A cosa si è disposti a rinunciare pur di conquistare la libertà... Questa la domanda che serpeggia tra le righe, lungo tutto il romanzo postumo di Goliarda Sapienza, “L’arte della gioia”. Soprattutto una donna, nata all’alba del ventesimo secolo, a quali incredibili e dolorose rinunce si deve sottoporre pur di emanciparsi, pur di ottenere una libertà vera, svincolata da obblighi morali e sociali? Goliarda Sapienza lo sa bene, perché durante tutta la sua esistenza si è dedicata a coltivare questa libertà. Anche grazie a genitori come Giuseppe Sapienza e Maria Giudice coinvolti in battaglie culturali e politiche. Lo sa bene anche Modesta, sua alter ego protagonista del romanzo, che durante il processo di autodeterminazione, afferma la sua esistenza, la sua involontaria presenza nel mondo, rinunciando a tutto quello che la ha messa al mondo, annientandolo, e avviando un ulteriore processo di autoparto, o di autogenerazione. In questo modo, inevitabilmente, perde la famiglia, i veri sentimenti, la conoscenza profonda della propria terra. L’arte della gioia è conoscere quello che si nasconde dietro la parola: “gioia”. Un attimo di fugace e intensa felicità ogni volta che si prova la sensazione di piena e completa libertà. A dispetto di tutto. Che non cede a nessun ricatto. A nessun compromesso. Per realizzare questo desiderio, per raggiungere questo stato privilegiato, il più spesso possibile, si può essere disposti a tutto. Come Modesta, appunto, che, nel tentativo di affrontare questo farraginoso processo di autodeterminazione, deve uccidere, prostituirsi, rubare, sedurre per interessi, mentire, lottare politicamente e sentimentalmente, sempre con un obiettivo ben saldo nel cuore e nella mente: la libertà. Perché quando si è liberi si può affrontare anche la prigionia. Goliarda Sapienza ha vissuto i due aspetti estremi della Sicilia tra gli anni trenta e quaranta. Essendo nata a Catania ha potuto respirare l’aria di grande apertura culturale ma anche una forma di chiusura legata ad antichi retaggi patriarcali e di sottomissione della donna. Goliarda è riuscita a cavarsela grazie ai genitori che non hanno mai voluto che ricevesse una educazione fascista. Sente, comunque, la necessità di riversare questa visione ambivalente e contraddittoria nel personaggio di Modesta che, per niente coerente al suo nome, ha una grande stima di se stessa (come dovrebbe averla chiunque), e per non subire le stesse sottomissioni della madre pensa che deve liberarsi della figura della donna che le ha dato la vita. Deve liberarsi di tutte le figure femminili che non si ribellano alla situazione di schiavitù fisica e mentale. L’unico modo che ha per liberarsene, in una situazione di costrizione claustrofobica, è ucciderle. Uccide la madre, una madre che obbedisce, cieca e muta, che usa la parola soltanto per sbraitare contro i figli. Uccide la sorella afflitta da sindrome di Down e quindi impotente. Uccide il padre padrone che la violenta. Basta un incendio a fare una strage di cui non viene riconosciuta colpevole. Per lei, ancora bambina, si aprono le porte di un convento. La madre superiora prende a cuore il caso di Modesta e si occupa della sua istruzione. Modesta può così conoscere il valore della parola e della cultura, e dei misteri che si celano dietro la vita di clausura: verginità violate, relazioni segrete, figli illegittimi e figli riconosciuti. La madre superiora che le ha fatto conoscere il valore della parola, le impedisce poi di utilizzarla nel mondo dei maschi, perché assoggettata, come tutte le altre donne, al loro comando. Anche la suora rappresenta quell’archetipo femminile di cui si deve disfare. Iniziano presto i contrasti con lei finché non è costretta a eliminarla. L’uccisione della donna, ancora una volta non imputabile a Modesta, le permette di entrare nelle grazie della nobiliare famiglia di lei: il trampolino di lancio per il mondo. Da lì inizia la sua scalata senza fine. Tra relazioni omosessuali e matrimoni solo per interesse. Inganni per impossessarsi dei testamenti e altri omicidi che non le vengono addebitati. Una donna libera deve avere disponibilità economica ma non dipendere dal suo conto in banca. Può costruirsi una famiglia anche senza legami di sangue. Può scegliere i figli non suoi dopo vari aborti voluti. Aderisce alle ideologie comuniste proprio quando si fa più aspra la lotta alle forze fasciste. Per poi, in seguito, abbandonarla quando non risponde più alle sue ideologie. Da Adulta, Modesta, manterrà il suo carattere, anche in prigione. Come da giovane non subiva il ricatto della vecchiaia, da vecchia non subisce il ricatto dei giovani. Nessun ostacolo morale può fermarla. Invece gli ostacoli morali, per tanto tempo, hanno bloccato la pubblicazione del libro. “L’arte della gioia” dopo più di dieci anni di stesura è già pronto per la pubblicazione nel 1976. Goliarda Sapienza, per questo suo romanzo epico e picaresco, che doveva essere il “Romanzo”, sceglie di raccontare le vicende storiche che coinvolgono la Sicilia dal 1900, anno di nascita di Modesta, agli anni settanta. Quasi tutto il Novecento, guerre comprese… e sceglie di ambientarlo in Sicilia come se Modesta stessa fosse una rappresentazione della sua terra oltre che di se stessa. Si inserisce nel filone della letteratura sperimentale degli anni sessanta e settanta e per questo motivo adotta uno stile che si basa sulla prima persona ma che, in molte occasioni si sdoppia, passando alla terza persona, producendo svariati momenti ripetitivi, come se avesse bisogno di uno sguardo esterno dopo quello interno. Sperimentale, quindi, forse troppo, anche per i gusti di quel periodo. Risulta femminista anche prima del femminismo, troppo femminista anche dopo il femminismo. Risulta duro da digerire per la componente democristiana del Paese ancora pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Risulta troppo arduo concettualmente per quella parte comunista che stava guadagnando consensi nell’elettorato democristiano ed era meglio non rompere gli equilibri di un Paese comunque cattolico. Insomma non ci sono editori disposti a pubblicarlo. Goliarda muore nel 1996, dopo aver vissuto una vita da donna sempre libera, totalmente anarchica come il suo libro. Dopo aver conosciuto il carcere e anche il successo con i suoi lavori precedenti come nel caso del romanzo “Le certezze del dubbio” del 1987. Un’opera autobiografica iniziata tanti anni prima con “Lettera aperta” (1967) e continuata con “Il filo di mezzogiorno” e “L’università di Rebibbia” (1983) sulla sua esperienza tra le patrie galere. Muore a Gaeta, con una vita piena, ma senza aver visto pubblicare il suo primo romanzo non autobiografico e forse con tante, troppe, cose ancora da capire sulla sua terra, la Sicilia. Soltanto nel 1998, per omaggiare la moglie, Angelo Maria Pellegrino lo fa pubblicare a sue spese per Stampa Alternativa… e soltanto dopo il successo di critica e pubblico all’estero, viene ripubblicato in Italia.
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