domenica 28 maggio 2023

James P. Johnson e lo stride style



Vivere appena fuori New York significa essere investiti da tutto il materiale sonoro che proviene dalla Metropoli, ma si è comunque esposti alle influenze canore che arrivano dai luoghi di lavoro duro, dove, per superare la fatica, si canta.

James Price Johnson, essendo cresciuto nel New Jersey, ha sviluppato un amore profondo sia per il ragtime di stampo jazzistico che proveniva dai locali fumosi di Harlem, sia per i lamenti e i cori dei cantieri, o dei campi, che in genere erano espressioni del Blues.

Sin da bambino mostra una predilezione straordinaria per il pianoforte tanto da riuscire a suonare a orecchio tutte le composizioni che più lo colpiscono, come le incisioni di Scott Joplin.

Si rivela un esecutore instancabile e brano dopo brano, spartito dopo spartito, ben presto riesce a delineare il suo stile unico e inconfondibile.

Con la mano sinistra tiene un ritmo ben preciso, dalle battute metriche fisse simili a quelle del Blues, e con la mano destra esegue scale melodiche improvvisate, estemporanee, spezzettate come quelle del ragtime. Per poi, se occorre, invertire le mani repentinamente senza spostarle dalla tastiera.

Una tecnica personale, elegante, che unisce musicalmente il Blues al Jazz, utilizzando svariati accorgimenti pianistici, che riescono ad intrattenere e al tempo stesso richiedono un ascolto attento, fornendo il materiale tangibile per la nascita di uno stile denominato "Stride", di cui Johnson verrà riconosciuto come uno dei fondatori.

Già prima degli anni venti, grazie alla sua prima incisione che prevede una cover del suo adorato Scott Joplin e un pezzo a suo dire più moderno, Euphonic Sounds, si guadagna l'indipendenza economica e un embrionale celebrità.

Nel decennio successivo è richiesto i tutti i locali più chiassosi dell'East Coast dove con il suo modo di suonare contribuisce a diffondere il Charleston, come si puo apprezzare in una sua memorabile incisione.

Durante delle registrazioni per la Aeolian Hall di New York conosce l'allora giovanissimo George Gershwin. Divertirsi e suonare, suonare e lavorare indefessamente, per lui erano la stessa cosa. Non si stancava mai di aggiungere o togliere dettagli al suo stile, anche per andare incontro agli artisti che accompava.

La splendida artista polivalente Ethel Waters, dichiarò che non avrebbe mai smesso di cantare quando al piano c'era un musicista così sensibile ed elegante come James Price. Un'altra collaborazione fruttuosa sarà quella con la regina delle voci Blues Bessie Smith. Senza dimenticare gli accompagnamenti per Ida Cox.

La sua passione era la musica e non smetteva mai di suonare, neanche un primo ictus riuscirà a fermarlo, suonerà ancora per più di dieci anni. Si dovrà arrendere soltanto ad un secondo, più potente e paralizzante, ictus che lo condurrà al decesso nel giro di quattro anni, nel novembre del 1955.

Negli anni, la popolarità crescente di pianisti dalla tecnica raffinata come Count Basie, Duke Ellington, Art Tatum, Fats Waller, ha spesso oscurato l'importanza artistica di James Price Johnson, che invece, grazie al suo stile pioneristico, sondando lande musicali mai esplorate prima, ha aperto la strada ai virtuosi del jazz che lo hanno seguito. Il talento cristallino che ha vibrato tra le sue dita merita ben altra celebrazione.




domenica 21 maggio 2023

Will Shakespeare, la tua volontà

Intervista con l'autrice, Cinzia Pagliara 




Ho il piacere di presentare un prezioso libro uscito per le Edizioni Haiku “Will Shakespeare, la tua volontà” di Cinzia Pagliara. Uno scritto, intenso, sintetico, in cui l’autrice grazie a un flusso di coscienza, a un monologo interiore, che si presta all’intonazione polifonica, alla traduzione teatrale ma, anche, alla poesia, racconta di se stessa e del suo passato, attraverso le parole del bardo inglese William Shakespeare. L’intero libro ha un andamento poetico, infatti, e non poteva essere altrimenti, vista l’immedesimazione totale con personaggi del dramma shakespeariano come Ofelia, Giulietta, Desdemona ed Emilia. Un universo di parole che delinea la vita dell’autrice in un intreccio lessicale con la vita delle protagoniste dei drammi, gettando nuova luce sulla loro psicologia di personaggi/persone. Attraverso il suo passato si ricostruisce anche quello dell’universo femminile ideato dal genio del misterioso scrittore inglese. Una vita complessa nella sua semplicità, fatta di sismi emozionali, come quella di un’eroina tragica che, grazie al potere terapeutico delle parole, può anche intravedere il miraggio della guarigione. Ad impreziosire il volumetto c’è la traduzione, sempre curata da Cinzia, di una bellissima poesia “Shall I Die”  di cui non si conosce l’autore ma che gli ultimi studi vogliono che sia attribuita al nostro Shakespeare. Ho avuto modo di incontrare Cinzia Pagliara per farmi raccontare qualcosa in più del suo libro e per addentrarci nei particolari più intimi della sua scrittura. 

Ciao Cinzia, il tuo testo è una dichiarazione d’amore incondizionato per William Shakespeare e, proprio da lui vorrei partire per farti la prima domanda. Di lui si sa tutto e non si sa niente, sono infinite le teorie intorno alla sua figura, come è sterminata la sua letteratura. C’è un passaggio del libro in cui parli del momento in cui è scattato l’amore verso il suo modo di scrivere e mi piacerebbe che ci raccontassi qualcosa di più. Ti ricordi il momento preciso in cui ti sei invaghita di lui? E perché proprio lui, visto che tu sei nata a Roma ma sei siciliana d’adozione, e quindi avresti potuto imbatterti prima in Giovanni Verga, con la sua Capinera, e soprattutto in Luigi Pirandello? 

Ricordo perfettamente il mio "incontro" con Shakespeare: avevo quattordici anni e mi innamorai di Amleto e della sua risposta "parole, parole, parole" alla domanda di Polonio. Parole: quello che andavo cercando. Pirandello è arrivato dopo, al liceo. Ma William è rimasto il mio amore. Certo, ho letto e leggo tanto, e mi piacciono tanti scrittori, con un debole per chi ha sempre un quid di poesia, nell'uso degli aggettivi, soprattutto. Ho un debole per gli aggettivi. Ne userei in quantità industriale… 

Anche io amo Shakespeare, o quello che penso sia lui, per la sua capacità di strutturare in maniera estremamente elegante frasi, in cui riesce a congiungere espressioni forbite e aggettivi, appunto, dal significato opposto. Adoro, infatti, il personaggio di Mercuzio e non ti nascondo che sono affascinato da Iago e dalla sua sottilissima malvagità. Tu fai proprio un elogio della parola e ti avvicini sensibilmente alla qualità espressiva di Shakespeare. Un tessuto epidermico per il corpo e una trama di sinapsi neuronali per la mente... Cos’è per te la parola?

La parola è la ricchezza maggiore che si possa avere. È un'arma che può uccidere, e una medicina che può salvare. È strabiliante, portentosa, implacabile, paziente.. (eccola, la mia dipendenza dagli aggettivi). Preziosa. E ormai in via di estinzione, perché si scrive (e si parla) secondo schemi. Ma la parola è libera, altrimenti, poco alla volta, perde il suo senso. Credo che oggi si sentano molto tristi, le parole. 

Ti riferisci forse a questa modalità espressiva odierna in un universo di comunicazione globale e multimediale che può comunicare tutto e invece non comunica niente?

Sì. Un lessico molto povero, sempre più ristretto, ripetitivo. Sono sparite le sfumature. Tutto è omologato, le storie, i personaggi, i dialoghi. Mancano quelli che io chiamo i "Benedetti"= detti bene. Quelli che fanno scordare il tempo. Quelli che fanno sorridere. In inglese si dice "witty". 

Trovo che sia… “witty”… la tua immedesimazione con i personaggi femminili di cui riesci a tracciare un profilo psicologico parallelo al tuo, come se avessero anche loro un passato, un presente e un futuro. Parli della follia di Ofelia, della purezza seduttiva di Giulietta; scopri personaggi poco studiati come Emilia e soprattutto mi piacerebbe che ti soffermassi un po’ di più su Desdemona per parlare dell’affermazione dell’identità femminile e del femminicidio in questo periodo storico… a te la parola…

I personaggi femminili sono attuali eppure atemporali, mi piacciono per questo. Vivono ancora oggi, ma sono "altro" dalla normalità. Giulietta con la sua seduzione mentale, Ofelia con la sua purezza che lascia senza fiato, "usata" da tutti gli uomini della sua vita  per i loro contorti interessi eppure incapace di "non amare". Chiede amore nella sua follia: "ecco del rosmarino, questo per il ricordo.." e le sue parole non mi sembrano folli. Sono amore puro. Desdemona è la prima vittima di femminicidio che io ricordi, moderna anche lei, nel suo accettare un amore patologico e giustificando il "possesso" che non è mai amore. Come oggi, come ogni giorno nella incessante guerra dei femminicidi. In questo la donna non è riuscita ad emanciparsi, imbrigliata in sensi di colpa e del dovere che la portano sempre sul bordo del baratro. Sono vive, le donne di Shakespeare. Dopo cinquecento anni. Straordinario. Emilia è stata una "scoperta", è la donna che si emancipa dal suo ruolo di sottomissione e davanti al cadavere di Desdemona pronuncia parole di accusa e di riscatto, consapevole di consegnarsi alle mani dell'assassino, il più perfido personaggio che Will abbia creato: Iago. Mi sembra di sentirla urlare ancora oggi "ni una mas", nelle piazze affollate e colorate di rosso delle manifestazioni.

Ecco Iago che torna… lui è molto bravo con le parole…  che sono il marchio di fabbrica anche del nostro poeta… tu, ad esempio, ti sei innamorata del termine “Deliquio”, e soprattutto del poliedrico “Will” nelle sue varie sfumature. Perché, per un lungo periodo della tua vita, hai dovuto affrontare dei problemi seri di salute, come la depressione e l’epilessia del tuo figlio più piccolo ma hai trovato anche un valore terapeutico sempre nelle parole. Ti va di dirci qualcosa in più? 

Io so che le parole sono "curandere" come dice la Pinkola Estes in "Donne che corrono con i lupi". Scavano, portano in superficie, e poi ricoprono, nascondono, proteggono. Qualche anno fa sono stata male, non vedevo più i colori, non vedevo un poi. Capita. Per i motivi più vari. È come cadere e non sapere più come rialzarsi. È allora che, invece che scrivere solo per me, ho deciso di raccontare la mia fragilità, il mio senso di inadeguatezza e di colpa, il mio tempo-non-tempo-fuori dal tempo. E Shakespeare mi ha regalato il termine Deliquio, che è pura poesia. Anche una malattia può essere poesia. Non è stato facile, scrivevo e stavo male, rileggevo piangendo. Ma le parole curano, davvero. E sono tornati i colori, ed è tornato il "poi".

Vorrei che parlassi ai lettori di questa meravigliosa poesia che hai tradotto… 

"Shall I die?" è una poesia che parla di amore e di bellezza. Niente di nuovo, l'amore è il tema più ricorrente in poesia: il desiderio, il piacere, l'attesa. Mi ha attratto per questo: per parlare di amore, cercando rime e ritmi, cosa insolita per me. Non posso né voglio provare che questo apocrifo sia di Shakespeare, mi piace crederlo: si conclude con versi  in cui si trova la parola "will" , il legame tra me è William. Credere nell'amore, dargli una possibilità, questo è il senso che ho letto. E l'ho tradotto in versi. Io amo l'amore, quello che scavalca i muri e non teme ferite.

Sono felice di avere avuto la possibilità d leggere “Will Shakespeare, la tua volontà”, e di poterne parlare con te. In ultimo vorrei chiederti cosa speri che il tuo libro riesca a  comunicare ai tuoi lettori.... Che percorso ti piacerebbe che facesse? 

Vorrei che il lettore (ri)scoprisse il valore emozionale delle parole, e il gusto per le sfumature impercettibili che tutte le vite hanno, e che passano inosservate, confuse nella massificazione generale. Vorrei riuscire ad emozionare, come Will ha fatto con me. Ma soprattutto vorrei che il lettore trovasse will, volontà ( questo il senso del titolo), per non lasciarsi andare mai, per continuare a cercare come Giulietta, e come me, parole che abbiano un "poi". Un sogno? Arrivare nelle scuole: come parola, e come verso. Io e William insieme: what else?

Grazie Cinzia per questa intensa chiacchierata. 

Grazie a te Gabriele… è stato molto bello e stimolante rispondere alle tue domande. 





domenica 14 maggio 2023

Lucio Piccolo: Gioco a nascondere (1960)

 


A volte si deve guardare il mondo da una certa distanza per poter vedere meglio le sue dinamiche, la sua grandezza, le sue trasformazioni; per comprenderne meglio la natura, irraggiungibile, crudele e materna, lussureggiante. A volte bisogna rimanerne fuori per entrarci dentro e andare più a fondo. Coltivando un mondo interiore che orbita intorno al mondo reale per interagire solo a livelli aerei di stratosfera materica. Proprio come predilige operare Lucio Piccolo, da osservatore esterno che, ogni tanto viene raggiunto dalle onde un po’ più lunghe della vita reale. Forse perché la “realtà” reale ha già riservato per lui una gran fetta di dolore. Ha visto il padre giocarsi a carte il patrimonio di famiglia, i titoli nobiliari, i possedimenti palermitani, i luoghi legati all’infanzia di Lucio; poi si è giocato la famiglia stessa, scappando con una ballerina d’avanspettacolo e morendo in giovane età, lasciando i tre figli e la moglie, Donna Teresa Tasca Filangeri di Cutò, nella necessità di ricostruire tutto daccapo lontano da Palermo. L’abbandono del padre Giuseppe Piccolo di Calanovella, li costringe all’esilio dorato della villetta di Capo D’Orlando, a strapiombo sul mare, circondato da un verde rigoglioso ma lontana dal paese, lontano dal Capoluogo siciliano, lontana dal mondo. Nel forzato buen retiro i tre fratelli Piccolo hanno creato un loro mondo fantastico. Il fratello maggiore Casimiro, appassionato di magia e spiritismo, predilige vivere di notte, per dipingere sul momento le presenze manifestantesi al suo richiamo. La sorella Agata Giovanna indirizza le sue passioni verso la botanica, facendo provenire specie rare da ogni parte del pianeta e donando quell’aspetto verdeggiante esplosivo al giardino. Lucio, il più piccolo, sviluppa un personale sentimento per le Lettere; si avventura nella traduzione di poeti suoi contemporanei, si perde nella ricerca e nella scoperta di autori per lo più sconosciuti. Come un segugio dal fiuto raffinato scova la poesia dove è più improbabile che si nasconda: tra i trattati scientifici e gli atlanti geografici, o le guide turistiche di una volta. Poco più che maggiorenne intrattiene una corrispondenza epistolare con il Premio Nobel irlandese William Butler Yeats, in cui trattano i temi a lui più cari, di letteratura, filosofia ed esoterismo. Tra di loro parlano in inglese o forse in latino ma sono innumerevoli le lingue in cui potrebbero parlare. In questo ambiente estremamente chiuso, estremamente aperto alle proposte culturali provenienti dall’estero, in questa segregazione più o meno volontaria, prende forma il linguaggio di Lucio Piccolo. Parte dalla musica, perché sa anche leggerla e comporla, e sa impartire il giusto ritmo ai suoi versi, con dolci giri di boa, o brusche spezzature quando serve. Utilizza parole ricercate, con estrema cura per l’eleganza e attenzione per i termini dimenticati, desueti, con una forte componente sonora. Arricchisce le sue strofe di simboli, di una simbologia ermetica, evidente soltanto a lui stesso, accostando forme anche contrarie tra di loro per creare effetti paradosso. Il suo è uno stile barocco, arzigogolato e visionario, che non prevede l’aspetto terreno o materiale dell’argomento che sta trattando, così non c’è traccia di Sicilia o altre concretezze nei suoi scritti se non nella scelta tecnica; nel suo modo di comporre, come una partitura, come un’architettura che prevede alla perfezione il gioco di geometrie tra luce e ombre, proiettandosi verso tematiche universali. “Se noi siamo figure di specchio che un soffio conduce/senza spessore né suono/pure il mondo dintorno/non è fermo ma scorrente parete/dipinta, ingannevole gioco,/equivoco d’ombre e barbagli,/di forme che chiamano e/negano un senso”. Spesso utilizza il verbo all’infinito, tecnica di montaliana memoria, per impartire più musicalità alla lirica e dare un senso di fluidità perpetua. Proprio Eugenio Montale, dopo aver ricevuto il dattiloscritto di “9 Liriche” stampato con mezzi rudimentali e accompagnato dalla lettera del cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa (ancora prima che venisse pubblicato il suo romanzo “Il Gattopardo”), presenta Lucio Piccolo al convegno poetico di San Pellegrino del 1954. L’impatto è devastante, il poeta siciliano sembra provenire da un’altra epoca, sia per l’abbigliamento che per la cultura, e non può passare di certo inosservato, anche perché non è più un ragazzino, ha già cinquantatré anni ma la sua nobiltà interiore e il suo candore puerile traspaiono da ogni poro, oltre alla sua immensa sete di sapere che gli fanno guadagnare la stima dei più grandi intellettuali del periodo, spianandogli la strada presso la casa editrice Mondadori che pubblica le sue opere senza un ritorno economico. “Canti Barocchi e altre liriche” esce nel 1956. Il formidabile “Gioco a nascondere” nel 1960 e “Plumelia” nel 1967. Lui vive nel suo mondo che non ha tempo e non sa nemmeno cosa vuol dire allinearsi alle correnti artistiche del suo periodo storico; e questa sua distanza lo fa spesso porre ai margini della letteratura contemporanea, anche perché, per un lungo lasso di tempo poi, è totalmente oscurato dal successo del cugino, con un romanzo come “Il Gattopardo” (1958) di cui tanti capitoli sono stati scritti nella villa di Capo D’Orlando e in molti punti presenta forti influenze piccoliane. Gli unici a non dimenticarlo sono gli intellettuali siciliani che iniziano a frequentare Villa Piccolo in maniera assidua. Si susseguono, così, le visite di Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Antonio Pizzuto e ancora Sergio Corazzini e tanti altri, a sradicarlo da un isolamento che con gli anni diviene sempre maggiore, fino al 1969 l’anno della sua dipartita dal mondo terreno, lasciando tante opere che verranno pubblicate postume, a viaggiare sottotraccia tra gli intenditori; uniche a sciogliere la perfetta solitudine di un genio che bastava a se stesso e che conservava la sua nobiltà interiore dopo aver perso quella degli effimeri titoli.



sabato 6 maggio 2023

La motivazione del premio 2022

Come da tradizione, a ridosso della cerimonia del 2023, a distanza di un anno, sono uscite le motivazioni delle premiazioni AlberoAndronico 2022. 
Ed è bellissimo ricevere una recensione per un libro di poesie non ancora pubblicato...