domenica 31 dicembre 2023

2004. Kasabian



Quando è avvenuto il cambiamento? Quando? Quando è successo che tutto quello che avevamo conosciuto fosse stravolto?

Centrifugato in un vortice di notti, ad alto contenuto di alcol e poesia, avevo sempre avuto chiaro cosa fosse il futuro. Una notte liquida era il futuro. Qualsiasi fosse la notte che stessi vivendo in quel momento, quello era il futuro. Mentre il presente mi stava sgretolando il terreno sotto i piedi e non me ne accorgevo. Non me ne rendevo nemmeno conto. 

Ero legato alla parola. Al suono della parola. Alla voce. Agli effetti della sua emissione nell’aria, del suo infrangersi su un corpo, del suo infrangersi su un altro orecchio e alla sua trasformazione, una volta assorbito, e restituito. Mutazione. Dinamica. 

Andavo nel locali notturni dove ancora si fumava e declamavo poesia mentre le parole rimbalzavano sulle nuvole dei pensieri, sedotti e seducenti, e sulle nebbie cannibali di fumo. La chiamavo Poesia e pensavo fosse quello il cambiamento. La mia rivoluzione. 

Invece la rivoluzione stava avvenendo davvero ma non era la musica a veicolarla. Non era neanche la letteratura. La trasformazione sociale era telematica. Non era nemmeno così lenta. Veloce, molto veloce, troppo veloce. Forse per questo non ho avuto il tempo di accorgermi. 

La parola era di nuovo al centro. Una parola svuotata, senza suono, senza vita. Fissa. Morta ancora prima di poter vivere, di emettere il primo vagito, il primo respiro. Sulla punta delle dita di tutti quelli che avessero una tastiera a disposizione. A disposizione di chiunque. Lanciate e accumulate in questo universo di comunicazione che non comunica niente. A creare un cimitero cibernetico dalla contagiosità molto elevata. Un contagio totale che si è diffuso a tutti i livelli. Arte, politica, società. Inoculavano morte culturale. 

Tanti di noi si sono persi. Passeggiando come morti viventi tra le lapidi in cui imprevedibilmente iniziavano a svilupparsi anticorpi alternativi, resistenti, nuove forme di vita. Qualcuno di noi incominciava ad orientarsi. Anche grazie a dischi come “Kasabian”(2004), l’esordio dei Kasabian, appunto. Abbiamo compreso che anche l’elettronica può avere un’anima. Un’anima Rock. 

Tutto un test di trasmissione. Il nemico non ce l’abbiamo più all’esterno, il nemico ce l’abbiamo dentro. Ce l’abbiamo tra le mani. Più stravolgente di una sostanza artificiale, più velenoso di un serpente geneticamente modificato. La più potente dipendenza. Il nemico ce l’abbiamo tra le mani. Ognuno chiuso nel mondo della propria proiezione virtuale. Solo. Solo con uno schermo davanti agli occhi che soddisfa tutti i desideri. Sul monitor una linea lunga e piatta.

Non rimane poesia, la musica non vende, notizie false, gli uomini politici sbavano di rabbia e promesse schiumanti. Non rimane niente, dei profumi e delle puzze. Del sudore e dei brividi. Inermi davanti ad un’invasione di microchip roditori. Siamo esperimenti di uno scienziato spietato. La decomposizione, la necrosi, la realtà continua a proliferare. 

Lentamente il pulsare muove una minuscola onda. 

Il pulsare, che sia un beat elettrico o un battito cardiaco, è sempre pulsare. Tagliando qua e là tra la spazzatura mediatica. Come una cadenza, come un ritmo musicale. Questo ritmo si fa melodia, si fa viaggio, si fa visione oltre. Si fa vita. Apre una nuova dimensione del tempo. 

Per me che l’amore era sempre lo stesso, legato alla materia, adesso avevo una nuova percezione della consistenza della notte. Anche io potevo essere un uomo del futuro. Bisognava soltanto cambiare piattaforma, codificare un nuovo linguaggio nella piattaforma mentale. Anche se i figli si facevano ancora alla vecchia maniera (non per molto), con piacere e incoscienza, e un buon whisky era sempre un buon whisky.


I Kasabian nel 2004: Sergio Pizzorno, Christopher Karloff, Tom Meighan, Chris Edwards.


Tracklist: 1.Club Foot. 2. Processed Beats. 3. Reason Is Treason. 4. I.D..5. Orange. 5. L.S.F. (Lost Souls Forever). 6. Running Battle. 7. Test Transmission. 8. Pinch Roller. 9. Cutt Off. 10. Butcher Blues. 11. Ovary Stripe. 12. U Boat





sabato 23 dicembre 2023

Ogni tanto tocca a me

 Spesso sono io a fare domande agli artisti che incontro, questa volta, invece,  è toccato a me essere invitato a rilasciare qualche dichiarazione. 



Per chi avesse desiderio di leggere l'articolo completo può cliccare qui sotto 👇 


 




sabato 16 dicembre 2023

BENVENUTI NEL PRIMO MONDO- VIDEOPOESIA



La visione del Primo Mondo di un bambino, nelle immagini, in parallelo alla visione del Primo Mondo di un adulto, nel testo. 

"Benvenuti nel primo mondo" è una videopoesia sperimentale che unisce la regia video di un bambino, mio figlio Luigi F. che, all'epoca della raccolta del materiale, aveva sei anni e un mio testo corroso e corrosivo. 
Con la fondamentale collaborazione alla musica del mitico creatore di groove Rough Max Pieri. 

Benvenuti nel primo mondo 
Poesia e voce: Gabriele Peritore 
Musica: Rough Max Pieri 
Regia video: Luigi Filippo Peritore e Gabriele Peritore 

Per visualizzare al meglio aprire a tutto schermo. 



 

domenica 10 dicembre 2023

Sottrazioni

 


Chiacchierata con Bartolomeo Smaldone (2018)




Nello scorso mese di Marzo è uscita la raccolta di poesie “Sottrazioni” (Alcesti Edizioni) di Bartolomeo Smaldone. L'autore altamurano, con un paziente e sapiente lavoro di ricerca alla radice del suono della parola, ha realizzato questa silloge in cui ogni poesia è costituita da pochi versi e pochi, pochissimi, lemmi pregiati. Ogni parola è restituita al suo suono originario e al suo riverbero nei pensieri di chi legge, nelle onde acustiche di chi ascolta, oltre il senso e la stratificazione. Abbiamo incontrato Bartolomeo per farci raccontare qualcosa in più su di lui e la sua arte. 

Mi sembra di capire che per te in questo libro sottrarre non vuol dire togliere valore alla parola ma aumentarlo… ho capito bene?

Hai compreso alla perfezione il senso di questo mio nuovo lavoro nel quale è centrale il ruolo della parola nelle sue concise alchimie. “Sottrazioni” è una raccolta improntata all’essenzialità del suono dei sintagmi, che in questo caso considero complementare rispetto al senso e talune volte addirittura prevalente. Non è un caso che nell’elaborazione della struttura dei componimenti un ruolo fondamentale sia stato ricoperto dagli accenti.


Nella postfazione a questo libro c’è una bellissima similitudine con cui spieghi questo concetto… una ricerca paragonabile a quella di scavare nella pietra... ce ne daresti un approfondimento?

La similitudine cui ti riferisci, quella citata nella mia nota a “Sottrazioni”, riguarda la città di Petra, capitale del regno dei nabatei. Una città ricavata scavando la roccia d’arenaria. Nel momento in cui, in modo del tutto casuale, mi sono ritrovato tra le mani un volume d’arte nel quale si raccontava per parole e immagini la monumentale bellezza di Petra, ho capito che nessun altro accostamento iconografico avrebbe potuto descrivere meglio il senso di poesie così epigrammatiche, ottenute sottraendo artigianalmente e pazientemente tutte le sedimentazioni accumulatesi nel mio inconscio nel corso degli anni, fino a raggiungere un’armoniosa substanzialità. Un pieno ricavato da un altro pieno, lavorando la stessa materia: la parola. 


"Quante stelle hai visto/arrendersi/alla carne del tuo desiderio?" Questo è un tuo splendido esempio di come si può trovare un pieno ricavato da un altro pieno. Dalla tua biografia emerge il fatto che sei autore di numerosissime pubblicazioni… poesie, racconti, romanzi… mi sembra di capire che al centro della tua produzione così varia ci sia sempre la parola… o c’è un altro filo conduttore? 

Ho scoperto nel corso degli anni che nella mia produzione era sempre stata centrale la parola e che avrebbe dovuto continuare a essere così. La parola è la forma d’arte più democratica in assoluto. E anche la più potente. In ogni parola esiste un suono e un movimento; esistono paesaggi insoliti. La possibilità di poter combinare tra loro le parole in schemi sempre nuovi è quanto di più entusiasmante possa concedersi a un poeta.

Secondo te questo concetto vale anche in questo periodo storico dominato dalla comunicazione globale?

Il potenziale della parola rimane sempre infinito e immutato, ed è ancora esprimibile in forme diverse; è ancora sondabile; può essere ancora rivoluzionato, anche partendo da un certo recupero della tradizione letteraria, poetica. A patto, però, che non si accettino compromessi rispetto alla solennità del verbo, che oggi appare sempre più maltratto e ridotto a semplificazioni offensive. 

Non è certo il tuo caso. In ogni tuo lavoro si percepisce questa sacralità della parola... Nella tua vasta produzione ce n’è qualcuna a cui sei più legato? 

Il libro cui sono più legato è quello che verrà pubblicato a novembre di quest’anno e si intitola “Disobbedienza”: una raccolta di poesie costruite attorno all’opera “Antigone” di Sofocle.

Un'opera dedicata ad un autore simbolo della tragedia... Ci riporta all'arte sviluppatasi nella Antica Grecia e nelle sue colonie, sparse anche nel sud Italia. Adoro gli autori che si occupano principalmente del loro territorio… tu sei pugliese, che rapporti hai con i tuoi luoghi?

Un rapporto irrinunciabile, lo stesso che lega un figlio a una madre. Il mio territorio, il mio Sud, in tal senso non fa sconti: è spietato. Non accetta di essere amato parzialmente. È così invadente da risultare infine indispensabile in tutte le sue espressioni, soprattutto in quelle più arcaiche, che ancora dominano taluni volti e moltissimi paesaggi.

La tua Madre geografica ti ha voluto poeta, narratore e inoltre diffusore di cultura a tutto tondo… sei infatti tra gli organizzatori del Movimento Culturale Spiragli… ci vuoi raccontare qualcosa in più della vostra attività?  

È un progetto culturale appassionato che coinvolge molte persone in tutta Italia e anche all’estero. È un luogo confortevole nel quale coltiviamo ostinatamente la nostra utopia: riportare la cultura, le arti, l’umanesimo, al centro di tutti i dibattiti, per poter riedificare finalmente la società su fondamenta virtuose: quelle dell’inclusione, della collaborazione, dell’apertura all’alterità, dell’accoglienza senza eccezioni e pregiudiziali.

Con il vostro Movimento Spiragli organizzate un premio di poesia intitolato a Beppe Salvia… ci diresti qualcosa di più? 

Beppe Salvia è prematuramente scomparso nel 1985 e purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscerlo... è stato un grandissimo poeta del ‘900, del quale si sa e si dice pochissimo. È stato un grande innovatore, perché, tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, ha restituito a tutti i gli amanti della grande poesia una consapevolezza che sembrava essere stata irrimediabilmente perduta, ovvero il potenziale ancora esprimile di una lingua che può a ragione vantare di avere una musicalità unica. ‹‹Me ne vado vagando e v’assicuro›› è il verso di Beppe che, almeno a parer mio, esprime in maniera più compiuta il nuovo slancio che egli seppe dare al nostro italiano. Un verso di abbacinante bellezza e potenza. 

Sono d'accordo sulla grandezza di Beppe Salvia e in effetti sono felice che abbiamo avuto modo di citarlo in questa intervista... Un'ultima domanda per salutarci. Quando si pubblica una poesia l’autore non ne è più padrone, diventa di chi la legge… cosa speri che trovi in queste poesie chi ti legge?

Spero che trovi qualcosa di diverso da ciò che vi ho trovato io, perché questo darebbe pienezza al processo creativo.





domenica 3 dicembre 2023

Leonardo Sciascia: “Il cavaliere e la morte” (1988)


 

Seduto alla sua scrivania, il commissario Vice, guarda l’incisione che si porta dietro, in ogni ufficio, di ogni città in cui ha lavorato. Una stampa raffigurante un cavaliere sul suo bel cavallo, la Morte e il Diavolo. Conosce a memoria quel disegno in ogni minimo dettaglio: la precisione del tratto, la prospettiva, la ricchezza degli elementi. In quello scenario allegorico ambientato nel tardo medioevo ci vede i simboli della vita, della sua vita, della vita in generale. Questa stessa incisione forse è quella preferita di Leonardo Sciascia, collezionista appassionato di questo tipo di arte. In particolare modo predilige l’opera di Albrecht Dürer, tanto da inserirla nel suo romanzo, aprendo una serie di parallelismi sorprendenti. “Il cavaliere e la morte”, viene pubblicato nel 1988, quasi alla fine (avvenuta nel 1989) di una vita vissuta all’insegna della lotta al sonno della ragione. Come uomo e insegnante prima, e come scrittore e politico poi, è sempre stato impegnato in prima linea per fare emergere la Verità. Anche se, con il passare degli anni, si accorge che la vera Verità è sempre più sfuggente e sempre più difficile da afferrare. Questa visione pessimista è perfettamente riportata tra le pagine del libro e affidata allo sguardo amaro e realista del protagonista senza un nome, segnalato semplicemente con l’appellativo Vice. Forse perché un nome non serve, essendo la proiezione più intima e fantasiosa dello stesso scrittore di Racalmuto. Leonardo Sciascia, sempre attento alle dinamiche contraddittorie della sua terra (espressa egregiamente nella sua opera saggistica), ha spesso mostrato di prediligere la tecnica narrativa del giallo nei suoi scritti, basti ricordare le pagine esemplari del romanzo “Il giorno della civetta” (1961) che avvia la stagione della letteratura sulla mafia, facendone emergere elementi fino ad allora ignorati. Altrettanto significative sono le pubblicazioni di “A ciascuno il suo” (1966), del “Contesto” (1971) o del bellissimo  “Todo Modo”(1976), inviso agli alti gradi delle gerarchie ecclesiastiche. Nel periodo di operato politico, oltre a battersi per diritti ritenuti fondamentali, civili e sociali, prima tra le fila del Partito Comunista (lasciato in maniera polemica) e poi tra quelle dei Radicali dal 1979, si è speso in progetti artistici in forma di inchiesta. Si è prodigato per fare luce su faccende immerse  nel mistero assoluto come “Atti relativi alla morte di Raymond Russell”(1971) o “La scomparsa di Majorana” (1975). Ha suscitato parecchio scalpore la pubblicazione sulla carta stampata nel 1978 de “L’affaire Moro” , che indaga tra le connivenze tra Stato e Antistato, in questo caso le Brigate Rosse. Non ha mai amato le posizioni comode, anche a costo di risultare impopolare. L’indagine che più l’affascina e avvince è quella sul Potere: su cosa sia in realtà, quali siano le sue dinamiche. Nei regimi dittatoriali era facile trovare il nemico. Nel sistema sociale democratico è difficile, molto difficile, quasi impossibile. Il potere costituito è caratterizzato da una fitta trama di segreti inconfessabili. Le relazioni sottaciute, gli insabbiamenti, la corruzione, gli incartamenti che scompaiono. I prestanome, i messaggi cifrati, l’arte di non sporcarsi le mani. I flussi economici hanno la necessità di essere orientati nella giusta direzione, cioè nelle tasche di chi comanda, e serve un apparato che riesca a ripulire tale massa di denaro in modo da aggirare il fisco, sistema messo in piedi dallo stesso potere. Si innescano una serie di connivenze necessarie a mantenere inalterato tale riciclaggio quotidiano, il voto, il voto di scambio, la compravendita dei voti. Con leggi, controleggi e postille, corrieri incappucciati, sportelli bancari volanti, di piccoli stati dentro lo Stato. Il flusso di denaro più grosso arriva dal traffico di stupefacenti, altri minori dal gioco d’azzardo e dalla prostituzione. Tutto questo apparato sotterraneo di relazioni con esponenti delle varie cosche mafiose sparse su tutto il territorio nazionale, e quello alla luce del sole, di politici e industriali, con l’informazione debitamente pilotata, serve a consolidare il potere stesso e il sollazzo dei protagonisti principali di tale famelica pantomima. Era così allora ed è così anche adesso, soltanto che adesso il Popolo non conta più niente. Di tutto questo si è sempre occupato lo scrittore siciliano, innalzando la sua critica dalle pagine dei giornali con cui collaborava. Degli intrighi di potere indaga anche il commissario Vice. Un avvocato ucciso in maniera singolare e i sospetti che indirizzano verso uno dei suoi amici più intimi, l’industriale Aurispa. Non è un giallo d’azione, è la risoluzione di un rompicapo che si consuma sul territorio della psicologia e dell’intuizione pura. Mentre dai piani alti della questura provano a depistare le indagini con false prove che portano a neonati gruppi terroristici. Un po’ come succede nella realtà attuale a livello mondiale. Prima della stesura del romanzo a Leonardo Sciascia viene diagnosticato un cancro, e il peso e il senso della malattia si avvertono sul romanzo. Utilizza un linguaggio più ricercato ed elegante, vicino allo stile barocco, mai sperimentato nei precedenti lavori, come a voler dare prova a se stesso, prima di morire, delle sue qualità espressive. Anche Vice è malato e le riflessioni sul cancro sembrano condizionare le sue decisioni. Una società malata, soltanto un soggetto malato la può comprendere, e forse immunizzare come un anticorpo. Cosi l’incisione di Dürer assume nuovi significati, perché la Morte è raffigurata come se sembrasse una mendicante, quindi stanca e quasi impotente. Lo stesso vale per il Diavolo, una maschera grottesca che fa sempre meno paura, perché gli esseri umani sanno fare di peggio. Rimane il cavaliere, nella sua armatura sfavillante che rappresenta la Vita, forse l’ultimo travestimento della Morte. Nel suo capolavoro, Sciascia, non riesce a far trionfare la Verità o la Giustizia, c’è soltanto la volontà di far trionfare la Ragione, alla maniera illuminista, come ha sempre fatto, in tutta la sua opera, fino all’ultimo giorno della sua vita. 




domenica 26 novembre 2023

Jimmie Rodgers: Tra sorrisi e tristi yodel

 



Un sorriso stampato sul viso e la tristezza in fondo al cuore, è così che nasce il suo ululato ispirato allo Yodel che volteggia negli incisi dei suoi brani e che ne costituisce il suo stile, unico e pionieristico, che anticiperà molti degli stili musicali che verranno in seguito.

La musica è tra le sue passioni fin da bambino e ha una facilità straordinaria nel riprodurre i brani che più apprezza. Vivere negli anni venti sulle sponde del Mississippi significa entrare in contatto con musicisti che intonano blues per superare la fatica e per intrattenere la propria gente nei pochi momenti di libertà notturni. Nelle varie fughe da casa, la prima delle quali a soli tredici anni, per far accumulare esperienza alla sua chitarra, scopre il sound della sua terra fatto di folk bianco e blues afroamericano. Il gospel per innalzare preghiere a un cielo che conosce il suo dolore di bambino che ha perso la madre ed è costretto a crescere con il padre, che lo riporta sempre a casa, e i vari parenti di turno.

L'amore per la musica gli fa superare ogni difficoltà esistenziale e il piacere di comunicare, misto alla timidezza, gli disegnano quel dolcissimo sorriso che non lo abbandona mai.

Alla radio in quel periodo trasmettono artisti che utilizzano virtuosi gorgheggi di gola, Jimmie si lascia affascinare da artisti come Emmett Miller o Vernon Dalhart, ne è chiaramente influenzato. Ma non c'è soltanto questo nel suo Yodel, nel suo ululato gutturale c'è anche la sofferenza esistenziale e quella fisica.

A soli ventiquattro anni scopre di essere infetto da tubercolosi e la malattia mina tantissimo la sua salute.

Nei testi delle sue canzoni, che sono tra le prime nella storia della musica con struttura fortemente autobiografica, si respira, oltre le descrizioni della vita da bettola, tra scazzottate, amori complicati, anche le varie difficoltà dei lavori che doveva spesso lasciare a causa della malattia.

Proprio grazie alla molteplicità di lavori affrontati ha avuto la possibilità di entrare in contatto con il mondo dei lavoratori musicisti che lo hanno introdotto ai vari generi a lui cari.

Quando finalmente riesce a incidere la sua prima canzone nel luglio del 1927, grazie al produttore Peer che passa dalla sua cittadina per una serie di audizioni, il successo è immediato anche se il guadagno non è alto. Doveva presentarsi con la band con cui si esibiva in quel periodo, ma un insolubile diverbio capitato con gli altri elementi, la notte prima della registrazione, lo costrinse a presentarsi da solo. Alla seconda sessione di registrazione, con il primo T For Texas, il suo stile che unisce blues e folk arricchiti dagli unici Yodel tristi, gli permetterà di conquistare la celebrità e grazie alla diffusione nazionale ottenuta, contribuirà ad anticipare il rockabilly e alternative correnti country.

In pochi anni metterà a segno un successo dopo l'altro. Non c'è brano che non abbia il suo fascino intrinseco e che non abbia influenzato artisti come Hawlin' Walf e Mississippi John Hurt dichiaratamente ispirati al suo stile. L'apice lo raggiunge con il Blue Yodel N. 9 che permette a Jimmie di sperimentare le sue doti anche nel jazz e in altri generi innovativi per il tempo, registrando il brano con Louis Armstrong alla tromba e la moglie Lil Hardin al piano. 

Il periodo d'oro dura dal 1927 al 1933 quando il suo fisico non può più reggere il peso della malattia e a soli trentasei anni deve lasciare questo mondo. A me piace pensare che se ne sia andato così, con il suo sorriso sul volto e il cuore a ululare Yodel tristi, ma che regalano sorrisi a chi avesse la voglia di riascoltarlo ancora oggi.





sabato 18 novembre 2023

Gesualdo Bufalino: "Diceria dell'untore" (1981). L'intimo teatro della vita.

 



Può capitare, sì può capitare di girovagare tra i paesi che sorgono assecondando il dolce digradare dei Monti Iblei, di perdersi tra architetture barocche, a naso all'aria, ad ammirare le curiosità strutturali di balconi e finestre, dove putti e mascheroni si agitano per attirare attenzione; decori, manierismi, forme urlanti che sbracciano e si dimenano per ricordare la pochezza della vita nel pieno del loro clamore. Di inerpicarsi tra i dislivelli dei vari piani stradali collegati da infinite scalinate e gradini e gradoni, di farsi accogliere dalle facciate delle chiese che tremolano al calore dell'afa. Di trovare ristoro, soltanto all'interno, dove la frescura fa rifiatare. Per raggiungere i vari paesi e comuni confinanti bisogna attraversare le sconfinate campagne di olivi e carrubbi perimetrate da muri a secco che cuociono al sole, dove soltanto le lucertole si azzardano al movimento, alla ricerca del coccio più caldo, mentre tutto il resto della vita cerca improbabili fili d'ombra che diradano. Passando da Ragusa, poi Modica, fino ad arrivare a Comiso. Come può capitare di perdersi tra le trame ordite dal talento narrativo di Gesualdo Bufalino, scrittore di Comiso appunto, il cui modo di scrivere ricorda incredibilmente i volteggi dell'architettura barocca. Uno stile costituito da eleganti arabeschi, tremolare festante di parole intrecciate e improvvisi silenzi ecclesiali. La sua biografia parla di una scarsa attitudine al movimento, agli spostamenti, al viaggio. Comiso è la sua tana, ama trascinarsi da casa al bar e viceversa. È normale che la sua scrittura rifletta il movimento strutturale dei luoghi in cui vive. Anche perché il luogo in cui vive offre tutto, tutto quello che è necessario per la fantasia di uno scrittore. Nel magnifico spettacolo del vivere quotidiano, il bandire dei venditori, il contrattare delle casalinghe... le persone diventano personaggi, la struttura urbanistica si presta a farsi palco di teatro, pista di decollo per il volo della mente aperta all'immaginazione che dà vita al grottesco. Perché la vita è una farsa, l'ispirazione una burla, che cerca di ingannare la morte; è soltanto il lasso di tempo che intercorre nel momento dell'unirsi delle palpebre delle tenebre in un solo battito. Così come la storia messa su carta è il lasso di tempo che intercorre nel momento dello sbattere delle palpebre dell'ispirazione dello scrittore.

Per questo motivo lo scrittore Bufalino instaura un rapporto speciale con i suoi personaggi e le sue storie. Vive a lungo con loro, ne assiste in infinite esibizioni private al loro spogliarello e al vestimento, ne vuole subire l'affabulazione per un periodo indeterminato.

Così la stesura del suo primo romanzo, Diceria dell'untore, dura più di vent'anni e quando viene pubblicato nel 1981 lui ne ha sessantuno, anche se la scrittura e la lettura sono presenti nella sua vita fin dalla tenera infanzia, grazie al padre accanito lettore, e i riconoscimenti arrivavano ad ogni sua produzione artistica, ma per indole caratteriale ha preferito la condizione intima della solitudine nella sua isola, in una forma d'isolitudine. Non ha importanza che il tempo sia passato, lui ne ha goduto per quanto ha voluto considerando il suo rapporto con il tempo... appunto: non esiste, o se esiste è soltanto un sogno. Proprio con la descrizione di un sogno inizia il romanzo Diceria dell'untore, ambientato in un sanatorio palermitano, forse unico elemento autobiografico, che riporta al periodo della fine della seconda guerra mondiale, quando, dopo essere scampato alla prigionia nazista, si ammala di tisi e vive un lungo calvario, tra strutture ospedaliere, che lo porta alla guarigione. Il sanatorio è più che altro un luogo di incantesimo dove tutti i personaggi sono soggetti ad affatturazione ed eroicamente costretti a districarsi tra gli incanti della morte e del sublime. La guarigione, non è una vittoria, è il materiale delatorio che prepara il terreno, tra retorica e pietà, all'untore per la sua diceria.

Forse il romanzo in cui il linguaggio barocco di Bufalino, che alterna flussi torrenziali a frasi affilate e sintetiche come rasoiate, trova il suo apice, è Le menzogne della notte del 1988. La trama narra di quattro condannati a morte, che dividono la stessa cella, e che per passare la loro ultima notte di vita, si raccontano a vicenda il loro ricordo più bello. Una prosa esemplare per come realtà e finzione si sovrappongano impedendo di capire dove finisca l'una e inizi l'altra. Fondamentale è la comprensione del concetto che memoria e menzogna (da mentire) sono attività della mente, che possono innalzarsi per raggiungere la perfezione, concorrendo nel tentativo, glorioso e vanaglorioso, di ingannare la morte, senza riuscirci ovviamente, mostrando tutta la loro fallacia, perché il dolore non si può curare ma si può recitare.

Dopo la prima estirpata e corteggiata pubblicazione ne seguiranno altre con cadenza costante, in modo da rifarsi degli anni trascorsi senza. La produzione letteraria dal 1981 in poi prende un ritmo forsennato fino a metà degli anni novanta. Mi piace ricordare tra le tante opere edite il romanzo Argo il cieco, le riflessioni di Museo d'ombre e La luce e il lutto, e le poesie I languori e le furie. Stava lavorando al romanzo Shah Mat, sullo scacchista cubano Capablanca, quando uno strano e predestinato incidente d'auto gli toglie la vita nel 1996.

Le tematiche affrontate, che lo avvicinano alla letteratura di immensi pensatori come Jorge Louis Borges e Samuel Beckett, ne fanno uno dei maggiori scrittori siciliani e italiani del ventesimo secolo e in questo caso anche se può capitare di perdersi, come dicevo all'inizio, coinvolti nei labirintici ghirigori narrativi o architettonici, è una piacevole e formativa sensazione perché può capitare anche di ritrovarsi.







domenica 12 novembre 2023

Città fantasma, alchimia, maschere e mascherine

 La mia intervista a Flavia Cidonio 



Ringrazio la poetessa Flavia Cidonio che ha scelto il mio blog per parlare del suo nuovo libro e di molte altre cose. 


Flavia Cidonio ha collaborato con la rivista di critica cinematografica «Sentieri Selvaggi». Scrive per il magazine culturale «Parallel Vision». È autrice di testi teatrali, racconti, poesie e ha pubblicato le raccolte Antimonio (Gattomerlino, 2019; premio nazionale di poesia “Maria Marino” 2021) e Lieta sciagura (Nulla Die, 2021). Città fantasma è il primo libro pubblicato con Ensemble.

Suggestivo il titolo: “Città fantasma”. Fa pensare a quello che abbiamo vissuto durante la pandemia ma ovviamente non è così. È tutta un'altra storia…

Questa raccolta nasce da una piccola fascinazione: Roma disabitata. Con lei vivo uno di quei rapporti di amore vicini alla reciproca consunzione. Ho voluto disegnare una mappa di incontri. Celebrati, vissuti o nascosti. A questo credo corrisponda una città. Ricordo e immaginazione costruiscono un reticolo sovrapposto che crea l'opportunità di nuove interpretazioni. Punti di raccordo per chi ha imparato a smarrirsi, confine che non consente di dimenticare la strada di casa. Scritta nell’altro ancora prima che in terra. Del tempo con le sue condizioni abbiamo imparato a farcene gioco: la città che brucia è un discorso di fantasmi. 

Si può dire che tu sia nata in un’epoca tecnologicamente avanzata in cui la parola è legata alle comunicazioni tecnologiche e alla virtualità. Ci può essere ancora emozione materiale, sensoriale, nel comunicare attraverso la parola? 

Non credo di avere risposte nette, ma solo considerazioni. Cambiano i supporti, la modalità e i tempi della comunicazione, eppure la sostanza mi sembra resti la stessa. Nei suoi limiti e nelle sue potenzialità abbiamo modo di esplorare quotidianamente un confine mutevole, che forse esiste solo nella nostra immaginazione. La tecnologia spesso è un ponte che senza dubbio può aggirare molti ostacoli che il mondo reale offre (ostacoli a cui peraltro non necessariamente credo sia un male arrendersi), ma non per questo mi sembra ci renda immuni alla crudeltà. O alla permeabilità di provare e trasmettere sensazioni, anche attraverso strumenti così asettici. Un discorso a parte credo si possa fare in merito al desiderio: in un mondo dove tutto sembra apparentemente a disposizione credo che una fame autentica sia preziosa.

A proposito di fame… parliamo di emozioni… ti ricordi la tua prima emozione legata alla scrittura? 

Ho molti ricordi di questo tipo, anche se non saprei dire quale sia stata la prima emozione legata alla scrittura. Se dovessi raccontare un momento in particolare mi viene in mente quando ho scritto Mattino, la poesia che si trova sulla copertina di “Antimonio”. Rileggendola di getto ho avuto la sensazione che ogni lettera corrispondesse a quel che ero, nella sua contenutezza. Come leggersi in uno specchio. È stato molto bello.

Ricordo bene “Antimonio”, la raccolta con cui ti presenti al mondo, con un bagaglio di parole che piovono come trasognate dall’emisfero della casualità ma si materializzano con meticolosa precisione nella realtà a scolpire sensibilmente i vari stati d’animo interiori. Un gran modo per presentarsi al mondo che mostra tutta la tua eleganza e incisività stilistica. “Antimonio” richiama ad un preciso elemento alchemico. Ci puoi dire se ci sono dei riferimenti o se è soltanto una suggestione? 

In alchimia l’antimonio rappresenta la natura più ferina dell’uomo, l’stinto. Si dice fosse usato come antidoto contro l’avvelenamento, sebbene in realtà sia notevolmente tossico. Con questa raccolta di poesie ho provato a interrogarmi sulla forma di questa radice, così oscura e contraddittoria. Così vitale. Il riferimento quindi è legato esclusivamente al nome, sebbene l’alchimia (da assoluta profana) mi interessi molto.

Dalla lettura della silloge il tuo interrogarti su questa natura oscura e contraddittoria emerge attraverso una naturale intima musicalità. Quali sono i passaggi, le emozioni, le riflessioni fondamentali che hanno portato alla stesura? 

Mi è difficile ricostruire un percorso, ma diciamo che l’idea essenziale è il rifiuto dell’assertività. La natura di Antimonio è anti vitalistica, in chiave sorniona. Non amo la certezza, mi appassiona l’equilibrio del dubbio. Non desiderare punti di riferimento o approdi per diverso tempo mi ha fatta sentire sola, più di ogni altra cosa. Probabilmente l’adesione al paradosso, la figura retorica che prediligo e uso abbastanza spesso, arriva da qui. Ci sono molte piccole storie che non combaciano in queste poesie, pezzi che non ho bisogno di ricondurre all’interezza. 

L’adesione al paradosso probabilmente ti ha permesso di eliminare delle maschere, e dopo il periodo delle mascherine non è poco… O ne hai indossate altre?

In questo libro la maschera corrisponde al volto: non ce n’è neppure una, eppure ce ne sono molte in ogni verso. 

Interessante risposta che però sembra indicare una sorta di distanza. In questo momento ti senti pienamente rappresentata dai contenuti riportati nel libro? 

Direi di no o almeno non del tutto. In verità ho cominciato a percepire la distanza già una volta terminata la stesura, ancora prima di capire se avrebbe visto luce o no. E credo sia un bene, perché questo passaggio ti offre l’occasione di riflettere su come desideri proseguire, se desideri farlo e per quale ragione. Anche le impressioni restituite da chi lo ha letto chiaramente hanno contribuito a questo senso di estraneità piacevole. 

Il tuo ascoltare il silenzio della musica interiore come si pone nei confronti del frastuono mediatico? 

Penso che il frastuono mi sia necessario, altrimenti non potrei apprezzare così tanto il rifugio che offre il vuoto, che amo mantenere tale senza l’ansia di una decodifica. In virtù di questo penso che la confusione favorisca spesso processi interiori interessanti. Di mio tendo emotivamente al caos, entrare in contatto con ciò che è simile mi porta a osservare con più cura le sue componenti essenziali.

Il caos mi fa pensare nuovamente ad Antimonio. Tutto torna. Quanto conta la poesia oggi e soprattutto la parola nell’epoca del caos telematico? 

Potenzialmente moltissimo, proprio nel momento in cui la parola scritta mi sembra sia lo strumento principale. Direi che l’ostacolo è il tempo di reattività, la produttività. L’efficienza a ogni costo. Errare maggiormente in questo senso può essere utile, anche attraverso il linguaggio. Quindi concedersi di sbagliare, di rivedere e formulare nuovamente con tempi che ci corrispondano. Così come esplorare territori nuovi e non suggeriti dall’assonanza con quanto abbiamo già ascoltato.

Corrispondeva alla stesura interiore. Come hai vissuto il passaggio da stesura ideale alla forma cartacea? 

Credo non sia mai esistita una stesura ideale di ”Antimonio” dal momento che non si è mai trattato di un progetto. Scriverlo è stato necessario, entusiasmante e per certi versi quasi divertente. Ma allo stesso tempo per ogni nuova poesia rivedevo tutto quel che avevo scritto in precedenza. Molte hanno mutato completamente forma, altre che mi piacevano moltissimo non hanno più avuto un senso alla luce dei nuovi versi. Quindi probabilmente non mi sono resa neppure conto di quanto abbia corretto e modificato dal momento che è accaduto un po’ alla volta.

Senti che nel tuo modo di scrivere ci siano le influenze del tuo percorso formativo? 

Ho studiato drammaturgia per due anni in un corso professionale, lettere all’università, sceneggiatura e negli ultimi due anni redazione editoriale. La mia è una formazione un po’ eterogenea ma direi che ognuno di questi passi mi ha portata a ragionare molto sulla scrittura, mia e altrui. Certamente ho attinto moltissimo dalle letture suggerite anche grazie a questi studi.

Quali sono queste letture? Ci sono autori o autrici che per te sono fondamentali? 

Moltissimi, negli ultimi anni quasi principalmente donne. Antonia Pozzi, Paul Celan, Cristina Campo, Audre Lorde, Patrizia Cavalli, Octavio Paz, Wisława Szymborska, Borges, Anne Sexton, Chandra Livia Candiani, Emily Dickinson. Dovessi nominarne una fra tutte direi Sylvia Plath. Ma sono sempre in cerca di nuove voci da amare.









domenica 5 novembre 2023

Meade Lux Lewis: Il blues del treno sulle rotaie del boogie woogie

 



Nell'epopea del Blues sono infiniti i canti dedicati al treno, basti pensare a Leadbelly con la sua When That Train Coming Along, o Waiting For A Train di Jimmie Rodgers, a Lonnie Johnson con Long Black Train o al più celebre Robert Johnson con Love In Vain Blues, tra quelle più belle che mi vengono in mente, ma in realtà non c'è Bluesman che non abbia dedicato almeno un brano al treno in vita sua.

Il motivo è che il treno, con tutti i suoi annessi e connessi, oltre le piantagioni di cotone, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, ha rappresentato una delle principali fonti di guadagno e di fatica per gli afroamericani che prestavano la maggior parte della bassa manovalanza, e dove c'è fatica, per superare la fatica, appunto, si canta. 

I cantieri delle ferrovie, inoltre, per orecchie sensibili, fornivano una serie di rumori ripetuti che con la fantasia del musicista diventavano suoni. Il battere del martello sulla rotaia, lo spalare della vanga, lo scarico dei sassi. Anche la stessa meccanica del treno a vapore forniva spunti interessanti.

Con il tempo il treno assurge anche al ruolo di simbolo. Può simboleggiare il viaggio in sé, e il mistero che comporta. Verso nessuna destinazione o una destinazione fantasma, verso la felicità o verso l'inferno. Può essere il simbolo della comunicazione perché riesce a mettere in contatto tra di loro punti dello sconfinato territorio americano fino ad allora irraggiungibili.

Fino a diventare simbolo sessuale, simbolo dell'organo che può addentrarsi, tra gallerie e ponti, nelle lande inesplorate della natura selvaggia.

Il pianista di Chicago, Meade Anderson Lewis, poi Lux, nel tentativo di intrattenere la sua gente nei Junkie Joint, le bettole dove si ritrovano gli afroamericani nel dopolavoro, decide di velocizzare le battute del blues rendendolo ballabile e parlando loro di un argomento che conoscevano a memoria, il treno appunto, in questo modo lo esorcizzava.

Così nasce intorno al 1927, Honky Tonk Train Blues. Non si sa cosa fosse Honky Tonk, forse un altro modo di definire i juke joint, o un modo scherzoso di chiamare il piano, o ancora un genere musicale proveniente dal rag, ma in ogni caso è un fonema in cui chi aveva voglia di fare chiasso clandestinamente si riconosceva. Lo spartito mostra tutti i dettagli del viaggio del treno: la partenza, gli scambi, il suo passare vicino ai viaggiatori che aspettano, lo sbuffare della locomotiva, il passaggio sui ponti, il prendere velocità, l'arrivo in stazione.

Lo stile musicale caratterizzato dalla velocizzazione delle battute con le tre dita della mano sinistra nel tipico walking bass e le improvvisazioni melodiche con la mano destra, complesse ma orecchiabili, ballabili e sensuali, contribuiscono a creare in quel periodo, insieme ad altri musicisti che utilizzano le stesse modalità espressive, il genere che verrà chiamato boogie woogie, termine che non ha nessun senso ma che include tutti questi elementi.

La registrazione del brano arriverà grazie alla produzione della Paramount e così la diffusione nazionale. La celebrità di Honky Tonk Train Blues lo porta a diventare uno standard del blues, con versioni realizzate dai più grandi bluesmen della storia.

Lewis porta il boogie woogie in giro per gli Stati Uniti per tutti gli anni trenta, inseme ad altri due pianisti, Ammons e Johnson (vedi sotto), fino al celebre concerto tenuto al Carnegie Hall nel 1938. Il fenomeno boogie diventa una vera e propria mania e come tutte le manie ad un certo punto perde il suo potere di traino.

Il suo talento musicale gli permise di reinventarsi e cimentarsi con altri strumenti e poi di approdare al genere rag, diverso ma con le stesse radici del boogie, che continua a suonare fino a cinquant'otto anni, cioè fino all'incidente d'auto del 1964 che gli toglie la vita. Quando si ha voglia di ballare, a distanza di quasi cento anni, il Blues Del Treno mantiene intatto il suo fascino.




Per chi volesse conoscere qualcosa in più su J. P. Johnson può cliccare qui sotto 👇 










sabato 28 ottobre 2023

Leonardo Sciascia: “La scomparsa di Majorana” (1975)



Da siciliano a siciliano. Quando Leonardo Sciascia decide di dedicare un lavoro al suo conterraneo Ettore Majorana è il 1975 e sono passati trentasette anni dalla scomparsa improvvisa e misteriosa del fisico. La pubblicazione del libro “La scomparsa di Majorana”, non a caso, avviene in quegli anni turbolenti, nel pieno della Guerra Fredda, tra due potenze mondiali come gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica che si minacciano a suon di armi di distruzione di massa. Sciascia prova a riaccendere l’attenzione su un caso mai del tutto chiarito, di cui l’evoluzione è tuttora avvolta nel mistero più fitto. Come successo in altre occasioni, nella vasta produzione dello scrittore siciliano, la struttura del libello è quella dell’inchiesta che, nel crescendo delle ipotesi formulate nel corso dell’indagine, assume la forma del romanzo. Una prosa calda, umana, dalla potente capacità d’immedesimazione, nel tentativo di comprendere al meglio le dinamiche mentali del genio catanese. Sciascia, infatti, non crede nell’ipotesi del suicidio, con cui la polizia nel marzo del 1938 aveva frettolosamente chiuso il caso. Certo, tutto faceva pensare che lo potesse essere, anche e soprattutto, le ultime lettere scritte dallo stesso Ettore Majorana. Prima di far perdere le tracce definitivamente, infatti, il fisico aveva scritto delle missive d’addio inviate all’amico Antonio Carrelli e altre in cui manifestava l’intenzione di rinunciare alla cattedra appena vinta all’università di Napoli, chiedendo umilmente scusa per la decisione presa. Nei giorni successivi invece scrive delle altre missive per smentire quelle precedenti. Fa in tempo a consegnare un plico di documenti ad una sua allieva (plico scomparso anch’esso misteriosamente), a ritirare il passaporto e gli stipendi arretrati non incassati e poi prendere quel fatidico traghetto da Napoli a Palermo. Le ultime testimonianze certificano la sua presenza a Palermo, nel Grande Albergo Sole, per due giorni di riposo; quindi la traccia fondamentale e definitiva: il biglietto di ritorno a Napoli, datato 27 marzo 1938. Il biglietto risulta timbrato ma nessuno lo ha mai visto su quel traghetto. Anche se le testimonianze raccolte negli anni a seguire lo vogliono vagante per Napoli e altre città. Il vero fatto è che di Ettore Majorana da quel giorno non si è saputo più nulla. Volatilizzato. Il suo corpo non è mai stato trovato. Attraverso una meticolosa ricerca tra documenti editi e quelli non conosciuti, spulciando in biblioteche, in archivi pubblici e privati, Sciascia prova a ricostruire la personalità del suo corregionale. Ne viene fuori un carattere schivo, solitario, dedito al lavoro, allo studio, alla scienza. Una mente illuminata, in grado di svolgere complesse operazioni matematiche anche in pochissimo tempo, con il pensiero sempre rivolto alle sue formule, scribacchiate un po’ ovunque, sui tovaglioli al bar, sui pacchetti di sigarette. In grado di sostenere teorie di altissimo livello tecnico con i più grandi scienziati d’Europa. Ettore, infatti, appartiene al gruppo di fervide menti che hanno reinventato la fisica moderna, noto sotto il nome di Ragazzi di via Panisperna, capitanati da Enrico Fermi. Proprio Fermi lo accoglie come un genio nel gruppo. Nel periodo romano, in pieno regime fascista, nella ultra avanzata facoltà di Fisica, Ettore e i suoi colleghi lavorano alle più importanti scoperte scientifiche dell’epoca. A loro si devono la scoperta dei neutrini, della loro massa e dell’antimateria, la scissione nucleare e soprattutto l’equazione che porta il suo nome sui sistemi quantistici aperti. Nel 1933 viene invitato in Germania dal fisico Werner Heisenberg per argomentare sulla teoria nucleare e successivamente si reca in Danimarca per confrontarsi con un altro fisico di fama mondiale come Niels Bohr e i suoi adepti. Al rientro dal viaggio Majorana si chiude in casa e interrompe i rapporti con chiunque, anche con i suoi colleghi romani, accentuando la sua solitudine e misantropia, e dedicandosi esclusivamente allo studio forsennato. Forse qualcosa l’ha sconvolto, di certo in quel periodo si succedono svariati eventi significativi e toccanti per la sua esistenza. Qualche mese dopo muore il padre, infatti, e più tardi un suo nipotino in circostanze misteriose, con il conseguente processo a carico di un suo familiare. Il suo stato di salute si aggrava, con quei problemi all’apparato gastrointestinale sempre più sfibranti. Con il peso dei complessi di una sessualità mai risolta. Di questo  fattore intimo Sciascia non  ha mai fatto menzione, secondo lo scrittore di Racalmuto a sconvolgere maggiormente la sensibilità di Majorana è stato il rendersi conto della direzione che i suoi studi potevano prendere, e cioè quelli che poi, in realtà, hanno preso,  sulla scissione atomica (come si è verificato in seguito a Hiroshima e Nagasaki), e il rendersi conto del pericolo che l’umanità stava correndo. Dopo il suo soggiorno tedesco, e con l’esplosione della tirannia nazista che si riflette su quella fascista italiana, non fa fatica a comprendere che le nazioni si lanciano in una rincorsa affannata verso l’armamento atomico. Anche se il pensiero fisso di Ettore Majorana è la fisica, un’altra ossessione ancora più straziante si fa strada nella sua interiorità e cioè che la fisica va nella direzione sbagliata e che anche l’umanità va nella stessa direzione sbagliata. A confermare le sue visioni sono le evoluzioni delle carriere dei suoi colleghi. Vede Heisenberg costretto a collaborare con la milizia tedesca, e il suo gruppo di colleghi  del periodo romano autoesiliarsi in America, dove viene completata la messa a punto della bomba atomica. Molto presumibilmente si sarà fatta strada nel suo intimo l’idea che era arrivato il momento di scomparire anche per lui. Sono varie e fantasiose le ipotesi attorno alla scomparsa di Majorana. Una vuole che sia stato arruolato dal regime nazista per collaborare al fianco di Heisenberg. Un’altra che si si sia rifatto una vita in Argentina e poi Venezuela. Un’altra ancora che abbia vagato come un barbone farneticando formule per le città siciliane. Secondo Sciascia, il peso delle responsabilità di fisico geniale ma che ha previsto la fine del Pianeta, lo hanno portato a creare una serie di tracce false per depistare dalla sua vera intenzione, cioè quella di rinchiudersi in un convento presso la Certosa di Serra San Bruno in Calabria, tornando con la mente al periodo dei suoi studi dai gesuiti, quando stava bene e non conosceva ancora la bruttezza del mondo. Ha tradito la sua passione, che era la sua vita, per non tradire la Vita.