Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Asia Vaudo sul valore della lentezza e su quanto possa propagarsi l'onda della Poesia.
Asia Vaudo è laureata in filologia moderna e da diversi anni porta laboratori di poesia nelle carceri italiane. Dall’attività svolta sono nate delle antologie e una biografia scritta con un ex detenuto. Porta i laboratori anche in alcune scuole di Roma. È direttrice artistica del Poetry Village di Roma, conduce e ha condotto diversi eventi letterari in Italia, tra cui diverse volte al Museo MAXXI. Ha all’attivo cinque pubblicazioni.
Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?
Ho sempre saputo l’importanza della poesia, che arriva laddove tanto altro non riesce a giungere. Ho sempre amato scrivere, da quando sono piccola. Ho avuto una meravigliosa maestra alle elementari che mi ha sempre spronata a farlo. Ho sentito il bisogno di fare poesia soltanto negli ultimi anni, poiché ho capito la natura fortemente lirica e poetica della mia prosa. Così ho iniziato un processo di “asciugatura”, lasciandomi incantare dalla parola che splende essenziale sul foglio bianco.
Che rapporto hai con la poesia?
La poesia è il mio modo di amare, di stare nel mondo nella maniera più autentica. Di arrivare agli altri, di permettere a chi mi legge di specchiarsi in ciò che scrivo. La poesia è visione, materia, fuoco bruciante. La poesia è tutto ciò che so.
Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?
Siamo in un periodo in cui si corre continuamente, e nella frenesia dei giorni ci stiamo dimenticando della lentezza. Rieducarsi alla parola significa ritornare alla lentezza, al suo antico significato. La parola ci costringe a fermarci sul foglio, come fa una farfalla su un fiore. Solo fermandoci possiamo ricominciare a sentire il profumo di tutto ciò che ci circonda.
Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?
Sono convinta che l’intelligenza artificiale non sostituirà mai il valore della parola poetica, la sua forza. Per scrivere una poesia occorre un’anima, e l’intelligenza artificiale non ce l’ha. Non si può “creare” l’anima. Nessun robot o ciò che non è umano potranno mai scrivere una vera poesia. Saranno soltanto imitazioni senza alcuna autenticità.
Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?
Un’opera che mi sta molto a cuore è Storie di vecchie e di pane, una plaquette, un prosimetro in edizione limitata con la prefazione di Davide Rondoni e le tavole di Roberto Pavoni, per le edizioni di Lamberto Fabbri. Un’opera in cui indago la dimensione della “vecchiezza” in tutte le sue sfumature, da quella ironica a quella erotica, e paragono la pelle, la carne dei “vecchi” alla consistenza del pane.
La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?
Certo, la poesia comunica con le nuove generazioni e continua a farlo. Conosco tantissimi giovani poeti che quotidianamente incontrano il valore profondo del verso e ci lavorano con pazienza e passione.
Ogni singola cellula dell'organismo può vibrare. Che sia del cuore o dei polmoni, che sia dei muscoli o della pelle, della parte più nascosta a quella più esposta del nostro corpo, dalla profondità alla superficie, ogni singola orbita di atomo della nostra essenza può vibrare. Ogni singola vibrazione può riprodurre un suono. Seguendo lo stesso percorso, dall'interiorità più segreta che propaga verso l'esterno, ogni suono che passa attraverso le corde vocali, si slancia dalla laringe, rimbalza tra il palato e i denti, viene modulato dalla lingua, facendosi voce, trova la sua essenza più materiale, più sensuale, può trasformarsi in parola. Chi conosce la poesia di Marthia Carrozzo, chi ha avuto la possibilità di leggerla, ma, soprattutto, di ascoltarla, sa quanto può essere musicale il suo modo di verseggiare, più esattamente, è un vero e proprio canto, che coinvolge anima e sensi, insieme. Ogni sillaba una nota, magicamente accostate e incastonate tra loro a comporre la melodia vocale che veicola il verbo. In questo caso un poemetto caratterizzato da una sapiente struttura anaforica. Ogni anafora, ogni iterazione, detta il ritmo e l'ipnotico incanto. Ogni ripetizione, come ogni battito, ogni respiro, è sempre uguale ma sempre diverso, come è sempre diverso il sangue pompato dal cuore in ogni battito, come è sempre diversa l'aria insufflata dai polmoni in ogni respiro. Seguendo questo stesso identico andamento, dalle viscere ai pori della pelle, di cui la sacerdotessa della Poesia conosce ogni linguaggio, ogni pulsione, ogni brivido, ogni effluvio, effonde verso l'estasi dei sensi, l'intreccio dei sensi. Lo stesso effetto, infatti, lo ottiene in chi ascolta: una commozione che sommuove il corpo in un trionfo di sensi. Questa la sfida che si propone e propone l'autrice nel libretto, uscito per Kurumuni Edizioni nel 2022, “Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima), che fa parte della collana Camminamenti, di cui è anche direttrice. Attraverso le gesta dell'eroina di Otranto, Idrusa, in una versione riletta e riscritta, riportata sulle sue corde personali preferite, in cui la donna rivendica la gestione del proprio corpo, della propria sessualità libera e tracimante, che sa trovare la corrispondenza dei sensi anche nel conflitto imposto. Un esempio che viene dal passato per ispirare tutte le donne dei nostri giorni. Il poemetto è suddiviso in cinque canti, cinque incandescenti stanze, che poi apre, concedendo le chiavi segrete, al Maestro Claudio Fabi, per un intenso scambio che sarà dialogo e interazione. Il Maestro, in questi ambienti, si trova a suo perfetto agio, perché l'intesa con la padrona di casa è autentica e tocca punte di intimità profondissima; parlano la stessa lingua artistica anche se in forme diverse: la Musica e la Poesia. Fabi riesce a raccontarsi ampiamente, sin dalle sue origini musicali; dall'amore per la classica per poi approdare alla contemporanea, per una scelta intima e anche politica, inevitabilmente coinvolto nell'atmosfera rivoluzionaria degli anni settanta, che stravolgerà tutti i settori delle attività sociali e delle creatività sperimentali. Anni di affinamento della sensibilità artistica che lo hanno visto protagonista in campo internazionale sia come compositore sia come consulente di grandi musicisti. Anche se è bellissimo poi sentire raccontare degli anni passati come direttore artistico dell'etichetta discografica Numero Uno e della sua collaborazione con tutti i più grandi esponenti della canzone italiana. Lungo il racconto si delinea la sua affascinante idea di Arte, di fare musica, che ne esalta tutta la sua umile grandezza. Idea che metterà a disposizione di Marthia Carrozzo per una splendida interazione artistica che, a noi, non resta che leggere o, ancora meglio, ascoltare dal vivo.
Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, la pianista Alessandra Celletti ci racconta di una serie di concerti tenuti in giro per l'Italia come se fosse un unico continuo concerto, nato principalmente da una grande folle idea e dalla volontà di realizzarla.
Alessandra, l'idea è talmente affascinante che non possiamo non partire dall'inizio, invitandoti calorosamente a raccontarci come e quando è nata questa idea.
Era l’estate del 2013, e l’Italia si trovava nel pieno di una crisi economica. Nonostante le difficoltà, sentivo il bisogno di trasformare quel momento difficile in una sfida avvincente, un’opportunità di cambiamento. Non avevo nemmeno un concerto in programma, ma il desiderio di suonare per le persone era fortissimo. Così mi venne un’idea un po’ folle: caricare il mio pianoforte su un camion e portare la musica ovunque, attraversando l’Italia e percorrendo tutto lo stivale. Il progetto nacque dal mio desiderio di libertà e dal sogno di suonare per tutti, ovunque. Una raccolta fondi su Musicraiser rese possibile quell'avventura, coprendo interamente le spese e permettendomi perfino di guadagnare qualcosa. Ho scoperto la generosità delle persone e il loro amore per i progetti autentici. Mi sono sentita amata ed ero felicissima.
Per “suonare ovunque” cosa intendi precisamente? Perché da quello e da come racconti non sembra che tu sia passata da luoghi classici come teatri o arene, o siti istituzionali…
Quell’estate suonai in luoghi incredibili: in riva al mare, immersa nei boschi, tra i sassi di Matera, e persino sulle montagne di Piano Battaglia in Sicilia, dove le mucche, con i loro campanacci, sembravano una piccola orchestra. Gli sguardi sorpresi e felici delle persone resteranno per sempre impressi nel mio cuore. Quella pazzia, alla fine, si trasformò in un successo e divenne anche un documentario: Piano Piano on the Road, prodotto da Primafilm e diretto da Marco Carlucci. Tra coloro che hanno sostenuto il mio viaggio c’era anche il regista francese Patrice Leconte, che scrisse un testo per presentare il progetto; un piccolo "gioiello" di parole che conservo come fosse una preziosa lettera d’amore:
"Conosco bene le composizioni di Alessandra Celletti, questa straordinaria pianista che, quando si siede al pianoforte, si illumina di una luce che la rende ancora più bella. Mi ha raccontato del suo progetto un po' folle, ma appassionante e originale: portare la musica in lungo e in largo, sedurre le persone lungo i chilometri. La immagino seduta al suo pianoforte, a bordo di un grande camion, avvolta dalla luce del tramonto, mentre le stelle cominciano a disegnare il cielo blu marino. Lei si lascia andare alle melodie più dolci, come un'immagine sognante di un film di Fellini."
Condivido pienamente il pensiero di Patrice Leconte e trovo di una generosità e genialità uniche l'idea di portare la musica tra la gente che abitualmente non ha la possibilità di frequentare i luoghi adibiti alla divulgazione della cultura. Cosa ti ha lasciato dentro questa esperienza?
Quell’estate ha rappresentato una delle avventure più magiche della mia vita, un sogno realizzato grazie al potere della musica e alla forza dell'immaginazione.
Quante corazze si devono indossare per affrontare la vita? Questa è la domanda che sembra serpeggiare insinuante tra le strofe di Stefania Giammillaro, senza che l'autrice stessa se ne accorga, o che consapevolmente voglia eludere, perché sa già la risposta. Sono infinite. Una per ogni singola stagione della vita e nessuna mai calza a pennello, lascia sempre qualcosa di scoperto e di estremamente vulnerabile. Anche se ci volesse abbracciare da soli, come ennesimo atto di protezione e benevolenza personale, sfuggirebbe, in ogni caso, qualcosa. Cosi incede danzando, con leggerezza tragica, l'andamento delle liriche. Con lo stesso passo che avrebbe un’autrice allenata ai movimenti tersicorei, abituata a portarsi addosso pesi più grandi di lei. Le ingombranti corazze, appunto. La danza, si sa, prevede sudore e fatica. Durante una piroetta, durante un volteggio, si può sudare e si può sanguinare. Questo gruppo di strofe assomiglia a grumi di sangue e sudore sfuggiti all'autrice impegnata nel vitale slancio che procura piacere e dolore allo stesso tempo. Nuclei che fanno parte dell'essenza più profonda. Le parole di cui sono composti questi grumi si fondono chimicamente, per magiche leggi della fisica, quasi casualmente, in una casualità armonica scolpita nel marmo amorfo del caos. Si perde il senso ordinario, per trovare altri sensi, aprire varchi. Ogni combinazione di parole, è un varco, una ferita, una fessura, una crepa di luce, che supera la linea di confine dei significati. Per sentire sgranare e fuggire dalle mani il tangibile e rivestire di nuova sensualità l'inafferrabile. Polpa vibrante distillata chirurgicamente agli alambicchi della saggezza e della passione. Con quella saggezza che prevede il mettersi in gioco generosamente con tutta se stessa. La saggezza sfibrata che non può che esteriorizzare la guerra interiore. E interiorizzare le guerre esteriori. Le parole si allineano autonomamente in versi che trovano la loro intima metrica, senza punteggiatura, perché hanno una loro musicalità interiore, la stessa musicalità che può offrire un'anima nuda. Come se ogni virgola, ogni punto, fosse un inutile orpello che pone ulteriori ostacoli. Invece si sente prepotente l'esigenza di lasciare per strada ogni velo e mostrarsi finalmente in tutta la accecante purezza, che scava nel vuoto più assoluto, sviscera la solitudine più feroce. Anche se si dovesse incorrere in degli errori, non sarebbero semplici sbagli, o abbagli, sarebbero alleati in grado di illuminare l’errare, sarebbero complici, come vuole il titolo dell'opera. I grumi espulsi spargono tracce di esperienze vissute in cui si mescolano il passato e il presente, i sogni e gli incubi, il rapporto con se stessi e con Dio, che poi a volte è la stessa cosa, e quindi irrisolto, anche quando sembra arrivare la soluzione, irrisolvibile. Le gioie e i traumi, come, soprattutto, quello di un amore, che purtroppo a volte si può rivelare tossico, in grado di avvelenare una parte dell'esistenza e portarla a derive decisamente insane, fino all'annientamento. Fino a scarnificare le radici più profonde, quelle deĺle origini isolane. Il dialetto siciliano, così, riemerge come lingua principale, in filastrocca, che, l’autrice tornata bambina, canta a se stessa, per permette alle tracce di coagularsi in un percorso trascendente che implica, peccato, colpa e perdono. Perché si può perdonare il peccato e la colpa. Si può perdonare se stessi, errando, danzando. Santificando il peccato e la colpa.
Per la rubrica: Archeologia musicale, la storia del musicista che, con il pianoforte, riusciva a raggiungere Charlie Parker nei suoi voli di note.
Probabilmente uno dei momenti più importanti della sua carriera Bud Powell lo tocca nel 1947 quando Charlie Parker lo chiama a far parte della sua orchestra, nel pirotecnico quintetto che dà vita al progetto Charlie Parker All Stars, che vede tra gli altri Miles Davis alla tromba e Max Roach (vedi sotto) alla batteria. Il destino mette insieme quella che probabilmente è la staffetta più importante del bebop. Parker e il suo sax e Powell che con il piano riesce a fare quello che Parker fa con il suo strumento. Bud, è il nomignolo di Earl Rudolph, nato e cresciuto in una famiglia di musicisti; sviluppa affinità per il pianoforte fin da bambino, sullo strumento studia e si esercita a lungo su un repertorio classico, ma la scintilla che fa scattare l'innamoramento la percepisce con l'ascolto dei brani di James P. Johnson (vedi sotto) e Art Tatum. Bud si porta dentro lo stile stride, lo metabolizza nel profondo e poi, quando finalmente lo sente suo, lo rivoluziona. Raggiunge una tecnica grazie alla quale riesce a svincolare le mani da qualsiasi fissità o riferimento. Entrambe le mani hanno la libertà di fare da armonizzazione o improvvisazione melodica con arabeschi di fraseggi eseguiti ad altissima velocità. Grazie a questa tecnica riesce a riprodurre con il piano gli assoli volteggianti che Bird improvvisava con la tromba. Le dita planano leggere sulla tastiera del piano, sfiorano i tasti sulle punte dei polpastrelli, non sembrano nemmeno premerli, ma ogni tasto premuto, ogni nota spremuta, sprizza gioia musicale, gioia per chi ascolta, gioia per chi suona. Una gioia che aveva dentro anche se costretta a convivere con il malessere psichico. Una sorta di schizofrenia incurabile per quei tempi. Una notte del 1945, alla fine di un concerto tenuto con il suo mentore Thelonious Monk, vagabondava per strada insieme a lui, tutti e due ubriachi, per smaltire l'adrenalina e coccolare la creatività. Vennero arrestati per bivacco, ma forse soltanto perché neri e sbronzi, da un corpo di una polizia privata e con l'occasione pestati di botte; I forti colpi ricevuti alla testa contribuirono notevolmente ad acuire la sua patologia. Da quella notte Bud iniziò a soffrire di fortissime emicranie, di amnesie, di disturbi del comportamento, che non riusciva a tenere a bada con nessuna medicina, neanche con potenti psicofarmaci. L'unico momentaneo e illusorio sollievo lo forniva l'alcool o la Marijuana. In più di un'occasione negli anni è stato ricoverato per svariati mesi in cliniche, o arrestato per possesso di sostanze e sottoposto a quella che credevano la migliore cura in quel periodo, la terapia elettroconvulsiva. L'elettroshock, ovviamente, non migliorava affatto la sua salute, anzi ne minava ancora di più le condizioni fisiche. Nonostante la malattia e i ricoveri, per tutti gli anni cinquanta ha tenuto concerti memorabili, ha suonato con i più grandi musicisti del periodo e composto alcuni dei brani più belli che il Jazz possa vantare. Pezzi come Dance Of The Infidels o Un Poco Loco, Tempus Fugue It o Bouncing With Bud, trasportano la sua gioia musicale fino a noi oggi. Nel 1959 decide di rimettersi in sesto fisicamente e si allontana dal suo ambiente trasferendosi a Parigi. dove vive un barlume di temporaneo benessere. Suona in Jam Sassion con Kenny Clarke e Pierre Michelott e dal vivo riesce ancora a sprigionare tutto il suo talento. Il fisico indebolito, però, non ha più le difese necessarie a respingere gli attacchi esterni. Contrae la tubercolosi e la dipendenza dall'alcool lo abbatte ancora di più. Negli ultimi anni si lascia andare, perde quasi la vista, non riesce più ad affrontare i sintomi sempre più gravi della sua malattia. Muore all'età di quarantuno anni alla totale deriva. Se un pizzico di quella gioia che trasmetteva con la sua musica, oltre che provarla mentre la eseguiva, la avesse conservata per sé e per la sua vita, probabilmente sarebbe stata meno tormentata e più lunga, ma non possiamo intrometterci tra quello che la Musica dà e toglie, e dobbiamo ritenerci fortunati se ci ha dato la possibilità di ascoltare ancora e per sempre il talento gioioso di Bud Powell.
Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, Filippo Marangoni ci racconta l'emozione di portare, il progetto appena partorito, davanti al pubblico, con i Flamingo.
Dopo tantissimi anni di esperienza sui palchi di tutta la penisola suonando blues e rock blues (cover e tributi etc) ho finalmente dato impulso all'esigenza interiore di raccontare qualcosa di personale, che comprendesse le mie esperienze ed influenze raccolte nel corso della vita. La Band si chiama Flamingo, abbiamo realizzato un album blues oriented di 11 brani inediti ed ho iniziato quest'avventura componendo in solitudine linee melodiche e progressioni armoniche con il mio strumento, la chitarra. L'emozione più grande è stata poi quella di condividere le mie "bozze" con altri musicisti della Band, i quali hanno via via apportato il loro contributo ed insieme, con impegno e sacrificio abbiamo visto crescere e prendere forma a delle semplici idee che sono diventate canzoni. Un'altro fondamentale passaggio è stato quello di provare effettivamente in Studio con tutti i musicisti l'esecuzione di queste nuove canzoni ed è stata davvero una bella emozione per me che le ho concepite integralmente, quella di veder realizzare una realtà (musicale) partendo da una semplice intuizione.
In questo periodo storico un album blues oriented mi fa pensare ad atmosfere da pub, in cui la gente vuole il contatto diretto con i musicisti, sorseggiando una birra, e se la proposta non è coinvolgente si avverte subito che qualcosa non va. Immagino l'emozione e la tensione…
L'emozione prima del primo concerto di presentazione dell'Album era palpabile… quello stato emozionale che è un mix di adrenalina e preoccupazione, il momento cruciale in cui bisognava salire sul palco e mettersi completamente in gioco, suonando la propria musica e sperando che la reazione del pubblico fosse positiva. Tenendo conto del fatto che il pubblico più vasto non aveva mai ascoltato i brani del disco per cui la curiosità da un lato e la preoccupazione dall'altro erano massime. Rotto il ghiaccio con l'esecuzione del primo brano in scaletta, tutto è andato se vogliamo "in discesa", abbiamo iniziato a suonare tutti più sciolti ed improvvisare sulle strutture armoniche dei nostri brani con maggiore libertà, e mentre il concerto proseguiva cresceva via via di intensità e ciò generava un maggiore coinvolgimento del pubblico.
E questo entusiasmo avrà avuto un effetto positivo anche su di voi che vi stavate esibendo…
Sentire gli applausi, e l'apprezzamento spontaneo e manifesto della gente è stata davvero un'emozione molto bella, che ci ha ripagato del grande impegno trasfuso nel progetto, delle nottate trascorse ad arrangiare, provare e di nuovo rivedere il lavoro per cercare di migliorarlo, e che ci ha dato lo stimolo a proseguire sulla strada intrapresa sempre con maggiore entusiasmo e forza d'animo, pur sapendo quante difficoltà incontra una band di musica originale inedita.
Cosa vi ha lasciato dentro un'emozione del genere?
L'aver quindi registrato un Album e portato dinanzi al pubblico nei live la nostra musica è stata la conclusione di un percorso che ha visto apprezzare anche all'esterno ciò che era stato creato, mettendosi in gioco. Tutte emozioni positive che premiano l'impegno ed il sacrificio che c'è dietro un lavoro del genere. Il tutto può sintetizzarsi nel potere che la musica ha di unire una band nell'obbiettivo comune di fare musica con il cuore, e dell'insegnamento che deve trarsi, ovvero che è sempre importante credere in se stessi e non aver paura di esporsi, naturalmente se si è consapevoli di aver dato il meglio, il valore del sacrificio in fondo.
Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Cristina Simoncini sulla possibilità ancora fondamentale della condivisione attraverso la comunicazione.
Nata a San Giovanni Valdarno (Arezzo) il 10 marzo del 1966, Cristina Simoncini è rimasta a lungo solo lettrice prima di cominciare a scrivere. Ha pubblicato poesie su riviste cartacee (Il Foglio Clandestino, Aperiodico Ad Apparizione Aleatoria, Nova Rivista d’arte e di scienza) e su molti spazi virtuali (fra i quali Avamposto, Limina Mundi, La rosa in più, Circolare poesia eccetera). Sta lavorando alla sua prima opera poetica.
Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?
L’ho apprezzata da sempre, da bambina, a scuola, dove si imparavano a memoria, o recitandole con mia madre, e poi alle Superiori e all’Università, con consapevolezza maggiore. Solo da una decina d’anni a questa parte però la leggo e studio con regolarità e grande passione, e ho iniziato a scrivere.
Che rapporto hai con la poesia?
Buono direi, fatto di passione, di attenzione e di cura. La poesia non è comunque la mia vita, non coincide con essa. Nessuna esasperazione, partecipazione a tutti i costi, eccetera. Mi piace essere letta da persone comuni, quello sì.
Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?
Per me la parola è uno strumento per arrivare all’Altro, persone e realtà soprattutto, memoria, esperienze significative condivisibili. Conta molto se produce cura dell’Altro, quindi, anche attraverso procedimenti di immedesimazione. L’abuso è nel farla diventare strumento di uso dell’Altro, in più sensi. Un lavoro attento sulla parola produce consapevolezza e attenzione, è fondamentale. In ogni campo credo, non solo in poesia.
Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?
Con lo studio, con la padronanza dei mezzi e della tecnologia, con la passione, con il rimanere ancorati alla realtà, alla concretezza.
Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?
Non ho opere mie pubblicate se non su riviste, se è questo che intendi. Sulle singole poesie è difficile da dire. Ma ci sono molte opere degli altri in cui mi riconosco e che sento mie, dai romanzi di Faulkner a quelli di Onetti alle poesie di Mark Strand o di Seamus Heaney. In quello che ho scritto sino a oggi, avendo una componente autobiografica forte, mi riconosco sicuramente. È la mia esperienza della realtà e degli altri, il modo in cui ne sono stata attraversata.
La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?
Sì, credo che le nuove generazioni avranno la loro poesia, con cui comunicare, in un modo che solo loro, protagonisti del tempo che verrà, sanno. Magari molto diverso dal nostro, dato che si confrontano con uno sviluppo dei mezzi di comunicazione così variegato e complesso.
Per la rubrica: Archeologia musicale, il momento esatto in cui la batteria da strumento di accompagnamento si trasforma in strumento principale, nella scena jazz degli anni quaranta e cinquanta.
La bacchetta come prolungamento delle dita, delle mani, come proiezione del ritmo cardiaco. La superficie del tamburo come pelle dell’amore che risponde alle percussioni con i battiti… e percuote, batte…. e pulsa, galoppa… parla una nuova lingua. Oltre quella conosciuta del quattro quarti che accompagna ritmicamente gli altri strumenti, adesso dialoga, sviluppa melodia, si lancia in lunghi assoli affidati all’improvvisazione… e percuote, batte… e pulsa, galoppa… e sconquassa la cassa. Accelera la frequenza di precipitazioni torrenziali e poi… lo scroscio della pace che sta per arrivare. Tra i primi percussionisti a sviluppare il linguaggio della batteria, senza dimenticare il sorridente virtuoso e snodato Gene Krupa che, nell’orchestra di Benny Goodman, rivaleggiava in assolo con gli altri musicisti, possiamo ammirare lo stile del veterano Kenny Clark (Klook, per gli amici), inventore della tecnica che sposta la tenuta del ritmo dal rullante, o dalla gran cassa, al piatto ride. Nello stesso periodo Charlie Parker e Dizzy Gillespie allargano le prospettive di improvvisazione dei vari strumenti dando vita al nuovo filone del Jazz, denominato Be Bop. Di qualche anno più giovane, entra a respirare quell’aria così creativa dei locali della Grande Mela, il talentuoso Max Roach. Seppur giovanissimo ha già avuto un’esperienza formativa nell’orchestra di Duke Ellington. Tutti si sono accorti della sua tecnica personale e del tutto rivoluzionaria nell’approccio alla batteria. Non c’è soltanto il timpano, anche il rullante può brontolare melodie percussive e dialogare con la gran cassa e i piatti, dal ride al Charleston. Che poi, fosse per lui, basterebbe uno soltanto di questi elementi per fare musica. Qualsiasi cosa possa risuonare, tra le sue mani è uno strumento nobile, anche il coperchio di una pentola. Max accorda personalmente i suoi tamburi, stirando le pelli in base alle sue esigenze e inventandone anche nuove di accordature. Riempie la gran cassa con materiali di ogni tipo per sincopare e rimbombare il suono. La sintonia e l’amicizia con Charlie Parker gli permettono di sperimentare in ogni situazione, così, negli anni in cui le truppe americane sono impegnate nel secondo conflitto mondiale, loro si impegnano a cambiare i canoni musicali. Nel 1945, infatti, in una delle improvvisazioni più accese, registrano Ko Ko, in cui si può apprezzare uno dei primi assolo della batteria nella sua totalità, svolta epocale per il genere Jazz. Non c’è grande musicista che non abbia collaborato con lui in quel periodo; a me piace ricordare Bud Powell e Lester Young (vedi sotto), ma faccio un torto a tutti gli altri non meno immensi. Il desiderio incontenibile di sperimentare nuove sonorità lo spinge a formare dei quintetti in cui lascia ancora maggiore libertà ai solisti, in qualche caso senza il sostegno del pianoforte. Per recuperare alcune armonie delle radici musicali e per svilupparle ulteriormente, spianando la strada all’hard Bop. La sensibilità artistica in Max Roach corrisponde a quella umana e non può rimanere impassibile difronte alle problematiche sociali e la rivendicazione dei diritti che, sul finire degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, divampano in manifestazioni sempre più violente. Nel 1960 compone “We Insist! – Freedom Now Suite” (che al solo nominarlo mi vengono i brividi), un capolavoro ascrivibile al filone del Free Jazz. Commissionato dalla Associazione Nazionale per i Diritti delle Persone di Colore e con i testi del poeta e cantante Oscar Brown. Il genio di Max realizza cinque brani collegati fra di loro in una suite, che racconta l’epopea degli afroamericani, dalla schiavitù all’emancipazione. Alla voce, la sua futura moglie, la stellare Abbey Lincoln, eccezionale nell’esaltare la straziante lacerazione delle violenze subite e la grande voglia di combattere per la pace e poi, finalmente la pace raggiunta. Per registrare Max si circonda dei migliori musicisti del periodo tra cui Coleman Hawkins al sassofono. La suite si conclude con Tears for Johannesburg, un tributo solidale alle popolazioni sudafricane oppresse con Michael Olatunij alle congas. L’esplicito contenuto provocatorio del disco, a partire dalla copertina, che ritrae tre afroamericani in un locale per bianchi, disturba gli alti grandi delle istituzioni e rende difficile la vita artistica di Max che trova sempre più difficoltà ad entrare in sala d’incisione ma, la sua tenacia, lo porta a registrare comunque altri fondamentali album per l’evoluzione della batteria come “Percussion Bitter Sweet” del 1961 e “Drums Unlimited” del 1966. Dopo le turbolenze degli anni sessanta la sua carriera decolla in maniera stabile allargando la sua fama a livello mondiale; sono importanti anche le registrazioni e i concerti tenuti in Italia, uno dei posti al mondo che lo ha accolto con maggiore calore negli anni settanta, infiammando la scena Jazz nostrana di quel periodo. Ha collaborato fino alla fine della sua lunga vita, avvenuta nel 2007, con i più grandi batteristi, incidendo album per sola batteria come “M’Boom” del 1979 e “Collage” del 1984. Ha contribuito a lanciare artisti che hanno segnato la storia del Jazz tra cui, Stanley Turrentine, Bill Lee e Art Davis. Le sue incisioni sono infinite e quasi impossibili da catalogare. Ha insegnato come docente dell’università del Massachusetts e tutti i suoi studenti sanno che non ci sono limiti, in ogni strumento bisogna mettere la propria passione, la propria tecnica e l’impegno assiduo, soltanto così si può liberare l’anima di un suono. Librarla in aria per trasformarla in emozione.
Per la rubrica: Viva la Musica dal Vivo, raccolgo il racconto pulsante della musicista Marta La Noce, del suo ultimo concerto a Roma, insieme a Cecilia Lavatore, che ha toccato tematiche davvero fondamentali, anche, e, purtroppo, soprattutto, in questo periodo storico.
Marta La Noce, è una cantautrice. La sua musica dalle sonorità electro-pop, è caratterizzata da una voce potente e ricca di sfumature. Il 26 aprile 2022 pubblica il singolo "Libera" prodotta da Matteo Gabbianelli per la kuTso Noise Home (distribuita da Artist Frist). Nel luglio 2022 vince "Radio Sonica Live Show". Il 28 ottobre 2022 apre per Rocco Hunt al "Latina Music Festival", nell'agosto 2023 vince il "Meeting Music Contest" scelta da Morgan fra centinaia di partecipanti. Il 30 settembre 2023 vince il "Dinamica Contest", vittoria che la porterà ad intraprendere un tour nei club del nord Italia nel 2024. A dicembre 2023 è in scena a Teatro Trastevere con la pièce “Libera” di Cecilia Lavatore, scrittrice ed editorialista per il Messaggero. Nel 2023/ 24 appare più volte nel programma di Fiorello "Viva rai 2". Il 19 Marzo 2024 è ospite nel programma radiofonico “sogni di gloria” in onda su radio2.
Ho il piacere di condividere il racconto di Marta La Noce, della sua esibizione che si è tenuta nell'ambito della manifestazione Poetry Vilage a Roma, pochi giorni fa.
Il 7 settembre, nel cuore verde del Parco della Caffarella, abbiamo vissuto una serata sospesa nel tempo. Insieme a Cecilia Lavatore, ho avuto l'onore di aprire per Cristiano Godano, la voce e l'anima dei Marlene Kuntz. Un palco che ci ha accolto con la sua energia antica e nuova, con il pubblico in ascolto attento, pronto a ricevere il nostro racconto.
Conosco bene il parco, conserva ancora un'atmosfera incantata, in cui si respira tutta la storia pregna di mito. È uno dei pochi posti in cui si possono ammirare ancora le lucciole, e immagino che il pubblico sia stato altrettanto entusiasta, invogliato dalla vostra proposta.
Abbiamo portato in scena "Libera", uno spettacolo che è nato senza che lo sapessimo, da canzoni e monologhi creati in momenti diversi, in vite separate. Le mie canzoni, nate dal mio vissuto, e le parole di Cecilia, figlie di riflessioni profonde e storie di donne straordinarie, hanno trovato un filo invisibile che le ha legate insieme. Come se, in qualche modo, il destino avesse deciso che queste storie dovessero incontrarsi.
Sul palco, le nostre voci si sono fuse per raccontare di donne che hanno lottato, che non si sono piegate di fronte alle difficoltà. C'era la forza delle rivoluzioni, piccole e grandi, personali e collettive, che attraversano le vite di tutte noi. E in quella sera così intensa, sotto il cielo aperto, abbiamo condiviso qualcosa di più della musica o delle parole: abbiamo condiviso la nostra verità.
E a voi, invece, intimamente, cosa vi ha lasciato dentro questa notte di scambio così intenso?
Questa notte, tra gli sguardi attenti e l'ascolto profondo, il nostro spettacolo è diventato vita, emozione pura. È stata una serata che porterò dentro per sempre, grata per la connessione sincera che si è creata tra noi e chi ci ascoltava, nel fluire di note e versi.
Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Selene Pascasi sulla possibilità di conoscere e conoscersi meglio, provocare cambiamenti, attraverso le domande che soltanto la Poesia può porre.
Selene Pascasi, avvocato per un ventennio e oggi funzionario tributario, è giornalista, firma del Sole 24 Ore con all'attivo migliaia di pubblicazioni, critico musicale al Lunezia. Autrice di una monografia per Giappichelli, un lavoro criminologico per l'Accademia Americana di Scienze Forensi, 5 raccolte poetiche, 3 aforismari e 2 romanzi, vince molti Premi letterari. È ora in libreria con il romanzo Dimmi che esisto sulla violenza contro le donne (Chiocciola) e la silloge Un tempo minimo (Eretica)
Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?
Da sempre. La scrittura è cresciuta con me, quello con la poesia è un legame innato. Ho scritto versi fin da bambina quando annotavo su fogli sparsi i miei pensieri che, sebbene acerbi, erano comunque espressioni dei miei stati d’animo. Un groviglio di emozioni che mi vivevano dentro e che, pian piano, mi chiedevano forma e inchiostro. Così, vinta la barriera delle fragilità e del pudore, da adulta ho trovato il coraggio di mettermi a nudo con i lettori e pubblicare.
Che rapporto hai con la poesia?
Viscerale e inevitabile, perché non potrei fare a meno di scrivere. Ma la poesia per me non è solo nero su carta. È anche un modo speciale di guardare il mondo, percepirne ogni sfumatura, ogni dolore, ogni odore. Da un soffio di vento, da un profumo, dal pianto di un bimbo, dal sorriso sdentato di un vecchio, da un amore finito, da un sogno sospeso, da una promessa mancata e persino dal silenzio… tutto può partorire un verso. E poi grazie alla poesia riesco ad astrarmi da me stessa e osservarmi vivere e così conoscermi meglio.
Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?
Conta tantissimo in ogni periodo storico ma nel momento in cui viviamo conta molto di più perché si stanno perdendo punti di riferimento, la dignità sta lasciando il posto all’apparenza e la fedeltà alle coscienze rischia di diventare un optional. Ecco che la poesia può scrivere mille inizi, può risvegliare dall’apatia del vivere, può scuotere dall’anestesia del pensiero. E sai perché? Perché la Poesia sollecita le domande prima che le risposte, non ha scadenza e regala emozioni diverse ad ogni lettura. La Poesia è uno spiraglio di eterno che dovremmo imparare ad amare con tutti i sensi.
Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?
Non può, o meglio, è la parola dell’intelligenza artificiale che non può competere con quella umana. La nota AI è in grado di scrivere la poesia perfetta, rispettosa dei canoni imposti e talora anche abbastanza credibile. Ma mai e poi mai, la parola dell’intelligenza artificiale potrà veicolare l’animo e trascinarlo verso il lettore tanto da tatuargli addosso indelebili emozioni. Potrà donargli svago, sorrisi, ma sono sicura che non gli inietterà mai dentro quella sensazione di salvezza che solo la poesia umana è in grado di instillargli nel cuore.
Qual è la tua opera (o le tue opere) in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?
Tra le opere poetiche, la raccolta A un ricordo da te (Scrivere Poesia) perché si forma lentamente negli anni in cui ho assistito mio padre Silvio purtroppo volato via. Un periodo di simbiosi con lui in cui l’ho amato stringendo ogni istante consapevole che potesse essere l’ultimo. E prendersi cura di chi sprofonda (scrivo in Genesi “come quando si muore da vivi” / “come quando si vive da morti”) è un patto di lucidità con se stessi arduo da onorare. In narrativa, invece, tengo molto al romanzo d’esordio Dimmi che esisto – ripubblicato da Chiocchiola – perché tratta della violenza di genere. L’intento è di esortare le vittime di abusi a non sentirsi mai responsabili della brutalità maschile e non cercare a tutti i costi, fino a rischiare la vita, di mantenere in piedi un rapporto tossico pur di non restare da sole.
La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?
Può e deve farlo. Un Poeta ha l’obbligo morale di rivolgersi ai giovani, di sollecitarli a reagire, a riflettere, a tornare padroni delle proprie vite, a liberarsi dalla schiavitù del web, dei social e del cellulare che spegne la loro creatività. E poi la poesia è terapeutica perché aiuta a scovare i mostri che ci portiamo dentro, a farci pace e trarne la forza per rinascere. Insomma, la poesia è uno strumento dotato di una forza pazzesca, rivoluzionaria e salvifica.
Ci sono dei pomeriggi roventi d’estate in cui si sente soltanto lo sfregare delle cicale, il picchiare dei raggi del sole che fa evaporare le zone d’ombra, il tremolio delle gialle stoppie. Nel raggio di chilometri non si muove foglia e hai l’immensità della campagna a disposizione. Questa immensità ti assale come un senso di solitudine insopprimibile… e anche lo spazio infinito trasmette un senso di claustrofobia asfissiante. Cosa può fare un bambino di dodici anni, nell’estate del 1948, nella campagne alla periferia di Tacoma nell’Oregon? Gironzola con la bicicletta e coccola la sua ingombrante solitudine, imbattendosi in altre solitudini. Ascolta i saggi anziani che parlano del passato e della Grande Crisi. Spesso va a trovare il vecchio alcolizzato, di cui tutti hanno paura, che vive in una capanna fatiscente. Oppure spia la coppia di grassoni che ogni giorno si porta dietro il salotto di casa, arredando il loro pezzo di riva sul laghetto, per mettersi comodi sul divano a pescare carpe. Oppure ancora, può scorrazzare con la bicicletta insieme a un altro bambino solo come lui. In tutta questa solitudine e in tutta questa libertà può anche scegliere di fare quello che vuole ma… che sia estate o che sia inverno, sono poche le scelte che ha a disposizione. Può scegliere di raccogliere le lattine del suo amico alcolizzato e venderle per pochi centesimi. Può scegliere di spendere quei pochi centesimi per comprare dei prelibatissimi hamburger. La scelta che può rompere la sequenza della normale routine concessa a un bambino è quella di spendere i centesimi per dei proiettili invece che per l’hamburger; girare con un fucile sottobraccio a cavallo della sua bicicletta e provare a fare una battuta di caccia con il suo coetaneo. Tanto nel 1948, in un Paese che ancora si lecca le ferite inferte dalla guerra mondiale, nessuno fa caso a un piccolo adolescente che va in giro con un fucile sottobraccio e che compra proiettili invece che hamburger. Soltanto che qualcosa va storto, come può succedere nelle dinamiche infantili alle prese con situazioni da adulti. Un proiettile vagante colpisce il suo amichetto e lo uccide. Il romanzo “American Dust. Prima che il vento si porti via tutto”, uscito nel 1982, (il cui titolo originale è “So the Wind Won't Blow It All Away”) è la ricostruzione mnemonica di un uomo adulto che prova a ripercorrere le istantanee che hanno portato all’incidente. Il bambino protagonista è l’alter ego dello scrittore Richard Brautigan. Il peso del rimorso, la solitudine ma anche la spensieratezza fanciullesca e piacevoli scosse di ironia pervadono le pagine di questo breve e immenso romanzo. Insieme alla poesia che cadenza ritmicamente i capitoli e che afferra il cuore con senso di amarezza e sollievo insieme… “So the wind won’t blow it all away… Dust… American dust…”. I ricordi sono incasellati in maniera casuale come quando si sfoglia un album fotografico e ogni fotografia è totalmente a fuoco nel suo essere sfocata. Lucida, spietata, divertente e dolente. Una boccata d’ossigeno che ricrea i flussi d’affezione nei confronti di un libro che una volta che l’hai letto non puoi più abbandonare. Richard Brautigan scrive questo racconto nel suo periodo di depressione massima. Alla fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, quando sono lontani ormai gli anni della gloria e del successo internazionale ottenuto con “Pesca alla trota in America” uscito nel 1967 (e che ha fatto riscoprire tutti i suoi lavori precedenti, facendone, suo malgrado, icona della stagione artistica Hippy). Sono invece presenti le angoscianti riflessioni sul Sogno americano e sul commercio libero di armi che ogni anno produce stragi fratricide fuori controllo. Sceglie infatti di ambientare il suo racconto nel cosiddetto periodo di pace postbellica, subito dopo il decennio della Grande Depressione (economica) e la fine della seconda guerra mondiale. Negli anni della ricostruzione, proprio alle radici del consolidamento del Sogno americano… e sceglie di parlare di gente schiacciata da questo sogno; coglie proprio il momento di passaggio, quella linea invisibile che, una volta varcata, ha posto fine alla capacità della gente di fantasticare, con il colpo di grazia inferto dall’avvento della TV. I suoi personaggi senza nome sono dei vinti, e questo romanzo nella sua leggerezza si inserisce con forte determinazione nella grande epopea letteraria degli sconfitti. Polvere da ricordare, o da dimenticare, prima che il vento spazzi via tutto. Prende spunto da un episodio realmente accaduto nella sua vita, contrassegnata durante l’infanzia da violenza, dipendenze, un continuo cambio dei punti di riferimento genitoriali in una famiglia estremamente instabile. Sicuramente, un grande senso di solitudine è presente, nella sua esistenza, sin da bambino ma, l’incidente occorsogli con il fucile, nella realtà, non porta alla morte del suo coetaneo; gli procura soltanto una ferita all’orecchio. Nel farla riemergere a galla però, forse per un escamotage letterario, forse perché ormai vede ogni singolo frammento della sua vita sotto la lente della sindrome depressiva affogata nell’alcol, i fatti si enfatizzano e il logorio dei rimorsi si amplifica, insieme al senso di inadeguatezza, scavando nella sua sensibilità artistica. La giocosa malinconia che caratterizza la sua prosa porta alla creazione di questo capolavoro ma anche alla consapevolezza di non poter tornare più indietro, di aver oltrepassato un limite oltre il quale niente ha più senso e non rimane che togliersi la vita. Una ferita d’arma da fuoco, appunto, inferta alla tempia, a soli quarantanove anni, nel 1984, pone fine alle sue sofferenze nella totale solitudine della sua casa di campagna di Bolinas in California. Con la consapevolezza ulteriore di aver finalmente scritto il libro che aveva sempre sognato di scrivere. So the wind won’t blow it all away… Dust… American dust…
Per la rubrica: Viva la musica dal Vivo, il racconto della musicista Lalla Bertolini di un suo concerto tenuto nel deserto. E si sa, quello che avviene nel deserto è sempre magico.
Cantautrice, esordisce a Roma alla fine degli anni ’90, incoraggiata da Nada, con una serie di concerti chitarra e voce, che la portano ad ottenere il riconoscimento del Premio Italiano Giovani, indetto da ‘Musica’ (supplemento di Repubblica). Negli anni successivi crea una formazione folk-rock, con la quale dà inizio ad una breve intensa avventura, fatta di prestigiosi live (dei quali ArezzoWave 2002 è il culmine) e di lavori in studio (incisione di “The piercing virtue”, disco su testi di E. Dickinson, non pubblicato). Sciolta la band, riprende a suonare dal vivo chitarra e voce, esibendosi tra l’altro, nel 2006, ad una della prime edizioni del premio De Andrè, alla Magliana, Roma.
Dal gennaio 2009 progetta e porta in giro, con l’organettista Valeria Bianchi e il violista e compositore Tiziano Carone, un concerto/studio su De Andre’, che esordisce l’11 gennaio (10 anni dalla morte), nel Teatro occupato ex-Volturno, a Roma. Il concerto viene replicato in numerose occasioni, la più curiosa delle quali è all’Università di Malta, su invito delle organizzatrici di Evenings on Campus, rassegna di musica estiva.
Nel 2010 forma un trio, ‘Coqs Fous’ assieme a Franco Fosca (grandissimo busker, cantautore, dylaniano di ferro), e a Danila Massimi (percussionista e compositrice) coi quali ha l’onore di esibirsi al Festival Internazionale della Poesia di Genova. In un’altra serata dello stesso Festival suona alcune poesie di Emily Dickinson, in qualità di vincitrice del Premio ‘Suona la Poesia’, indetto dal Mei di Faenza e dal Festival di Genova, con il brano The Covert, tratto da Piercing Virtue. (Qui il link del video del brano: https://www.youtube.com/watch?v=TUamC-W3JmQ)
Al Mei di Faenza ha partecipato in due occasioni, cantando Emily Dickinson e brani originali.
Dal 2015 al 2020 si è occupata del supporto e della diffusione di un gruppo informale di cantautori e musicisti per lo più romani, organizzando concerti, individuali e collettivi, presso LaStalla, in Sabina.
Ha all’attivo 4 album: The Piercing Virtue (2002), ancora inedito, su testi di Emily Dickinson; Lo Straniero (2019) e La Terra Liberata (2021), con testi in italiano, che si trovano su Soundcloud, Youtube, Spotify; il quarto, The Mushroom Tales (2023), studio su canzoni in lingua inglese, è in esclusiva su Bandcamp.
Lavora su testi propri e poesie altrui, in italiano e in lingua originale.
Lascio a lei la parola perché il racconto è talmente bello e ricco di dettagli che non ha bisogno di ulteriori domande o approfondimenti. Buona Lettura!
Delle ultime esibizioni che ho fatto, quella più particolare e intensa è avvenuta molto probabilmente una sera del novembre scorso, in un accampamento di beduini, nel deserto di Zagora, Marocco; nel corso di un festival internazionale di documentari.
Un contesto da favola, letteralmente.
Ero stata invitata a partecipare come cantautrice italiana dalla coreografa e regista Luciana Lusso Roveto, che pratica a Roma con ottimi risultati l’arte che fonde la danza e il teatro, inventata, se così posso dire, da Pina Bausch: il TeatroDanza, appunto, celebrata da Wim Wenders nel film ‘Pina’, (che consiglio a tutti di vedere, se amate la poesia).
La direttrice del Festival mi aveva chiesto di preparare un repertorio che includesse canzoni italiane popolari anche in Marocco: ad esempio, mi disse, Bella Ciao, o Volare, o Un Italiano Vero…
Delle tre scelsi la canzone delle Mondine, riadattata a canzone simbolo della Liberazione, perché sapevo come fosse cantata proprio in quel periodo in contesti arabi particolarmente delicati, come L’Iran degli studenti e delle donne in lotta per poche fondamentali libertà…
E poi proposi di fare una cover di De Andrè: la Guerra di Piero.
La proposta fu accettata. Qualcuno in Marocco conosceva il nostro Faber.
Le serate dal teatro di Zagorà erano in diretta televisiva nella principale antenna marocchina.
Mi fu proposto di esibirmi nella cerimonia di apertura, oppure in quella di chiusura, ma varie coincidenze resero possibile l’esibizione soltanto nella serata più fiabesca, quando l’intero Festival fu spostato in un accampamento beduino, appena varcato il deserto.
3 o 4 piccoli Van condussero registi, organizzatori, invitati, ospiti partecipanti a vario titolo fino alle soglie dell’accampamento. D’altronde, Zagorà, dove si svolgeva il Festival, è una cittadina proprio al confine col deserto, e queste carovane turistiche sono all’ordine del giorno.
Ciò non toglie che l’effetto sia comunque fortissimo.
Arrivati, dato appena uno sguardo ai dintorni, varcata la soglia dell’accampamento, siamo stati accolti da un gruppo musicale percussivo e vocale di beduini talmente avvolgente e performante che ne ho ancora l’impressione acustica stampata nelle orecchie.
Era impossibile non esserne profondamente toccati e commossi.
Era un frastuono incredibile, con una innegabile e calorosissima dolcezza, e loro avanzavano, mentre cantando percuotevano tamburi, rientravano, oscillavano a destra e sinistra.
Nell’immobilità silenziosa del paesaggio circostante, sembrava di navigare su una nave di suoni tamburi e musica (stessa impressione, centuplicata, si ha nella piazza di Marrakech).
Dopo aver sorseggiato il consueto tè di benvenuto, tutti uscirono muovendo verso le dune per assistere al tramonto che stava per venire. Il deserto di Zagora è pietroso, per lo più, (è esattamente al confine meridionale opposto, quello occidentale, che si trova il Sahara più ‘famoso’), ma quell’accampamento sorgeva proprio sotto la costa di una delle poche dune presenti. Quindi ci arrampicammo, o meglio scivolammo verso l’alto, e vedemmo il sole tramontare e la luna spuntare. Tutto intorno, la distesa di sabbia silenziosa, e in fondo, in basso, l’accampamento, dal quale echeggiavano ancora i tamburi. Mi ritrovai con una coppia di turchi, sulla trentina. E fummo gli ultimi a rientrare, quando ormai era quasi buio.
Dentro invece era un turbinio di turbanti (perdonate), tuniche, vassoi, suoni canti grida parole.
Conversazioni in arabo inglese francese italiano e addirittura tedesco…
Si preparava la cena, che consumammo all’interno della tenda maggiore.
Devo dire che non c’era alcuna certezza riguardo al mio cantare e suonare. L’organizzazione italomarocchina in nulla assomigliava ad una tedesca, diciamo così per capirci, senza voler offendere nessuno, né da un lato, né dall’altro.
Ma tutto s’intonava alla perfezione con il frastornamento e anche potrei dire il deliquio nel quale tutti noi occidentali ci trovavamo. La chitarra l’avevo depositata nella tenda in cui avrei dormito, e lì, pensavo, attendeva pronta all’occorrenza: io mi confusi con la sera nera e blu senza voler sapere nulla prima del tempo.
Dopo la cena cominciarono le proiezioni previste. Il festival infatti era solo in trasferta, quella sera, non si era interrotto. Il clima si fece più tranquillo e si alzò anche un certo vento fresco, che ci indusse a ricoprirci di giacche cappelli e piumini.
Dopo le proiezioni, vidi che i ragazzi dell’organizzazione cominciavano a preparare un set da concerto. Il presentatore, in tunica e turbante (attore marocchino di stanza a Barcellona), cominciò a parlare di una certa sorpresa che sarebbe avvenuta di lì a poco. Una sorpresa musciale proveniente dall’Italia…
Pensai diamine come sono vestita e pettinata! Ovvero come non sono vestita e pettinata per benino… ma alla fine ho avuto solo il tempo di correre in tenda a prendere la chitarra, mentre lui pronunciava il mio nome e io ebbi la certezza che avrei suonato e cantato nel bel mezzo di una festa marocchina in una accampamento beduino nel deserto – era in effetti una sorpresa anche per me.
Corsi davanti al microfono appena istallato, e si era radunata intorno un bel po' di gente, di tutto il mondo! Praticamente. Ero in Africa, avevo un pubblico internazionale, stavo per cantare! Tutto incredibile.
Sono partita con ‘bella ciao’. Bisogna dire che davvero è una canzone amatissima, e suscita molto entusiasmo. Così la cantammo insieme, e subito fui felice perché circondata da tanto calore e tantissimi smaglianti sorrisi – mi spiace dirlo, ma non sappiamo più cosa significa una roba del genere. È amore che si tocca. È amore che circola e rotola e vortica senza, direi propriamente, alcun tipo di inibizione. Solleva davvero da terra: cosa potevo temere?
Così mi lancia nel secondo pezzo, e scelsi appunto la Guerra di Piero, che mi ero preparata in una versione simil-reggae, che avevo sentito fare qui a Roma da Franco Fosca. E’ piaciuta tantissimo! Grandi applausi e incoraggiamenti. Così mi imbarcai nell’ultima avventura: cantare un mio pezzo. E ne scelsi uno, davvero lì per lì, arpeggiato e dolce, un pezzo lento e morbido – un pezzo che parla d’amore.
Benissimo: mi stavano tutti a sentire, ammirati e sorpresi! Per quei tre minuti tutto l’accampamento improvvisamente silenzioso e attento risuonò solo della mia piccola voce innamorata.
E bisogna ammettere che lo stupore e l’interesse, e la curiosità che mi circondava dipendeva anche dal tipo di canzoni che cantavo, canzoni tonali, con melodie ricamate a movimenti così diversi dai loro. Ed ero una donna.
‘E poi, e poi, tu mi piaci e lo sai’ ... Oh sì ero ispirata, perché tutto mi piaceva e sembrava contraccambiarmi.
Dopo di me salì sul ‘palco’, naturalmente fatto di tappeti che noi chiamiamo persiani, una desert rock band. Si scatenarono balli furibondi, e fino a notte fonda andarono avanti.
Ma è stato un sogno? Qualcosa che ci si avvicina moltissimo.