Prendi una chitarra, anche malandata, anche con due corde soltanto, poi prendi qualsiasi cosa da percuotere, un bidone, una scatola di cartone, una pentola di latta, la cassa stessa della chitarra. Inizia a battere un ritmo che conosci, primitivo, tribale, che appartiene alle tue radici di schiavo, sofferente per aver perso la libertà. Incomincia a ricamare con le dita sulle corde una melodia piacevole e complessa. Intona con la voce la stessa melodia, ma carica di dolore perché strappata dall’anima. Segui il filo della melodia, segui il ritmo, innalza il canto, questo è il Blues. Poi perdi il filo, rompi il ritmo, spezzetta il lamento ed inizia ad improvvisare, ma ti prego non smettere, fa che non finisca mai, fammi dondolare, fammi ballare, fammi sballare, fammi andare oltre con la mente; improvvisa, inventa più che puoi, questo è il Rag, questo è il Jazz. E se finisci le parole, se non te le ricordi, usane altre, creane di nuove, anche se non esistono non ha importanza, esistono nelle orecchie, nel cuore. Se non bastano gli strumenti falli con la voce, imitali, sputa, singhiozza, fai dei gargarismi per sostituirli, ma ti prego non ti fermare, fammi dimenticare, fammi sognare, materializza fonemi, ma fammi godere, questo è lo Scat. Un modo per arrivare con la voce dove non si può arrivare con gli strumenti. Non si conoscono le origini di tale modalità espressiva; si attribuiscono molto generosamente all’onnivora immensità di Louis Armstrong ma, è facile attribuire l’origine di ogni genere e stile a King Louis, visto che le sue di origini sono perse nel tempo e ha attraversato, con incommensurabile talento, tutte le ere del Jazz e del Blues. Quel che si sa di certo è che proprio Louis Armstrong ha insegnato l’arte di improvvisare con la voce, di emettere suoni con la gola o con il naso o ancora con il palato, ad un giovane che voleva fare il musicista a tutti i costi, sfuggendo al volere dei genitori che lo volevano avvocato. Quel giovane aitante, che sapeva suonare la batteria, che aveva una passione per il ritmo e ballava come un serpente elettrizzato era Cab Colloway. Durante gli anni del proibizionismo in America non è facile trovare ingaggi per i giovani afroamericani ma il talento di Cab non tarda ad emergere. Dopo un periodo di collaborazioni, come cantante e come percussionista, con i più importanti jazzmen del periodo, gli viene affidata la prima direzione di un’orchestra. Oltre i teatri, però, neanche i posti dove si possono esibire le orchestre sono tanti, ma i gangster, per riciclare il denaro guadagnato durante gli anni del proibizionismo, rilevano i locali dove si può fare chiasso in barba alle regole e alle leggi. Così nel cuore di Harlem, a New York, prende vita il Cotton Club, uno di quei posti dove si suona, si balla, si beve, si ha accesso alle sostanze e soprattutto all’alcol, senza troppi problemi, fino a tarda notte e le ballerine vestite soltanto di piume intrattengono gli spettatori. Per anni l’orchestra fissa del Cotton Club è stata quella di Duke Ellington, ma proprio per sostituire l’orchestra del duca, nel 1929, subentra quella di Cab Colloway che non fa rimpiangere la prima. Il successo è esplosivo fin dalla prima apparizione, conquistandosi immediatamente il favore delle radio, partendo per tournée sempre con teatri pieni. Il modo di Cab Colloway di intrattenere il pubblico è entusiasmante. Ammalia con il suo stile unico di ballare, incanta con la sua arte canora e con la sua straordinaria capacità di improvvisare con la voce attraverso lo Scat; trascina il pubblico, lo invita a partecipare seguendo i suoi assoli che, in modo del tutto pilotato, man mano che il brano va avanti e il pubblico si scalda, diventano sempre più complessi e elaborati, finché il pubblico non riesce più a seguirlo e scoppia in una risata liberatoria. Sono tutti elementi che confluiscono nel brano Minnie The Moocher del 1931. Un brano nato su uno standard degli anni venti, ma reso più coinvolgente, in cui ci sono riferimenti velati (ma neanche troppo) all’uso di sostanze e che esalta le qualità di Cab; la sua tecnica d’improvvisazione verrà semplicemente chiamata, in maniera onomatopeica, Hi De Ho (che suona, ai di ai di ai di oooo). Un brano storico, e ad ascoltarlo adesso mantiene intatto il suo grado di irresistibilità. Sempre negli stessi anni registra brani come I’ve got the World on a String, o Saint James Infirmary. Nella sua orchestra suoneranno musicisti del calibro di Dizzy Gillespie o Chu Berry. Negli anni trenta, questa alternanza al Cotton Club con l’orchestra di Duke Ellington, gli permette di attraversare senza grandi problemi il periodo economicamente più drammatico per gli Stati Uniti. Ci penserà da solo, in seguito, grazie al fiuto per investimenti poco affidabili e l’amore per il gioco d’azzardo, a rovinarsi finanziariamente. Eppure dopo aver sciolto l’orchestra, non prima di aver registrato brani come Blues in the Night del 1942, o The Honeydripper del 1946, la sua carriera è proseguita a gonfie vele ancora per un lungo periodo. Il suo talento ha affascinato il cinema, il musical di Broadway con le opere di Garswin, la televisione, mentre è impegnato a tenere concerti in tutto il mondo. Storica è la sua apparizione nel film di Jim Jarmusch Blues Brothers del 1980 in cui interpreta se stesso ed esegue ancora una volta in maniera impeccabile Minnie The Moocher, e nonostante i suoi settantatré anni si muove con l’eleganza dei bei tempi. Tra collaborazioni eccellenti e onorificenze che arrivano in quantità, è attivo fino alla fine della sua lunga vita. Ogni volta che si sente un’eco di una voce che imbecca il pubblico, viene in mente il suo sorriso da Hi De Ho Man e viene voglia di cantare, di ballare e di ridere insieme a lui.
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