sabato 28 ottobre 2023

Leonardo Sciascia: “La scomparsa di Majorana” (1975)



Da siciliano a siciliano. Quando Leonardo Sciascia decide di dedicare un lavoro al suo conterraneo Ettore Majorana è il 1975 e sono passati trentasette anni dalla scomparsa improvvisa e misteriosa del fisico. La pubblicazione del libro “La scomparsa di Majorana”, non a caso, avviene in quegli anni turbolenti, nel pieno della Guerra Fredda, tra due potenze mondiali come gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica che si minacciano a suon di armi di distruzione di massa. Sciascia prova a riaccendere l’attenzione su un caso mai del tutto chiarito, di cui l’evoluzione è tuttora avvolta nel mistero più fitto. Come successo in altre occasioni, nella vasta produzione dello scrittore siciliano, la struttura del libello è quella dell’inchiesta che, nel crescendo delle ipotesi formulate nel corso dell’indagine, assume la forma del romanzo. Una prosa calda, umana, dalla potente capacità d’immedesimazione, nel tentativo di comprendere al meglio le dinamiche mentali del genio catanese. Sciascia, infatti, non crede nell’ipotesi del suicidio, con cui la polizia nel marzo del 1938 aveva frettolosamente chiuso il caso. Certo, tutto faceva pensare che lo potesse essere, anche e soprattutto, le ultime lettere scritte dallo stesso Ettore Majorana. Prima di far perdere le tracce definitivamente, infatti, il fisico aveva scritto delle missive d’addio inviate all’amico Antonio Carrelli e altre in cui manifestava l’intenzione di rinunciare alla cattedra appena vinta all’università di Napoli, chiedendo umilmente scusa per la decisione presa. Nei giorni successivi invece scrive delle altre missive per smentire quelle precedenti. Fa in tempo a consegnare un plico di documenti ad una sua allieva (plico scomparso anch’esso misteriosamente), a ritirare il passaporto e gli stipendi arretrati non incassati e poi prendere quel fatidico traghetto da Napoli a Palermo. Le ultime testimonianze certificano la sua presenza a Palermo, nel Grande Albergo Sole, per due giorni di riposo; quindi la traccia fondamentale e definitiva: il biglietto di ritorno a Napoli, datato 27 marzo 1938. Il biglietto risulta timbrato ma nessuno lo ha mai visto su quel traghetto. Anche se le testimonianze raccolte negli anni a seguire lo vogliono vagante per Napoli e altre città. Il vero fatto è che di Ettore Majorana da quel giorno non si è saputo più nulla. Volatilizzato. Il suo corpo non è mai stato trovato. Attraverso una meticolosa ricerca tra documenti editi e quelli non conosciuti, spulciando in biblioteche, in archivi pubblici e privati, Sciascia prova a ricostruire la personalità del suo corregionale. Ne viene fuori un carattere schivo, solitario, dedito al lavoro, allo studio, alla scienza. Una mente illuminata, in grado di svolgere complesse operazioni matematiche anche in pochissimo tempo, con il pensiero sempre rivolto alle sue formule, scribacchiate un po’ ovunque, sui tovaglioli al bar, sui pacchetti di sigarette. In grado di sostenere teorie di altissimo livello tecnico con i più grandi scienziati d’Europa. Ettore, infatti, appartiene al gruppo di fervide menti che hanno reinventato la fisica moderna, noto sotto il nome di Ragazzi di via Panisperna, capitanati da Enrico Fermi. Proprio Fermi lo accoglie come un genio nel gruppo. Nel periodo romano, in pieno regime fascista, nella ultra avanzata facoltà di Fisica, Ettore e i suoi colleghi lavorano alle più importanti scoperte scientifiche dell’epoca. A loro si devono la scoperta dei neutrini, della loro massa e dell’antimateria, la scissione nucleare e soprattutto l’equazione che porta il suo nome sui sistemi quantistici aperti. Nel 1933 viene invitato in Germania dal fisico Werner Heisenberg per argomentare sulla teoria nucleare e successivamente si reca in Danimarca per confrontarsi con un altro fisico di fama mondiale come Niels Bohr e i suoi adepti. Al rientro dal viaggio Majorana si chiude in casa e interrompe i rapporti con chiunque, anche con i suoi colleghi romani, accentuando la sua solitudine e misantropia, e dedicandosi esclusivamente allo studio forsennato. Forse qualcosa l’ha sconvolto, di certo in quel periodo si succedono svariati eventi significativi e toccanti per la sua esistenza. Qualche mese dopo muore il padre, infatti, e più tardi un suo nipotino in circostanze misteriose, con il conseguente processo a carico di un suo familiare. Il suo stato di salute si aggrava, con quei problemi all’apparato gastrointestinale sempre più sfibranti. Con il peso dei complessi di una sessualità mai risolta. Di questo  fattore intimo Sciascia non  ha mai fatto menzione, secondo lo scrittore di Racalmuto a sconvolgere maggiormente la sensibilità di Majorana è stato il rendersi conto della direzione che i suoi studi potevano prendere, e cioè quelli che poi, in realtà, hanno preso,  sulla scissione atomica (come si è verificato in seguito a Hiroshima e Nagasaki), e il rendersi conto del pericolo che l’umanità stava correndo. Dopo il suo soggiorno tedesco, e con l’esplosione della tirannia nazista che si riflette su quella fascista italiana, non fa fatica a comprendere che le nazioni si lanciano in una rincorsa affannata verso l’armamento atomico. Anche se il pensiero fisso di Ettore Majorana è la fisica, un’altra ossessione ancora più straziante si fa strada nella sua interiorità e cioè che la fisica va nella direzione sbagliata e che anche l’umanità va nella stessa direzione sbagliata. A confermare le sue visioni sono le evoluzioni delle carriere dei suoi colleghi. Vede Heisenberg costretto a collaborare con la milizia tedesca, e il suo gruppo di colleghi  del periodo romano autoesiliarsi in America, dove viene completata la messa a punto della bomba atomica. Molto presumibilmente si sarà fatta strada nel suo intimo l’idea che era arrivato il momento di scomparire anche per lui. Sono varie e fantasiose le ipotesi attorno alla scomparsa di Majorana. Una vuole che sia stato arruolato dal regime nazista per collaborare al fianco di Heisenberg. Un’altra che si si sia rifatto una vita in Argentina e poi Venezuela. Un’altra ancora che abbia vagato come un barbone farneticando formule per le città siciliane. Secondo Sciascia, il peso delle responsabilità di fisico geniale ma che ha previsto la fine del Pianeta, lo hanno portato a creare una serie di tracce false per depistare dalla sua vera intenzione, cioè quella di rinchiudersi in un convento presso la Certosa di Serra San Bruno in Calabria, tornando con la mente al periodo dei suoi studi dai gesuiti, quando stava bene e non conosceva ancora la bruttezza del mondo. Ha tradito la sua passione, che era la sua vita, per non tradire la Vita.




mercoledì 18 ottobre 2023

Un vero onore


Domani avrò l'onore e il piacere di parlare di poesia a una scolaresca di giovanissimi promettenti poeti. 


sabato 14 ottobre 2023

Frankie Trumbauer: Sax e nuvole



Si può dire che, per Frankie Trumbauer, toccare il cielo non fosse soltanto una metafora; in quanto aviatore aveva la possibilità di planare tra le infinità celesti e constatare di persona che consistenza avessero le nuvole: se fossero soltanto affascinanti fenomeni atmosferici o se fatte invece della stessa materia dei sogni. Se formate dai tappeti di note che lui stesso filava suonando il suo sax, quando si trovava sulla terra e si esibiva davanti alle platee degli umani, o ancora se fatte di pensieri e ricordi... nostalgie.

Quando il governo degli Stati Uniti d'America decise di scendere in campo per partecipare alla seconda guerra mondiale, Frankie, Tram per gli amici e per i suoi tanti ammiratori, venne arruolato dall'areonautica militare per le sue qualità di pilota. Era arrivato il momento di servire il suo Paese senza portarsi dietro il suo sassofono ma una nuvola gigantesca di ricordi. Tra i ricordi più belli ci sono quelli legati alla sua prima infanzia passata in Illinois dove custodiva con fierezza le sue origini Cherokee, e poi i primi strumenti avvicinati per gioco da bambino, invogliato dalla mamma musicista, nella sua nuova casa di St Louis. Non c'erano strumenti che per lui avessero dei segreti, ma la scintilla dell'innamoramento scatta per quello strano tubo metallico a forma di esse che si tiene insieme grazie a mollette ed elastici, il sassofono di famiglia. Le prime esibizioni in pubblico che portano alla collaborazione con i più grandi artisti. L'ebbrezza della grande orchestra come quella di Adrian Rollini o quella di Paul Witherman e gli anni d'oro dello swing, i concerti sfavillanti e le numerosissime registrazioni nelle città più belle degli States, tra New York e Chicago. La soddisfazione di prendere finalmente la direzione della sua piccola formazione. I duetti con uno dei più influenti artisti di quel periodo, il trombettista Bix Beiderbecke, e con il talentuoso chitarrista italoamericano Eddie Lang (http://gabrieleperitore.blogspot.com/2023/09/eddie-lang-litaloamericano-che-ha.html). Uno dei ricordi più emozionanti è legato a quell'anno in particolare, il 1927, anno in cui assiste con il fiato sospeso all'impresa eroica del colonnello Charles Lindbergh che solca i cieli per trasvolare l'oceano in solitaria, senza scalo, da New York a Parigi, in più di trenta ore di volo. Quando Tram riprende il fiato lo riversa tutto nel suo sassofono, così con la sua orchestra e con il suo amico trombettista registrano Trumbology, brano in cui il suo stile raggiunge la massima espressione, con fraseggi che carambolano leggiadri attraverso un lievissimo, impercettibile, vibrato, con quella rarissima accordatura, tra il mi bemolle il si bemolle, tra tenore e contralto, chiamata C melody (accordatura in do) realizzando la sua trasvolata artistica con uno degli assoli di sassofono più studiati della storia del Jazz. Sempre nello stesso anno e sempre con Bix, e con il contributo di Eddie Lang, prendono un classico brano dello swing dei primi anni venti, Singin' The Blues, e ne attutiscono il tempo, trasformandolo in una lenta ballata che diventerà uno standard, recante un senso del tempo emulato da tutti i più grandi jazzisti a seguire. Tra le emozioni più belle non poteva certo dimenticare la sintonia provata con il musicista Hoagy Carmichael, sintonia tale da consentire a Frankie la libertà di suggerirgli di scrivere un pezzo sullo stato della Georgia, stimolo fondamentale che porta alla composizione di Georgia On My Mind, uno dei brani più importanti della storia della musica; anche se Frankie non è il primo a registrarlo, è il primo, però, a volare alto in classifica con il brano entrando nella top ten. In quasi vent'anni di carriera i ricordi da portarsi dietro sono infiniti, ma dal 1940 lascia la musica e si fa inghiottire dalle nuvole che si aprono e lo accolgono come le sue nostalgie.

Al termine della guerra tutto è cambiato, in pochi anni non riconosce più le dinamiche del sistema che ruota intorno alla musica. O forse è cambiato lui, e forse è stata la guerra a cambiarlo... la sua vita ormai è l'aviazione. Ci saranno altre esibizioni e collaborazioni ma senza la giusta motivazione, rimane legato al suo lavoro fino alla fine della sua vita, avvenuta per un improvviso attacco cardiaco nel 1956 a soli cinquantacinque anni. È notoria l'influenza che il suo stile e la sua tecnica abbiano avuto su eccezionali musicisti come Lester Young, Benny Carter o Miles Davis, negl anni in cui suonava o volava, suonava e volava nello stesso tempo. La sua abitudine a stare ad alte quote ha aiutato la storia del Jazz a innalzarlo ancora più su, assegnandogli un posto tra le stelle.








sabato 7 ottobre 2023

Stefano D’Arrigo: "Horcynus Orca" (1975). La lingua del mare

 


La guerra come il mare, il mare come la guerra, ha disseminato di morte e rovine, come fossero miriadi e miriadi di frantumi di gusci di conchiglie, ogni battigia, ogni approdo, ogni porticciolo, ogni molo dove ormeggiano le imbarcazioni dei pescatori; dove ormeggiavano le imbarcazioni dei pescatori, perché adesso non rimane più niente, o forse sì, qualcosa è rimasto: carcasse ammuffite, galleggianti, ammorbanti, desolanti.

Ne ha fatti di viaggi in mare ‘Ndrja Cambria, il protagonista del romanzo “Horcynus Orca”, sulle navi della Reggia Marina durante la guerra, ma il viaggio più importante, quello che lo avvicina a Odisseo, è il viaggio che fa per tornare a casa e che lo consegna alla Morte; un viaggio che dura cinque giorni ma raccontati come se fossero due decenni, in più di mille pagine.

Anche ‘Ndrja, durante il percorso di ritorno, conosce la sua maga, ma non si chiama Circe, il suo nome e Ciccina Circè, forse meno avvenente di quella omerica ma altrettanto seducente. Contrabbandiera in eterna attesa del suo innamorato, appartenente alla comunità delle femminote. l’unica che può aiutare ‘Ndrja ad attraversare lo stretto, sulla sua imbarcazione improvvisata, nonostante il divieto di navigazione delle acque costiere, per poter tornare a Cariddi. L’unica che, nel consumare la sua ricompensa sessuale, con il suono nebuloso dei suoi gemiti, non gli fa sentire il rumore del mare; il rumore che fa parte della vita di ‘Ndrja, fin dalla nascita, ninna nanna melodiosa, fragore di tempesta per la rabbia, e che spesso si sostituisce al respiro, ogni giorno, ogni ora, sempre. Una lingua quella del mare che se conosciuta profondamente parla di vita, parla di morte, che fa parte della vita, e poi di nuovo parla di Vita, appunto. 

La morte, infatti, presenta le sue avvilenti unghiate, sferrandole dagli angoli più inaspettati e sotto vari e inusuali aspetti. Una volta tornato sui luoghi natii ‘Ndrja scoprirà a sue spese che si può morire anche in vita, si può morire dentro, come sono morti i suoi compaesani per la devastazione fisica e morale che la guerra ha creato. I pescatori non possono più fare il loro mestiere; le barche affondate dalle cannonate, le reti strappate dai dispettosi delfini, si fanno uccidere dalla paura del loro stesso mare.

Tra loro regna l’incomunicabilità, la paura, la fame, e l’unico modo per racimolare qualche soldo, quando ogni economia è azzerata, è scendere ad inaccettabili compromessi. 

Proprio dal mare arriva la minaccia più grande, proprio dalla vita arriva la paura paralizzante, sotto le sembianze di una gigantesca orca, orribile Leviatano, inenarrabile mostro, che ricorda la mistica Moby Dick di Melville. L’Orcaferone pattuglia la costa seminando terrore tra i pescatori. Diffonde il suo alone di morte oltre quello della guerra, forse come quello della guerra. Dove c’è la morte, però, c’è anche la vita. Quando l’orca si inabissa, lo spostamento del suo immenso corpo porta a galla i neonati delle anguille, prelibatezze per i palati dei pescatori, unico momento in cui riescono a gustare un cibo di loro gradimento.

Quando, poi, la morte muore, quando l’orca muore, decaudata dai crudeli delfini e finita dalle cannonate degli alleati, è come se fosse il segnale che la morte si sia spostata in altri lidi, è come se fosse arrivato il momento per ‘Ndrja di morire.  

Mare vita, mare morte. ‘Ndrja, corre verso la sua morte interiore, cedendo al compromesso di partecipare ad una regata con un’imbarcazione da lui stesso costruita e trova la morte fisica, a causa di una pallottola vagante espulsa dal fucile di un alleato, che lo colpisce in piena fronte, e rimane lì, cullato dalle onde del suo mare. Sulla sua imbarcazione simile ad un’arca ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.

La morte dell’orca, la morte sull’arca, a compiere il fatidico e inarrestabile ciclo della natura, vita- morte- vita.

Il funambolico narratore di questa monumentale storia è il messinese Stefano D’arrigo, dando alle stampe “Horcynus Orca” nel 1975, dopo quasi vent’anni di stesura. In un periodo storico in cui le correnti letterarie prevalenti erano quelle legate al realismo moraviano, o di ricostruzione storica, come l’esemplare “Il Gattopardo” di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, D’arrigo si inserisce con la sua proposta che unisce queste tecniche stilistiche ad una sperimentazione linguistica che ricorda quelle di Carlo Emilio Gadda o, in qualche modo, anche quelle di James Joice. Per il suo racconto crea una vera e propria lingua che segue il movimento del mare, perché dalla sua posizione privilegiata di Alì Terme può ascoltare il mare, anzi i due mari, lo Ionio e il Tirreno, che proprio lì confluiscono, e farsi trasportare dai suoi marosi, dalle maree, dai mulinelli, dai vortici. Alle onde dell’italiano puro e forbito fonde i flutti del dialetto stretto della sua zona, alle risacche dei neologismi che prendono in prestito parole e suoni  di altri idiomi; in cui i protagonisti assoluti sono gli abitanti del mare tutti, umani e animali: i pescatori, i pellisquadre, dalla pelle cotta dal sole e dal sale, le donne in attesa dei maschi che la guerra ha portato via, ma anche e soprattutto i delfini, amici e nemici, e quindi l’ingombrante orca. La musicalità delle trame delle frasi porta alla mente certe pagine del miglior D’annunzio, ma il gioco di rimandi è infinito, sino a scovare citazioni della Divina Commedia.

Quello di D’arrigo è un romanzo totale a cui lo scrittore ha dedicato la maggior parte della sua vena creativa. Anche se vedrà pubblicate altre sue opere, tra poesie come quelle di “Codice siciliano” (1957) e il romanzo successivo “Cima delle nobildonne” (1985), il lavoro che più lo contraddistingue è senza dubbio “Horcynus Orca” in cui il continuo sciabordio di frasi che vanno e vengono come le onde creano la reale sensazione di provare gli umori del mare, e facendo immedesimare il lettore in un pescatore o in un delfino, riesce a far comprenderne la sua lingua più profonda.




domenica 1 ottobre 2023

Il trombettista antigravitazionale

 La mia Intervista a George Avramidis (2018)



Arriva dalla Grecia uno dei trombettisti più talentuosi del panorama jazz europeo. Sto parlando di George Avramidis ed io sono fiero ed emozionato di poter scambiare qualche battuta con lui. Il suo modo di suonare la tromba denota uno stile del tutto personale, intenso, originale, passionale… tutti elementi che ha saputo riversare nei suoi dischi come Leader: “Protocol” del 2013 e “Voyager” del 2015. 

Ciao George, per iniziare a farti delle domande vorrei partire dal tuo ferro del mestiere: La tromba è il tuo strumento d’elezione o ce ne sono stati altri prima? 

A detta di mia madre, che teneva dei diari con i momenti diciamo più salienti della mia infanzia, da piccolo prendevo le pentole della cucina e le martoriavo a più non posso con cucchiai e forchette, quindi forse il mio primo strumento sono state le percussioni. Scherzi a parte, però, il mio primo vero strumento è stata la chitarra e ancor oggi la apprezzo visto che ogni volta che devo scrivere un nuovo pezzo strimpello prima la melodia sulle corde e poi le do fiato con la tromba.

La musica è presente nel tuo DNA fin dalla nascita, quindi, con il ritmo e la melodia ma poi, come è scoccata la scintilla per questo strumento… e per il jazz?

Il mio modello di riferimento durante i miei anni formativi è sempre stato mio fratello maggiore, il quale suonava la tromba nella filarmonica della mia città, Giannitsa. Visto che per me era una specie di eroe e volendo seguirne i passi, abbandonai la chitarra e cominciai anch’io a soffiare. Inoltre, all’epoca vivevamo proprio accanto al teatro in cui provavano i membri dell’orchestra e ogni giorno, dalla mia finestra, vedevo entrare i musicisti vestiti di tutto punto e con gli strumenti sotto braccio; una cosa che mi strabiliava. Il mio primo maestro, un trombone, fresco fresco da una tournée a New York, mi dava a ogni lezione delle cassette e poi dei CD per introdurmi al jazz che veniva suonato all’epoca in America. Fin dalle elementari, quindi, possiamo dire che crescevo a ritmo di jazz.

Beh, DNA e destino che coincidono alla perfezione… E durante questi ascolti sei riuscito a trovare i tuoi modelli di riferimento musicale?

Oltre alle proposte del mio maestro, agli inizi ero affascinato dalle melodie di Arturo Sandoval, Maynard Ferguson, Chuck Mangione e Jon Faddis. Col passare degli anni, poi, i miei gusti sono cambiati e, via via che maturavo sia come musicista che come persona, persi l’interesse per gli artisti sorprendenti, andando a finire tra le braccia di compositori più semplici e al tempo stesso essenziali come Erik Truffaz ed Enrico Rava.

Sono felice per il fatto che hai nominato un musicista italiano, tra l’altro eccezionale, come Enrico Rava… Quindi immagino che tu abbia avuto modo di farti un’idea della scena jazz italiana… 

Ho un legame con il vostro paese che nasce dai miei ascolti giovanili (ricordo con affetto anche Andrea Tofanelli) e non. Il jazz italiano (Fresu e Rava) è molto vicino al mio senso estetico e osservando l’enorme tradizione musicale dell’Italia, non si può fare altro che rimanere sbalorditi e ammaliati dai vari geni che producete senza sosta. 

Invece la situazione in Grecia com’è? È stato facile dedicarsi alla musica jazz nel tuo Paese?

Sfortunatamente, è molto difficile, in questo paese, vivere di jazz. Come la maggior parte degli artisti, dunque, ero costretto a dedicarmi anche ad altri generi (musica popolare e/o mainstream) per poter arrivare a fine mese, sebbene non mi dessero la stessa gioia che provavo e provo tuttora quando suono un pezzo jazz. All’estero, invece, ho sempre avuto un riconoscimento molto più soddisfacente per i miei sforzi. Per farvi però un esempio infelice, grazie a Paolo Fresu, il vostro compatriota, mi arrivò un’offerta per partecipare al centenario della Prima Guerra Mondiale organizzato dal Ministro della Cultura Italiana (2017), ma il corrispondente ministro greco, fatto unico tra tutti i paesi invitati, non rispose all’offerta, facendomi dunque perdere un’occasione del genere. Oltre al danno, anche la beffa insomma.

Poi, però, ti sei rifatto alla grande… Tu hai suonato in molti posti, in Italia e nel resto d’Europa… riesci a fare una differenza tra i tuoi luoghi d’origine e gli altri in cui ti sei esibito?

La verità è che sono molto fortunato e ho avuto la possibilità di suonare in molti luoghi europei dove ho potuto osservare e assaporare le diverse forme di cultura di questa Unione. Il pubblico di Berlino è sicuramente molto diverso da quello di Barcellona o Salonicco, anche perché i primi stanno seduti immobili ad ascoltarmi mentre gli altri ballano e bevono al ritmo della mia musica! Scherzi a parte, l’elemento che più mi commuove sono gli altri artisti greci che, per via della crisi, hanno scelto di migrare verso altri lari e, quando me li ritrovo davanti agli occhi in una città straniera per entrambi, è sempre un colpo al cuore.

C’è qualche posto in particolare in cui hai suonato che ricordi con piacere?

Ogni volta che presento i miei nuovi lavori qui a Salonicco, davanti ai miei amici e ai miei collaboratori più cari, rimango sempre di stucco. Figuratevi che viene anche il cuoco del mio ristorante preferito! Nonché la mia parrucchiera, anche se per ovvi motivi ci vediamo molto di rado nel suo negozio. 

Il sapore di casa è sempre il sapore di casa… Forse è la cosa che ti ispira di più per la tua arte… Mi piace tantissimo la ricerca musicale che hai intrapreso nei tuoi dischi… pensi che il jazz sia ancora un genere che può comunicare qualcosa alle nuove generazioni?

La musica jazz è una musica viva e si sviluppa continuamente, trovando nuove forme e nuovi linguaggi per comunicare i problemi moderni. Ultimamente, per farvi un esempio, ho avuto modo di ascoltare il nuovo lavoro di Alfa Mist (UK), il quale introduce nuovi suoni e nuove composizioni, dimostrando proprio quello che dico. Non bisogna però cercare solo tra i nuovi, anche i vecchi musicisti hanno sempre qualcosa di nuovo da offrire se sono in grado di evolversi, come fece ad esempio Miles Davis durante tutta la sua carriera.

Evoluzione è la parola magica che caratterizzerà anche i tuoi nuovi lavori e la nuova direzione del jazz? 

In questo periodo sto incidendo il mio terzo disco, che si chiamerà Invented Memories e verrà pubblicato in autunno. Ci sarà una grande differenza dai due lavori precedenti, in quanto ho tentato di combinare insieme jazz e musica folk dell'Irlanda e della Scozia, visto che ho sempre apprezzato le tonalità diciamo celtiche. Come anticipo dell'album, farò uscire un single con relativo disco nei mesi estivi, per rinfrescare un po' i miei fan e portarli lontani dal caldo torrido del mare greco.

E noi non vediamo l’ora di rinfrescarci un po’ con il tuo nuovo brano… E per salutarti ti chiedo se vuoi dare qualche consiglio ai tuoi giovani estimatori che vogliono intraprendere il tuo stesso percorso… 

Il consiglio che darei ai nuovi trombettisti, ma anche al me stesso di molti anni fa, è di seguire sempre i propri gusti, suonando d'istinto, giocando con lo strumento. Dobbiamo conservare tutti la capacità di sorprenderci come se fossimo ancora dei bambini. Non bisogna pensare quando si suona, anche perché suoniamo principalmente per sfuggire a tutti i pesi che ci tengono ancorati al suolo. La musica è un'arte unica proprio perché ci permette di ottenere una leggerezza che altrimenti non potremmo mai avere, maledetta gravità. Quindi prendiamoci tutti meno sul serio e diamo fiato alle trombe!

Io ti ringrazio per la tua disponibilità a dialogare in maniera così aperta e credo che anche i lettori siano stati felici di scoprire qualcosa in più di te. 

Stupendo, ne sono felice. Vorrei ringraziarti per l’interesse nei miei confronti e per l’invito a fare questa intervista.