2019, il romanzo è stato premiato, come premio speciale “Milano Donna”; un estratto del primo capitolo è stato pubblicato su Rai Letteratura. Nel novembre 2020, ha pubblicato la silloge poetica “Panni al vento” (Ed. L’Erudita). Nel luglio 2022 ha pubblicato una silloge di 138 poesie, dal titolo “Come panni al vento” (Nino Bozzi Editore – Gruppo CTL Editore). Ha avuto modo di sperimentare che la poesia, abbracciata alla musica, può aiutare ad accrescere la bellezza di entrambe le suddette forme artistiche, recitando le sue poesie: -accanto al Maestro, Alessandro Vena, pianista di fama internazionale, presso l’Auditorium San Domenico di Foligno; -accanto al Maestro Martin Palmeri, compositore argentino di fama internazionale, presso il teatro Greco di Roma; -accanto al Maestro Luca Fialdini a Forte dei Marmi, presso Villa Bertelli.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?

Ho amato la poesia fin da bambina, ne scrivo da sempre, ma ho sentito la voglia irrefrenabile di condividere questa mia grande passione solo nel 2015 quando, dopo aver superato un anno difficile, sono stata invitata ad una serata di letture di poesie… quella sera stessa, rientrata a casa, sulle note di Beethoven, ho scritto una poesia intitolata “Vita” ed ho deciso che questa volta, avrei iniziato a condividere con gli altri la mia passione!

Che rapporto hai con la poesia? 

Credo in una poesia non filtrata dalle gabbie della mente, non costruita a tavolino, non imbrigliata in regole stilistiche, capace di raggiungere il cuore di tutti perché capace di catturare la meraviglia che ci circonda, la parte più autentica che abita l’uomo. Credo che la poesia, capace di abbracciare molteplici declinazioni di creatività, sia la più alta espressione artistica. Per me, infatti, la poesia è, prima di tutto, immagine, qualcosa che cattura il mio occhio, ma che, nel contempo, va oltre il mondo visibile, lì c’è il brivido della poesia, il poeta, quindi, è un po’ un pittore che dipinge con la penna; la poesia è, poi, musica perché le parole devono avere un ritmo, il poeta, quindi, è anche un po’ un musicista; infine, e lì, a mio avviso, siede il cuore della poesia, c’è nel linguaggio poetico un messaggio che eleva l’uomo e, quindi, il poeta è anche un po’ un filosofo capace di far riflettere il lettore, non con la testa, ma con il cuore.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Sono certa che oggi la poesia ritroverà il posto di centralità che merita all’interno del panorama culturale mondiale. Il poeta, infatti, è l’artista della parola e mai, come oggi, c’è un estremo bisogno di arte, di un linguaggio costruttore di bellezza, e dunque di poesia! Nel mondo contemporaneo, dominato dalla tecnologia, è indispensabile recuperare la parte più autentica che abita l’uomo, riuscire a dare voce alla nostra parte irrazionale dove regna regina la creatività, che è alla base di ogni forma di espressione artistica, e che non potrà mai essere sostituita dalla macchina.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Penso che si tratti di mondi differenti e, dunque, che non sia corretto parlare di competizione. L’intelligenza artificiale assembla dati, mentre la creatività è prerogativa dell’essere umano che, prima di essere carne, è coscienza…

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Sono, profondamente, legata ai miei primi cinque libri (tre libri di poesie, una favola poetica e il mio primo romanzo dal titolo “Gli occhi di Asha”) che ho pubblicato con quattro diverse case editrici e di cui, essendo scaduti tutti i relativi contratti di edizione, ho recuperato i diritti. Nel 2024, ho autopubblicato su Amazon, il mio ultimo libro, un romanzo dal titolo “Muse sciamane” ed è questa l’opera a cui mi piacerebbe accennare. Si tratta di un romanzo in cui i lettori potranno, agevolmente, ritrovarsi all’interno degli intrecci narrativi e, nel contempo, essere, tuttavia, trasportati in mondi fantastici in quanto nell’opera entrano, prepotentemente, anche numerosi elementi immaginifici e poetici. È, infine, un romanzo filosofico perché è capace di fornire al lettore le chiavi per vivere con più leggerezza e gioia!



La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Viviamo tutti nella storia che, inevitabilmente, cambia, ma, a differenza della maggior parte degli adulti, i giovani conservano la freschezza di una visione della vita più libera dalle maglie mentali, più intuitiva e, quindi, più vicina al sentire del poeta. In un mondo, come quello in cui viviamo, dove tutto è estremamente veloce, sussiste, a mio avviso, l’urgenza di aiutare i giovani a recuperare la capacità di entrare nella profondità della parola che, lungi dall’essere solo uno strumento per comunicare, è prima di tutto generativa di pensiero. I giovani, meno contaminati da sovrastrutture rispetto a noi adulti, hanno solo bisogno di guide, che, in modo gioioso, catturando la loro attenzione, siano capaci di fargli riscoprire la potenza e la bellezza della parola poetica.





domenica 25 maggio 2025

Chuck Berry e la poesia che si balla

Per la rubrica: Archeologia Musicale, e poi arrivò il rock and roll,  e nulla fu come prima... 



Si può accelerare il blues più sostenuto e il Country più concitato, si può accelerare ancora di più. Si può accelerare il Rhythm and Blues più veloce, sì, si può accelerare ancora di più. Con il Rock and Roll si può accelerare ancora di più, perché il Rock batte pulsa pompa, fa sbalzare il cuore dal petto, rende impossibile la staticità. Il corpo si deve muovere, dondolare, ballare, danzare, sballare. Dagli Stati Uniti arriva il genere musicale che sa attingere alla musicalità delle origini e presentarla come qualcosa di totalmente nuovo. Uno stile rivoluzionario che sa unire i gusti dei bianchi e dei neri, che sa vivere l’onda del presente presuntuoso degli anni cinquanta e tagliare i ponti con il passato. La poesia del corpo, la poesia che si balla. Sì, forse è un azzardo definire poesia i suoni eseguiti da Elvis Presley, Bill Haley, e, soprattutto, per me, Chuck Berry, ma è con l'azzardo che si vincono certe scommesse. Lui che ha vissuto tutta la vita all'insegna dell'azzardo. Chiudersi in uno studio di registrazione, prendere un classico del country come Ida Red, fonderlo al rithm and blues, accelerare la cadenza delle battute e tirare fuori un genere di musica totalmente nuovo (in seguito battezzato Rock and Roll), forse era un azzardo maggiore di rapinare negozi. Ma a lui è riuscito, forse perché abituato a barare con la vita. È così che è nata Maybellene. È così che è nato tutto. Da un azzardo. I testi sono semplici, è vero, ma è anche vero che sono diretti, escono in una forma di gesto spontaneo, senza filtri, dalla vita al palco. Perché è la sua vita che mette in ballo, nel senso letterale del termine. In Johnny B. Good canta di un ragazzo di campagna che vuole affermarsi nella metropoli. La fame di conquiste sociali lo divora fin da giovanissimo, spingendolo anche a delinquere e a conoscere il carcere. Canta la voglia degli adolescenti di rompere i ponti con le noiose pratiche quotidiane e con la musica del passato, come in Roll Over Beethoven o in Too Much Monkey Business. Affronta da spaccone le tematiche legate al razzismo, esaltando il fascino degli uomini di colore come in Brown Eyed Handsome Man. E poi canta del sesso, con tormentoni a doppio senso per ingannare la censura come in My Ding-A-Ling, e canta dell'amore per le donne, per le giovani donne soprattutto, che gli causerà non pochi problemi giudiziari, tanto da arrecare un arresto determinante alla sua carriera che non toccherà più i vertici dell seconda metà degli anni Cinquanta. Ma forse non sono l'unico a pensarla cosi dato che grazie ai suoi testi è stato inserito nella Songwriters Hall of Fame, e che Johnny B. Good rappresenta gli Stati Uniti d'America nella missione del Voyager nello spazio. Sono passati circa settanta anni da quando il rampante Chuck caracollava imbracciando la chitarra, con il suo celebre passo dell'anatra, ma se artisti impegnati come John Lennon, Bob Dylan, Lou Reed, David Bowie, Bruce Springsteen hanno avuto voglia di avviarsi sulla strada della musica Rock, con molta probabilità non è un azzardo così grande parlare di poesia. Chuck, tu sei poesia che balla!









domenica 18 maggio 2025

Il giorno che suonai con Jorge Pardo

Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, il racconto del batterista Luca Caponi che condivide con noi l'emozione di un concerto dal sapore intimo e gioioso nato estemporaneamente in una situazione particolare… 




Diplomato in Strumenti a Percussione presso il Conservatorio “A.Casella” dell’Aquila, ha conseguito in seguito il Biennio superiore di Musica Jazz e quello di  Strumenti a Percussione con il massimo dei voti presso il Conservatorio di Roma “Santa Cecilia”. Collabora in maniera continua con Open Trios di Giovanni Bietti, con il quale registra il CD “Ludus Herodis” (Ed.MAP) e con cui, tra l’altro, ha avuto la possibilità di esibirsi costantemente. Collabora dai primi anni 2000 con Gabriele Coen (sassofonista-compositore) con il quale ha registrato 6 CD. Ha collaborato con l’attore Ascanio Celestini nello spettacolo-concerto “Canzoni impopolari”. Collabora con il chitarrista flamenco Matteo D’Agostino, con il quale registra in duo il CD “Aquí me encuentro”. Collabora con il gruppo “Así” con il quale ha registrato tre CD: “Asicomolasflores” (ed.Trelunerecords), “Luna che mira ad Oriente”, “Así” (ed.Jandomusic) ed un digital album “Shurùq”-Así Quartet (Bandcamp.com). Tra le varie collaborazioni:Il pianista-compositore Antonio Cocomazzi, con il quale registra il CD “Mare Solo” (ed.MAP) come marimbista-batterista-percussionista, il gruppo Baltabarèn (2 CD, esibizioni a Roma e dintorni e in giro per l’Italia), la cantante Nada Malanima, con la quale collabora nel tour estivo del 2000, il cantante Canio Loguercio (Auditorium di Roma 2021,Teatro Ichos di Napoli). 



Ho la fortuna di conoscere Luca da tanti anni, eccezionale sia come persona sia come musicista. Ho la fortuna di conoscere il suo talentuoso modo di suonare e non potevo non chiedergli quale fosse il concerto che più gli è rimasto nel cuore. Non se lo è fatto ripetere due volte, appunto, e immediatamente sono partiti i ricordi…

Tutti abbiamo grandi emozioni che continuano a viverci dentro come ricordi: noi musicisti collezioniamo nell’anima le impressioni assonnate dei viaggi, l’odore di polvere dei teatri, l’aria umida dell’erba intorno ai palchi estivi, il fremito di certi applausi e il tremore di alcune incertezze. Certe giornate, come nel resto della vita, lasciano un’impronta più profonda di altre. Mi piacerebbe condividere brevemente una mia esperienza che, tra tante, è stata per me molto significativa e vitale. Il ricordo è vicino, datato 7 settembre 2024, giorno in cui il mio carissimo amico Matteo D’Agostino, straordinario chitarrista, si è sposato con Patrizia, che per l’occasione ha pensato di fargli una sorpresa indimenticabile, ingaggiare uno dei miti musicali assoluti di Matteo (ed anche mio!) il flautista-sassofonista Jorge Pardo. Per chi non lo conoscesse basti dire che ha suonato per anni nello storico gruppo di Paco De Lucia e più recentemente ha vinto un Grammy per un album composto insieme a Chick Corea. Per approfondire https://es.wikipedia.org/wiki/Jorge_Pardo_(músico). 



Immagino già l'atmosfera di festa, il vino, la gioia, la condivisione… molti dei presenti erano musicisti…

L’atmosfera era naturalmente gioiosa, parecchi degli invitati lo conoscevano e condividevano la nostra emozione, gli altri sapendo che c’era un famoso musicista tra di loro che si sarebbe esibito, erano eccitati ed incuriositi. Le prove nello stanzino (io suonavo sul tavolo), prima di salire sul palco, avevano il sapore dell’avventura totale: si stabilivano stop, cambi di tempo e di tonalità mai provati, con pochi minuti per memorizzarli, con grande gioia e divertimento, con la voglia di metterci alla prova, sull’orlo dell’incertezza. Tutto andò magnificamente, la musica fu la pietra preziosa di una delle più belle serate che ricordi, i due sposi furono splendidamente onorati e la serata proseguì al tavolo tra brindisi e risate, insieme a Jorge, persona straordinariamente profonda, come musicista e come essere umano. L’atmosfera del palco per noi era completamente diversa dalle tante atmosfere diverse vissute in anni di musica: era la festa di due cari amici uno dei quali era lì sul palco con me e Mariano (cantaor e chitarrista straordinario che aveva lavorato in Argentina con Jorge ed era stato il tramite per realizzare questo incontro): tutti noi eravamo lì per fare musica e con la musica festeggiare insieme, senza nessun pensiero professionale e lavorativo. Questi sono solo alcuni dei ricordi di quella giornata (seguita da una fantastica cena a casa mia esattamente una settimana dopo, con Matteo e Patrizia, Mariano e Pilar, Jorge insieme al suo manager Reginaldo e la figlia di quest’ultimo Sayuri, cena coronata da una jam nella mia stanza “intorno a mezzanotte”, grazie al fatto che i vicini erano ancora in vacanza),

Cosa ti emozionava così tanto nel suonare con Jorge Pardo? Lo conoscevi già? 

Avevo visto Jorge esibirsi dal vivo due volte, una volta a Roma con il suo trio storico (con Carles Benavent e Tino Di Geraldo) e una volta all’ EJE (European Jazz Expo) di Cagliari, dove anch’io ero presente per suonare, ed incontrandolo a pranzo in hotel ero andato a salutarlo e a farmi una foto con lui, che gli mostrai subito in questa occasione (nello stesso festival ebbi l’onore di conoscere il chitarrista John Scofield). 

Cosa ti è rimasto dentro di questa giornata e di questo concerto?

Di quel giorno mi resta impressa la veloce scossa elettrica che sentii nel petto la mattina, mentre si scherzava e rideva, suonando sul palco con Matteo e Mariano, durante il sound check. Preso dalla musica e dall’allegria della giornata, sotto il bel sole romano di Settembre, quasi senza memoria e coscienza mi godevo il momento, finché, avvicinandosi mezzogiorno, Matteo mi risveglia, dicendo: “Ragazzi, tra 10 minuti arriva JORGE!”…



















domenica 4 maggio 2025

La poesia e l'entusiasmo

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autore Stefano Tarquini su questa cosa meravigliosa che è la Poesia. 


Stefano Tarquini è nato a Roma il 28 giugno 1978, e vive a Guidonia. È talent scout letterario e speaker radiofonico presso Read(y), editor di poesia presso Super Tramps Club, ideatore e conduttore del festival di poesia Argini, e del format streaming sulla poesia italiana Sourpoetry. Voce presso la band post core Palkosceniko al Neon, e la band spoken word L’Amorte. Ad agosto 2021 esce la sua prima silloge con Transeuropa “I giorni furiosi”. “Cucina vigliacca” esce ad ottobre 2024 con Giulio Perrone editore, ed è la sua seconda silloge. Inoltre si occupa di poesia a 360 gradi organizzando eventi culturali, reading e open mic praticamente ovunque, poetry lab nelle scuole, carceri e case famiglia.

Quando ti sei accorto che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?

Quando a 40 anni la mia vita precedente si sgretolava e un’altra prendeva forma. Non scrivevo da parecchio, mi ero dedicato di più alla musica andando a suonare in giro per tutta Italia e oltre, perdendo anche un po' di dimestichezza con questa cosa meravigliosa che è la poesia. Poi cercando di raccontare quel preciso mio momento storico è tornata come uno tsunami e non mi ha più lasciato.

Che rapporto hai con la poesia?

Meraviglioso e conflittuale. La pratico e faccio praticare ovunque, soprattutto nei laboratori che tengo con una certa frequenza ed un certo entusiasmo. Scrivo tutti i giorni divertendomi con la parola e con quello che c’è dietro. Porto avanti il mio grande sogno e cioè quello di lavorare come editor di poesia, figura che ancora non è del tutto riconosciuta, mentre invece l’editor in narrativa è una figura professionale sdoganata e a volte supera di fama l’autore del libro a cui lavora.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Fa tutta la differenza del mondo. Se ti guardi intorno in ogni campo della comunicazione stiamo rischiando il fondo del barile. Il ventennio di Berlusconi ha distrutto quasi interamente l’impeto culturale di questo povero Paese. Pensa alla piattezza della musica, dei testi che scrivono i ragazzi oggi. Poi se pensiamo all’editoria non ne parliamo proprio, al netto di poche realtà sane infatti, la maggior parte degli editori sono dei tipografi beceri che campano approfittando di gente che per ego smisurato pubblica idiozie pensando di essere poeti. È un tempo veramente buio per la parola.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Non c’è storia. E lo dico avendola sperimentata per gioco. Dopo averla istruita infatti restituisce solo piattume e luoghi comuni. L’intelligenza artificiale al momento è buona solo per le ricerche di scienze e poco altro.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?

Mi riconosco solo negli autori che mi scuotono, sono pochi ma fortunatamente ancora ci sono. Mi riconosco quando qualcosa che scrivo mi fa sentire vivo, quindi ti direi la prossima poesia, la prossima silloge. “Cucina vigliacca” mi ha travolto di cose buone e cose orribili, lo ritengo già un capitolo chiuso.



La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?

Ovviamente si. La gioia negli occhi dei ragazzi quando faccio i poetry lab lo confermano. Niente è come praticare la poesia con entusiasmo.









 

domenica 27 aprile 2025

Clifford Brown: Il tempo di uno squillo di tromba

Per la rubrica: Archeologia musicale, il percorso che fa il jazz che prende la direzione dell'hard bop, grazie all'incontro di due geni assoluti.

Ha soltanto dodici anni Clifford quando suo padre lo invita a suonare la tromba e, certo, non può immaginare che poggiando le labbra su quello strano tubo d’ottone, che emette suoni striduli e acuti, si possa creare una magia tale da proiettarlo nel firmamento del Jazz mondiale in maniera così fulminea, giusto il tempo di uno squillo di tromba… appunto. Non può immaginare che tutto sia così veloce, troppo veloce, nella sua vita. Tutto brucia in fretta, troppo in fretta. Allora… poggia le labbra sul bocchino, chiude gli occhi e soffia… Soffia e sogna... Nel suo sogno c’è l’incontenibile volontà di imparare tutto molto rapidamente, supportata da una naturale predisposizione. Impara presto, infatti; impara a emettere il fiato, riuscendo a eseguire trentadue battute con un unico respiro, impara a muovere le labbra e la lingua per modulare e intonare le note, a gestire la muscolatura delle guance per evitare sbavature sonore. Impara a dirigere l’aria che passa dal tubo attraverso la giusta digitazione sui pistoni; impara a sincopare i volumi attutendo la campana. Il risultato della sua caparbietà è che, adesso quando suona, la melodia sfila in maniera fluida, in perfetta sintonia con l’armonia… quello che lui fa con la tromba è una magia. Non sembra neanche una tromba; è soltanto suono, l’unico suono che il brano che in quel momento vive possa avere. Il suo talento non passa di certo inosservato; quando ancora frequenta l’università tra i suoi estimatori si possono elencare nomi illustri del panorama musicale come quelli di Dizzy Gillespie e Fats Navarro. Ha soltanto ventidue anni quando completa i suoi corsi di studio ed inizia le collaborazioni con i grandi musicisti dello Swing e del Bebop, come Lionel Hampton e Tadd Dameron. La sua inconfondibile arte riesce a dare un segno sostanziale a registrazioni tenute con Art Blakey e Sarah Vaughan. L’incontro della vita, però, avviene nel 1954, quando entra nell’orbita del geniale batterista Max Roach. Tra di loro l’intesa è totale. Sentono l’esigenza di apportare qualcosa di nuovo alle sempre sperimentali sonorità Jazz; e sanno benissimo che per rinnovare non c’è niente di meglio che andare a scavare nel passato, nelle tradizioni musicali delle proprie radici culturali. Il Blues delle origini è il loro luogo di esplorazione più idoneo. Così prendono le vecchie melodie e ne sviluppano le armonie lasciando più spazio d’improvvisazione agli strumenti. Con loro ci sono anche George Morrow al contrabbasso, Richie Powell al pianoforte e Harold Land (poi sostituito da Sonny Rollins) al sassofono. In questo modo riescono a produrre una nuova sonorità che costituisce la struttura dell’Hard Bop. Dal vivo la loro sintonia arriva a livelli di assoluta meraviglia. Lo stesso succede in sala d’incisione dove nel 1954 registrano “Clifford Brown & Max Roach”, un album che porta semplicemente i loro nomi e che molto più semplicemente è uno dei dischi più importanti della storia del Jazz degli anni cinquanta. Contiene due pezzi straordinari diventati negli anni dei veri e propri standards del genere come Daahoud e il brano che Clifford dedica alla moglie intitolandolo con il nomignolo con cui la chiama nell’intimità e cioè: Joy Spring, oltre ad altri splendidi brani. Nel 1955 è la volta di “Study in Brown” album composto quasi esclusivamente da pezzi originali scritti dai membri della band, come George’s Dilemma e Sandu composti da Brownie (come gli amici chiamano Clifford), Lands End di Harold Land e Jaqui di Richie Powell, ad esclusione, però, di Cherokee, un vecchio standard, che è di Ray Noble, in cui si può apprezzare Clifford in uno dei più eccezionali assoli di tromba di tutti i tempi. Anche nel 1956 si possono contare diverse importanti registrazioni tra cui una tra le più rappresentative del filone Hard Bop, “Clifford Brown & Max Roach At Basin Street”, l’ultimo album inciso prima del tragico incidente che toglie la vita a Clifford, al pianista Richie Powell e la moglie Nancy che guida la macchina. Sono tanti i chilometri che un musicista deve percorrere per raggiungere i posti anche desolati, nei locali più squallidi o meno, pur di esibirsi, racimolare qualche soldo, accendere la luce della propria arte. È una vita passata in strada, a fare i conti con la benzina (sempre poca), e con il sonno (sempre tanto), guidando nelle condizioni più estreme, anche sotto il sole cocente, anche nelle notti burrascose, in cui è facile perdere il controllo. Non è il primo incidente molto pericoloso occorso a Clifford nella sua breve vita, è già sopravvissuto altre due volte. Questo è il terzo ed è quello fatale che lo consegna, nel tempo di uno squillo di tromba… appunto, al firmamento del Jazz e delle anime luminose, a meno di ventisei anni. Non poteva di certo immaginare che la sua vita sarebbe stata così corta ma, anche se lo avesse saputo, avrebbe comunque fatto le stesse cose, perché, da quando ha poggiato le labbra su quel bocchino, la sua vita ha vibrato soltanto nello squillo della sua tromba; uno strabiliante squillo… di tromba. 






Max Roach: 







domenica 6 aprile 2025

Primum movens della mia persona

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Arianna Vartolo sul percorso della poesia che, dal corpo, esce, nasce, ne delinea anche i contorni, ma quando poi è fuori, non appartiene più a chi l'ha espressa, appartiene al mondo, a chi ha voglia di leggerla.



Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma. L'aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi, cui segue la raccolta Derma (Arcipelago Itaca Edizioni, 2025). Compare nell'antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia - della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (per cui ha collaborato), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica - Roma. 

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?  

Penso di non essermene mai accorta davvero, in piena sincerità. Si respira da quando si nasce, ma non ci si fa caso. È solo qualcosa di naturale. Per me, comunicare, ha lo stesso principio: il suo processo avviene, e basta. È il primum movens della mia persona, senza con questo voler scomodare Aristotele et similia. Il farlo (anche) sotto forma di testo in versi, forse necessita di un approfondimento ulteriore. Da questo punto di vista, credo si possa tirare in ballo la mia passione per la musica. Nata sia per indole personale, sia per studio. In particolare son cresciuta a “pane e prog”: da quando ero piccolina, ne ho assorbito in varie forme i tempi dispari e le tecniche raffinate di esecuzione. Chiaramente, non solo del progressive; coltivo sempre certosinamente l’approfondimento di realtà musicali a me già note, tanto quanto la scoperta di quelle a me ancora ignote. È un richiamo a cui non ho mai resistito; e in fondo, mi dico, perché avrei dovuto? Da un certo momento in poi, credo sia divenuto semplicemente inevitabile formulare nel pensiero frasi che si unissero a una qualche forma di melodia. Probabilmente, sotto tale ottica, la poesia ben si sposa e (appunto) armonizza con questo. Altra importanza, poi, assume l’aspetto dello scavo etimologico nelle parole: ricordo che mia mamma, sin da tenera età, ha sempre stimolato in me e mio fratello la curiosità di sviscerare cosa significasse cosa e perché. Crescendo, questo esercizio catabatico di perforazione attraverso i vari strati dei termini così come li conosciamo oggi, non ho mai smesso di praticarlo. Ed è un piacere costante di scoperta, soprattutto per la potenza evocativa che ne può risultare di volta in volta.

Che rapporto hai con la poesia?  

Qualcosa di molto molto simile a ciò che ho già scritto nella risposta alla domanda precedente: esercizio, scoperta, messa alla prova della parola nella sua forza evocatrice; vedere fin dove può spingersi l’implicito con la sua capacità di mostrare, invece, esplicitamente. Attraverso il ritmo, la musicalità di termini diversi messi in dialogo tra loro, la loro etimologia. 

E cosa questo può far nascere nell’animo di chi legge.

È un modo, forse, anche per educare un equilibrio tra proiezione e introiezione; per trovare quel punto intermedio che lasci semplicemente la visione in sé – immediata.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico? 

La parola, a oggi, conta moltissimo. Ma forse nel modo sbagliato. Se ne abusa, sì, per attirare un’attenzione finalizzata al consumo: la si è fatta schiava di un sistema capitalistico e tendente sempre più alla mercificazione. La parola dunque si piega all’uso e all’utilità. Lavoro maneggiando linguaggi di marketing e comunicazione: nella mia testa e sulla mia lingua girano costantemente termini come SEOkeywordsvisibilitàattraversoparolechiaveottimizzazionediricercaetcetcetc. Personalmente lo trovo molto affascinante, non lo nego. Ma mi rendo conto di quanto le parole divengano sempre più uno strumento rivolto al profitto. In qualsiasi ambito, da quello della politica mondiale a un post sui social. In parte ancora ci salviamo, però. Io mi voglio concentrare lì.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale? 

Parto dal presupposto che ho sempre pensato (ma change my mind) che l’essere umano non vada incontro a un progresso, quanto più a una complicazione. L’AI trovo sia qualcosa di rilevante e rivelante a ogni livello; di certo spaventa (mi viene in mente il mostro di Frankenstein: creato da qualcuno senza che lui potesse saperlo o volerlo, gettato nel mondo e poi ripudiato perché spaventoso e ritenuto pericoloso dal suo stesso artefice) per le implicazioni che può avere nella sostituzione a molte figure che ricoprono ruoli nel mondo del lavoro, ma credo sia invece importante capirla. Indagare che sorta di spunti può darci, a che tipo di nuovi fronti può condurci. È un modo per interagire con qualcosa di totalmente distante da noi – in quanto esseri umani in “dialogo” con una voce artificiale – ma da noi creata. Già questo punto di vista suscita in me diverse riflessioni che partono sicuramente dalla fascinazione per i paradossi o giù di lì. E, oltre all’interazione, soprattutto penso possa essere un’integrazione importante per qualcosa che ancora non conosciamo; ancora non abbiamo capito né visto. Ma arriverà. Bisognerà di certo porre attenzione a quella tipica inclinazione all’onnipotenza che è insita negli esseri umani; credo che non cedendo a quest’ultima, il rapporto con l’AI potrà portare migliorie non indifferenti.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?  

La fase più bella della scrittura, per me, è quella in cui la parola esce da me. Non è più mia, non sono più io. È chiunque e di chiunque arrivi a leggerla. Con questa breve premessa voglio dire che non mi riconosco in alcuna mia opera. Riconosco l’opera in sé: ne conosco la storia, l’ho seguita, accompagnata – per ovvie ragioni. Ma non ci sono più io lì una volta che defluisce dalla fonte. Incontra gusti, stati d’animo, luci sul foglio o luminosità diverse su un desktop. Toni caldi toni freddi di una carta su cui viene stampata o dello schermo dello smartphone su cui viene letta. Io queste cose le immagino spesso: chissà cosa dove quando perché. È potente la libertà che riconosco a una creazione, e la voglio pienamente rispettare. Per non lasciare irresoluta la risposta posso dire che tengo molto a Derma, la mia ultima raccolta edita da Arcipelago Itaca Edizioni (2025): è un percorso che porto avanti da anni, iniziato nel 2018. Partì con una mail inviata a Giulio Mozzi, scrittore e intellettuale da me da sempre fortemente stimato. Proseguì poi sull’onda di letture e conoscenze e dialoghi con autori/autrici che poi son divenut* amic* car*, o che lo erano già. Raccoglie suggestioni musicali (appunto), cinematografiche, letterarie. E la vita, certo. Lo chiamo tra me e me itinerario di carne proprio perché traccia una mappa di quella che è la trasformazione di un corpo. Di come l’abbiano seguita i miei occhi. È stato un lavoro lungo, paziente, di profondo ascolto. E adesso è nel mondo, e al mondo appartiene. 


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Dal (molto basso) dei miei ventisette anni, penso proprio che non ci sia età per comunicare con la poesia. E che una luce rimarrà sempre accesa, senza doverci preoccupare di pagarne la bolletta.