domenica 25 febbraio 2024

Goliarda Sapienza: “L’arte della gioia” (1998)

 



A cosa si è disposti a rinunciare pur di conquistare la libertà... Questa la domanda che serpeggia tra le righe, lungo tutto il romanzo postumo di Goliarda Sapienza, “L’arte della gioia”. Soprattutto una donna, nata all’alba del ventesimo secolo, a quali incredibili e dolorose rinunce si deve sottoporre pur di emanciparsi, pur di ottenere una libertà vera, svincolata da obblighi morali e sociali? Goliarda Sapienza lo sa bene, perché durante tutta la sua esistenza si è dedicata a coltivare questa libertà. Anche grazie a genitori come Giuseppe Sapienza e Maria Giudice coinvolti in battaglie culturali e politiche. Lo sa bene anche Modesta, sua alter ego protagonista del romanzo, che durante il processo di autodeterminazione, afferma la sua esistenza, la sua involontaria presenza nel mondo, rinunciando a tutto quello che la ha messa al mondo, annientandolo, e avviando un ulteriore processo di autoparto, o di autogenerazione. In questo modo, inevitabilmente, perde la famiglia, i veri sentimenti, la conoscenza profonda della propria terra. L’arte della gioia è conoscere quello che si nasconde dietro la parola: “gioia”. Un attimo di fugace e intensa felicità ogni volta che si prova la sensazione di piena e completa libertà. A dispetto di tutto. Che non cede a nessun ricatto. A nessun compromesso. Per realizzare questo desiderio, per raggiungere questo stato privilegiato, il più spesso possibile, si può essere disposti a tutto. Come Modesta, appunto, che, nel tentativo di affrontare questo farraginoso processo di autodeterminazione, deve uccidere, prostituirsi, rubare, sedurre per interessi, mentire, lottare politicamente e sentimentalmente, sempre con un obiettivo ben saldo nel cuore e nella mente: la libertà. Perché quando si è liberi si può affrontare anche la prigionia. Goliarda Sapienza ha vissuto i due aspetti estremi della Sicilia tra gli anni trenta e quaranta. Essendo nata a Catania ha potuto respirare l’aria di grande apertura culturale ma anche una forma di chiusura legata ad antichi retaggi patriarcali e di sottomissione della donna. Goliarda è riuscita a cavarsela grazie ai genitori che non hanno mai voluto che ricevesse una educazione fascista. Sente, comunque, la necessità di riversare questa visione ambivalente e contraddittoria nel personaggio di Modesta che, per niente coerente al suo nome, ha una grande stima di se stessa (come dovrebbe averla chiunque), e per non subire le stesse sottomissioni della madre pensa che deve liberarsi della figura della donna che le ha dato la vita. Deve liberarsi di tutte le figure femminili che non si ribellano alla situazione di schiavitù fisica e mentale. L’unico modo che ha per liberarsene, in una situazione di costrizione claustrofobica, è ucciderle. Uccide la madre, una madre che obbedisce, cieca e muta, che usa la parola soltanto per sbraitare contro i figli. Uccide la sorella afflitta da sindrome di Down e quindi impotente. Uccide il padre padrone che la violenta. Basta un incendio a fare una strage di cui non viene riconosciuta colpevole. Per lei, ancora bambina, si aprono le porte di un convento. La madre superiora prende a cuore il caso di Modesta e si occupa della sua istruzione. Modesta può così conoscere il valore della parola e della cultura, e dei misteri che si celano dietro la vita di clausura: verginità violate, relazioni segrete, figli illegittimi e figli riconosciuti. La madre superiora che le ha fatto conoscere il valore della parola, le impedisce poi di utilizzarla nel mondo dei maschi, perché assoggettata, come tutte le altre donne, al loro comando. Anche la suora rappresenta quell’archetipo femminile di cui si deve disfare. Iniziano presto i contrasti con lei finché non è costretta a eliminarla. L’uccisione della donna, ancora una volta non imputabile a Modesta, le permette di entrare nelle grazie della nobiliare famiglia di lei: il trampolino di lancio per il mondo. Da lì inizia la sua scalata senza fine. Tra relazioni omosessuali e matrimoni solo per interesse. Inganni per impossessarsi dei testamenti e altri omicidi che non le vengono addebitati. Una donna libera deve avere disponibilità economica ma non dipendere dal suo conto in banca. Può costruirsi una famiglia anche senza legami di sangue. Può scegliere i figli non suoi dopo vari aborti voluti. Aderisce alle ideologie comuniste proprio quando si fa più aspra la lotta alle forze fasciste. Per poi, in seguito, abbandonarla quando non risponde più alle sue ideologie. Da Adulta, Modesta, manterrà il suo carattere, anche in prigione. Come da giovane non subiva il ricatto della vecchiaia, da vecchia non subisce il ricatto dei giovani. Nessun ostacolo morale può fermarla. Invece gli ostacoli morali, per tanto tempo, hanno bloccato la pubblicazione del libro. “L’arte della gioia” dopo più di dieci anni di stesura è già pronto per la pubblicazione nel 1976. Goliarda Sapienza, per questo suo romanzo epico e picaresco, che doveva essere il “Romanzo”, sceglie di raccontare le vicende storiche che coinvolgono la Sicilia dal 1900, anno di nascita di Modesta, agli anni settanta. Quasi tutto il Novecento, guerre comprese… e sceglie di ambientarlo in Sicilia come se Modesta stessa fosse una rappresentazione della sua terra oltre che di se stessa. Si inserisce nel filone della letteratura sperimentale degli anni sessanta e settanta e per questo motivo adotta uno stile che si basa sulla prima persona ma che, in molte occasioni si sdoppia, passando alla terza persona, producendo svariati momenti ripetitivi, come se avesse bisogno di uno sguardo esterno dopo quello interno. Sperimentale, quindi, forse troppo, anche per i gusti di quel periodo. Risulta femminista anche prima del femminismo, troppo femminista anche dopo il femminismo. Risulta duro da digerire per la componente democristiana del Paese ancora pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Risulta troppo arduo concettualmente per quella parte comunista che stava guadagnando consensi nell’elettorato democristiano ed era meglio non rompere gli equilibri di un Paese comunque cattolico. Insomma non ci sono editori disposti a pubblicarlo. Goliarda muore nel 1996, dopo aver vissuto una vita da donna sempre libera, totalmente anarchica come il suo libro. Dopo aver conosciuto il carcere e anche il successo con i suoi lavori precedenti come nel caso del romanzo “Le certezze del dubbio” del 1987. Un’opera autobiografica iniziata tanti anni prima con “Lettera aperta” (1967) e continuata con “Il filo di mezzogiorno” e “L’università di Rebibbia” (1983) sulla sua esperienza tra le patrie galere. Muore a Gaeta, con una vita piena, ma senza aver visto pubblicare il suo primo romanzo non autobiografico e forse con tante, troppe, cose ancora da capire sulla sua terra, la Sicilia. Soltanto nel 1998, per omaggiare la moglie, Angelo Maria Pellegrino lo fa pubblicare a sue spese per Stampa Alternativa… e soltanto dopo il successo di critica e pubblico all’estero, viene ripubblicato in Italia.




domenica 18 febbraio 2024

Al ballo mascherato con Fabrizio De André

Per la rubrica: PHARMASONG

Quando Fabrizio De André cita l'aspirina



La terapia di mio padre prevedeva che assumesse una cardioaspirina al giorno per rendere più fluido il sangue. Spesso, però, dimenticava di andarla a ritirare in farmacia, così prendeva un'aspirina, che a casa non mancava mai, e la divideva in quattro con un coltello ben affilato. Un'operazione meticolosa che mi affascinava non poco, come mi affascinava tutta quella effervescenza che si sviluppava una volta immerso il quarto di compressa nell'acqua del bicchiere. Da bambino sarei rimasto ore a osservarlo. Non sapevo bene a cosa servisse, ma vederla sciogliere, rilasciando tutte quelle bollicine, dava la sensazione alla mia ingenua illusione che potesse guarire ogni malanno. Anche l'irrecuperabile cuore malandato di mio padre.

Da adulto, studente di Farmacia, ho avuto modo di appurare che l'aspirina, o acido acetilsalicilico, è in effetti un potente antinfiammatorio, appartenente alla classe dei FANS. 

Un derivato di sintesi, a partire da un rimedio naturale come la salicilina, realizzato presso i laboratori della Bayer che ne ha registrato i diritti alla fine dell'Ottocento. Ma i benefici della corteccia di salice erano conosciuti fin dai tempi più antichi. Lo sapevano estrarre i sumeri, i babilonesi, i greci, finanche gli indigeni  americani. 

L'acido acetilsalicilico ha applicazione in svariati campi come antinfiammatorio, antidolorifico, antipiretico, in dosi molto più basse come fluidificante del sangue e in tempi più recenti lo stanno sperimentando in alcune forme di tumori. 

Rimane un ottimo rimedio contro: mal di testa, mal di denti, mal di gola, febbre, raffreddore, nevralgie varie.

Attenzione, però, perché l'utilizzo prolungato o senza controllo può causare lesioni gastriche e per chi è allergico a questa sostanza può provocare broncospasmo. 

Mi ha sempre fatto un certo effetto sentirla citare da uno dei miei autori preferiti. Nel 1973 Fabrizio De André la inserisce nel testo di Al Ballo Mascherato, brano che appartiene all'album capolavoro "Storia di un impiegato". L’impiegato bombarolo che sogna di far saltare tutto in aria.

Uno di questi sogni è proprio quello del ballo mascherato. Un testo incredibile in cui viene fuori tutta la capacità critica e sintetica del grande Faber. Con versi profetici mette in discussione tutti i simboli del Potere e le Istituzioni riconosciute. E strappa ogni sembianza di maschera.

La Chiesa, che predica sempre bene e razzola sempre malissimo, la Cultura italiana così statica e asfittica, la stessa idea ipocrita di Libertà in una democrazia che di democratico ha solo il nome, il falso mito della celebrità, e, soprattutto, la Famiglia. Non sono mai riuscito ad accettare il fatto che vedesse in maniera così diversa da me l'aspirina; per De André simbolo di aspettative troppo pressanti e proiezioni genitoriali insormontabili. Per me elemento di curiosità infantile e oggetto di studio da adulto. Ma a Faber si perdona tutto. 

E poi con una bomba, una bomba, in mano al bombarolo, si sistema ogni cosa. Chi non ha desiderato almeno una volta che il bombarolo facesse davvero il suo dovere... 


Al ballo mascherato 

Cristo drogato da troppe sconfitte
Cede alla complicità
Di Nobel che gli espone la praticità
Di un’eventuale premio della bontà.
Maria ignorata da un Edipo ormai scaltro
Mima una sua nostalgia di natività,
Io con la mia bomba porto la novità,
La bomba che debutta in società,
Al ballo mascherato della celebrità.

Dante alla porta di Paolo e Francesca
Spia chi fa meglio di lui:
Lì dietro si racconta un amore normale
Ma lui saprà poi renderlo tanto geniale.
E il viaggio all’inferno ora fallo da solo
Con l’ultima invidia lasciata là sotto un lenzuolo,
Sorpresa sulla porta d’una felicità
La bomba ha risparmiato la normalità,
Al ballo mascherato della celebrità.

La bomba non ha una natura gentile
Ma spinta da imparzialità
Sconvolge l’improbabile intimità
Di un’apparente statua della Pietà.
Grimilde di Manhattan, statua della libertà,
Adesso non ha più rivali la tua vanità
E il gioco dello specchio non si ripeterà
“Sono più bella io o la statua della Pietà”
Dopo il ballo mascherato del celebrità.

Nelson strappato al suo carnevale
Rincorre la sua identità
E cerca la sua maschera, l’orgoglio, lo stile,
Impegnati sempre a vincere e mai a morire.
Poi dalla feluca ormai a brandelli
Tenta di estrarre il coniglio della sua Trafalgar
E nella sua agonia, sparsa di qua, di là,
Implora una Sant’Elena anche in comproprietà,
Il ballo mascherato della celebrità.

Mio padre pretende aspirina ed affetto
E inciampa nella sua autorità,
Affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo
Ma lui esplode dopo, prima il suo decoro.
Mia madre si approva in frantumi di specchio,
Dovrebbe accettare la bomba con serenità,
Il martirio è il suo mestiere, la sua vanità,
Ma ora accetta di morire soltanto a metà
La sua parte ancora viva le fa tanta pietà,
Al ballo mascherato della celebrità.

Qualcuno ha lasciato la luna nel bagno
Accesa soltanto a metà
Quel poco che mi basta per contare i caduti,
Stupirmi della loro fragilità,
E adesso puoi togliermi i piedi dal collo
Amico che m’hai insegnato il “come si fa”
Se no ti porto indietro di qualche minuto
Ti metto a conversare, ti ci metto seduto
Tra Nelson e la statua della Pietà,
Al ballo mascherato della celebrità.



domenica 11 febbraio 2024

Non sono poeta da salotto

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali

Chiacchierata con Ilaria Giovinazzo

Nata a Roma nel 1979. Laureata in Lettere con una tesi in Storia delle Religioni. Arteterapeuta plastico figurativa e docente di Lettere e Storia dell’arte nelle scuole superiori.

Ha pubblicato i seguenti romanzi “Anime perdute (Effedue, 2001), “Non posso lasciarti andar via” (Prospettiva, 2005), “Donne del destino” (Besa, 2007) e le raccolte poetiche “Come un fiore di loto” (Ensemble, 2020), “La simmetria dei corpi" con la prefazione della poetessa siriana Maram Al Masri (Ensemble, 2021), “La religione della bellezza” (PeQuod, 2023). Nel 2022 pubblica anche libro illustrato per bambini “Life. 10 cose importanti” (Fuorilinea) e nel 2023 cura la plaquette, edita da Ensemble, dell'evento "Sinfonie Poetiche. Concerto per corde e fiati" da lei ideato e diretto. Ha ricevuto premi, segnalazioni e menzioni d’onore a diversi concorsi letterari, tra cui il Premio Internazionale di poesia Ossi di seppia e il Premio Lorenzo Montano. Vive e lavora tra le colline sabine.



Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Credo che scrivere poesie sia una necessità umana. Alcuni possono non avere gli strumenti per farlo in modo qualitativamente “alto", altri non conoscere affatto le modalità con cui esprimersi poeticamente ma se penso ai miei primi tentativi poetici adolescenziali mi rendo conto di come fosse naturale per me scrivere in quel modo quelle cose lì. Ovviamente a scuola studiavamo i poeti e le poesie della tradizione e un imprinting poetico ci era stato comunque dato. Nel mio caso però, sentendolo un linguaggio vicino alla mia sensibilità andavo poi a cercare avidamente altro. Alle medie leggevo la Dickinson, Prévert, Ungaretti. Durante i primi anni delle superiori scoprii Neruda, Whitman, Shelley e tanti altri.


Che rapporto hai con la poesia? 

È il mio linguaggio dell'anima. Lo uso quando devo esprimere qualcosa di indicibile in altri modi. È il mio linguaggio magico. Riguardo al leggere poesia devo ammettere di andare a sentore, scelgo le mie letture per affinità non perché vanno lette. Molta poesia italiana non l'ho mai affrontata perché lontana dalla mia visione della vita e della letteratura. Leggo molta poesia straniera, in cui la dimensione spirituale e simbolica ancora persistono.


Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?


Più di prima. Oggi dobbiamo fare ancora più attenzione alle parole che usiamo e di cui abusiamo.

Il fatto che si scriva di più non significa che si scriva meglio di prima. Si scrive troppo e male spesso. La quantità di testi di medio livello, se non di pessimo, e la quantità di informazioni circolanti non vanno di pari passo con un'evoluzione in termini di qualità e valore di quei testi.

Molta informazione è superficiale e di cattiva qualità. C'è un uso propagandistico del linguaggio e lo vediamo in questo periodo, in cui i media utilizzano alcune parole invece di altre per ottenere una polarizzazione dell'opinione pubblica. 

La poesia riprende la parola e la riporta a darle significato, la riporta al ruolo sacro che aveva un tempo. In India tutto l’Universo ebbe ìnizio con la una sillaba sacra: Om.


Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?


L'AI non ha cuore, emozioni, genialità. 


Qual è la tua opera (o le tue opere) in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 


Per la narrativa, fino ad ora, sicuramente un mio romanzo del 2007 “Donne del destino". È un romanzo composto da tre storie ma tutte ruotano intorno al ruolo della donna, dell'amore come strumento di crescita spirituale. È un libro in cui ho cercato di condensare le mie idee ma anche le mie conoscenze in ambito storico religioso. E poi è un libro con una forte impronta femminista, se vogliamo usare questo termine, per dire che riscatta il ruolo di alcune donne del passato.

In poesia forse le mie ultime due raccolte: “La simmetria dei corpi" e “La religione della bellezza".


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 


Sì, assolutamente ma deve andare incontro ai giovani, essere comprensibile per loro, affascinante, fruibile, vicina al loro sentire e al loro mondo. Se pensiamo al fenomeno dei poeti della Beat Generation vediamo come la poesia in quel caso sia diventata strumento di lotta e rivendicazione e usata e creata dai giovani che volevano contestare il vecchio sistema. Se la poesia non parla la loro lingua difficilmente potrà comunicargli qualcosa. In Italia siamo ancora legati a una tradizione poetica che fatichiamo a superare, a scardinare. Si tratta di riappropriarci di nuove formule, nuove parole, stracciare il canone e crearne di nuovi o non crearne affatto. È terribile vedere come la poesia italiana sia chiusa in forme strutturali e linguistiche ormai tutte uguali, legate spesso ancora al tardo Novecento. La poesia contemporanea italiana è ferma agli anni Sessanta e non guarda fuori dai propri confini. Ci sono poeti che non considerano poesia lo slam, la poesia performativa e schifano letteralmente alcune correnti poetiche. Quando i poeti usciranno dai salotti per andare nelle piazze, quando dalle aule universitarie scenderanno nei locali e nei pub, quando tenderanno la mano ai ragazzi per trascinarli con sé, allora la poesia potrà tornare a comunicare ai giovani.







sabato 3 febbraio 2024

Cab Colloway: The Hi De Ho Man

 



Prendi una chitarra, anche malandata, anche con due corde soltanto, poi prendi qualsiasi cosa da percuotere, un bidone, una scatola di cartone, una pentola di latta, la cassa stessa della chitarra. Inizia a battere un ritmo che conosci, primitivo, tribale, che appartiene alle tue radici di schiavo, sofferente per aver perso la libertà. Incomincia a ricamare con le dita sulle corde una melodia piacevole e complessa. Intona con la voce la stessa melodia, ma carica di dolore perché strappata dall’anima. Segui il filo della melodia, segui il ritmo, innalza il canto, questo è il Blues. Poi perdi il filo, rompi il ritmo, spezzetta il lamento ed inizia ad improvvisare, ma ti prego non smettere, fa che non finisca mai, fammi dondolare, fammi ballare, fammi sballare, fammi andare oltre con la mente; improvvisa, inventa più che puoi, questo è il Rag, questo è il Jazz. E se finisci le parole, se non te le ricordi, usane altre, creane di nuove, anche se non esistono non ha importanza, esistono nelle orecchie, nel cuore. Se non bastano gli strumenti falli con la voce, imitali, sputa,  singhiozza, fai dei gargarismi per sostituirli, ma ti prego non ti fermare, fammi dimenticare, fammi sognare, materializza fonemi, ma fammi godere, questo è lo Scat. Un modo per arrivare con la voce dove non si può arrivare con gli strumenti. Non si conoscono le origini di tale modalità espressiva; si attribuiscono molto generosamente all’onnivora immensità di Louis Armstrong ma, è facile attribuire l’origine di ogni genere e stile a King Louis, visto che le sue di origini sono perse nel tempo e ha attraversato, con incommensurabile talento, tutte le ere del Jazz e del Blues. Quel che si sa di certo è che proprio Louis Armstrong ha insegnato l’arte di improvvisare con la voce, di emettere suoni con la gola o con il naso o ancora con il palato, ad un giovane che voleva fare il musicista a tutti i costi, sfuggendo al volere dei genitori che lo volevano avvocato. Quel giovane aitante, che sapeva suonare la batteria,  che aveva una passione per il ritmo e ballava come un serpente elettrizzato era Cab Colloway. Durante gli anni del proibizionismo in America non è facile trovare ingaggi per i giovani afroamericani ma il talento di Cab non tarda ad emergere. Dopo un periodo di collaborazioni, come cantante e come percussionista, con i più importanti jazzmen del periodo, gli viene affidata la prima direzione di un’orchestra. Oltre i teatri, però, neanche i posti dove si possono esibire le orchestre sono tanti, ma i gangster, per riciclare il denaro guadagnato durante gli anni del proibizionismo, rilevano i locali dove si può fare chiasso in barba alle regole e alle leggi. Così nel cuore di Harlem, a New York, prende vita il Cotton Club,  uno di quei posti dove si suona, si balla, si beve, si ha accesso alle sostanze e soprattutto all’alcol, senza troppi problemi, fino a tarda notte e le ballerine vestite soltanto di piume intrattengono gli spettatori. Per anni l’orchestra fissa del Cotton Club è stata quella di Duke Ellington, ma proprio per sostituire l’orchestra del duca, nel 1929, subentra quella di Cab Colloway che non fa rimpiangere la prima. Il successo è esplosivo fin dalla prima apparizione, conquistandosi immediatamente il favore delle radio, partendo per tournée sempre con teatri pieni. Il modo di Cab Colloway di intrattenere il pubblico è entusiasmante. Ammalia con il suo stile unico di ballare, incanta con la sua arte canora e con la sua straordinaria capacità di improvvisare con la voce attraverso lo Scat; trascina il pubblico, lo invita a partecipare seguendo i suoi assoli che, in modo del tutto pilotato, man mano che il brano va avanti e il pubblico si scalda, diventano sempre più complessi e elaborati, finché il pubblico non riesce più a seguirlo e scoppia in una risata liberatoria. Sono tutti elementi che confluiscono nel brano Minnie The Moocher del 1931. Un brano nato su uno standard degli anni venti, ma reso più coinvolgente, in cui ci sono riferimenti velati (ma neanche troppo) all’uso di sostanze e che esalta le qualità di Cab; la sua tecnica d’improvvisazione verrà semplicemente chiamata, in maniera onomatopeica, Hi De Ho (che suona, ai di ai di ai di oooo). Un brano storico, e ad ascoltarlo adesso mantiene intatto il suo grado di irresistibilità. Sempre negli stessi anni registra brani come I’ve got the World on a String, o Saint James Infirmary. Nella sua orchestra suoneranno musicisti del calibro di Dizzy Gillespie o Chu Berry.  Negli anni trenta,  questa alternanza al Cotton Club con l’orchestra di Duke Ellington, gli permette di attraversare senza grandi problemi il periodo economicamente più drammatico per gli Stati Uniti. Ci penserà da solo, in seguito, grazie al fiuto per investimenti poco affidabili e l’amore per il gioco d’azzardo, a rovinarsi finanziariamente. Eppure dopo aver sciolto l’orchestra, non prima di aver registrato brani come Blues in the Night del 1942, o The Honeydripper del 1946, la sua carriera è proseguita a gonfie vele ancora per un lungo periodo. Il suo talento ha affascinato il cinema, il musical di Broadway con le opere di Garswin, la televisione, mentre è impegnato a tenere concerti in tutto il mondo. Storica è la sua apparizione nel film di Jim Jarmusch Blues Brothers del 1980 in cui interpreta se stesso ed esegue ancora una volta in maniera impeccabile Minnie The Moocher, e nonostante i suoi settantatré anni si muove con l’eleganza dei bei tempi. Tra collaborazioni eccellenti e onorificenze che arrivano in quantità, è attivo fino alla fine della sua lunga vita. Ogni volta che si sente un’eco di una voce che imbecca il pubblico, viene in mente il suo sorriso da Hi De Ho Man e viene voglia di cantare, di ballare e di ridere insieme a lui.