domenica 23 luglio 2023

Ignazio Buttitta: La peddi nova (La pelle nuova,1963)




Quando si parla di Ignazio Buttitta, sorge spontanea l’associazione mentale con la poesia e con il dialetto; il dialetto siciliano inteso come lingua. Forse Buttitta è uno degli ultimi poeti ufficiali ad essersi espresso solo ed esclusivamente in siciliano; la lirica dei suoi versi nasce dal verso idiomatico parlato. Il modo di porgere la parola, la musicalità, il ritmo e le metafore, tutto quanto, un naturale flusso tra scritto e declamato; più che declamato, cantato. Qualcosa che ha dentro, che ha urgenza di comunicare e lo fa con la lingua più intima, immediata, del cuore, dal cuore. 

Ignazio Buttitta è poeta sin da subito, già da bambino, forse per compensare le carenze affettive di genitori che devono fare i salti mortali per mantenere la famiglia. 

Scrive sempre, quando può, nel poco tempo libero o di notte, anche se deve lavorare nella salumeria del padre a Bagheria, anche se deve rispondere alla chiamata alle armi e partire per il fronte durante la prima guerra mondiale.

Con il passare degli anni, nonostante le difficoltà, il suo interesse e la sua attività culturale si fanno sempre più intense. Per lui cultura e impegno sociale vanno di pari passo; collabora con gli intellettuali locali, fonda delle riviste, sempre a sostegno dei diritti del popolo oppresso. 

Ha soltanto ventiquattro anni quando esce la sua prima silloge “Sintimintali”, nel 1923, ma sono anni convulsi, tra manifestazioni, sommosse popolari, gli arresti, l’adesione al partito comunista e l’impegno in prima linea nella lotta al fascismo. Il pensiero ottenebrante della dittatura lo obbliga a chiudere la rivista “La trazzera” per attività antigovernativa. 

Costretto a lasciare la Sicilia per salvaguardare se stesso e la sua famiglia si trasferisce in Lombardia e affianca la resistenza partigiana delle Brigate Matteotti. Dopo la guerra, nell’impossibilità di tornare a lavorare a Bagheria, è obbligato a trovare lavoro a Codogno come rappresentante, ma ha la possibilità di frequentare intensamente Salvatore Quasimodo ed Elio Vittorini. Le sue poesie di quel lungo periodo vengono pubblicate nella rivista “Il Vespro Anarchico” o in altri fogli clandestini, ma la seconda vera e propria raccolta “Lu pani si chiama pani” esce nel 1954, trentuno anni dopo la prima, con la traduzione di Quasimodo, appunto. 

Finalmente può rientrare in Sicilia, dedicarsi completamente alla poesia e portarla tra i suoi corregionali. Nel 1956 esce “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali”, un piccolo poemetto che permette al poeta di Bagheria di liberare la sua voce e gli consente, quindi, di far comprendere meglio la sua poetica. La parola è suono, che proviene direttamente dalle fibre di dialetto intrecciate nel cuore, e prende forma e vita nell’espressione vocale. La parola è un tutt’uno con la voce che il poeta porge in uno slancio di enfasi declamatoria, come in una specie di canto, in cui sono necessarie le battute ritmiche, le sospensioni, le pause, le fughe verbali e la gestualità, a dirigere la modulazione, come si dirigono gli strumenti di un’orchestra. La scelta della parola avviene quasi esclusivamente per il suo metro e per il suo suono. 

La capacità declamatoria di Buttitta, fa cambiare idea anche al critico Pier Paolo Pasolini che, inizialmente non gradiva il pathos emotivo che eleggeva, o auto eleggeva, il poeta siciliano a portavoce e coscienza razionale della sua gente affamata, disperata, senza diritti, ma una volta compresa la musicalità del verso come cantato, e unito indissolubilmente con la voce e il respiro, rivede le sue posizioni. Proprio lo scrittore friulano, nel sentire i nuovi versi “Mi vogghiu svacantari, scurciari, / farimi la peddi nova / comu li scursuna” («Mi voglio svuotare, scorticare, / farmi la pelle nuova / come le serpi nere») percepisce il cambio di rotta poetico, verso una dimensione più intima, esuggerisce il titolo della raccolta che viene pubblicata nel 1963. “La peddi nova” sancisce l’ingresso di Buttitta nell’olimpo della letteratura internazionale ed è la silloge che probabilmente rappresenta al meglio la sua poetica, con il giusto equilibrio tra afflato solidale verso le classi sociali subalterne, e la loro impari lotta contro la mafia o le classi politiche che si succedono, e lo sguardo rivolto verso l’interiorità più sconosciuta da sviscerare, per scoprire la vita. La realtà e l’intimità che s’incontrano nella lirica. Se c’è un paradiso è qui e ora: non c’è speranza o proiezione nel Dopo o nell’Oltre. Questa materia reale, questa vita che si vive, anche se è un inferno, è l’unico paradiso possibile. 

Il nuovo corso poetico porta alla produzione di capolavori come “Io faccio il poeta” (1972) o “Il poeta in piazza” (1974) e tanti altri ancora. Suo grandissimo estimatore era Leonardo Sciascia, ma negli anni ha frequentato e collaborato con i più grandi intellettuali siciliani e mondiali. Con Giorgio Strehler ha portato in scena l’opera “Pupi e cantastorie di Sicilia” e celebri sono le interpretazioni di sue opere in prima linea contro la mafia, come “La vera storia di Salvatore Giuliano” o “Portella della Ginestra e il Patriarca”. 

Nel caso di Ignazio Buttitta si può tranquillamente affermare che vivere e scrivere andavano di pari passo; la sua lunga vita una grande poesia e la letteratura un progetto da far vivere nel reale. Ha scelto, per urgenza interiore, il siciliano come lingua, ma si può anche andare oltre il valore idiomatico e ascoltarlo semplicemente come si ascolta la musica. Basta volerlo.



sabato 15 luglio 2023

Colonna sonora per una ferita

Traduzione in arabo e pittura acrilica realizzate da Milena Gioia 


La musica che più ricordo di quel giorno in cui manifestammo è simile al silenzio, un silenzio strascicato. Ancora lo sento, sento il suono di quel silenzio frusciante fatto di passi sull’asfalto, di centinaia e centinaia di persone che sfilano in corteo, per le strade di Palermo. Eravamo in tanti davvero, sembrava che ci fosse tutta la città. Questo suono, il suono del calpestio, morbidamente rullante, mitemente incalzante, è rimasto dentro me come la musica di quel frammento di vita. Eppure c’erano altri suoni, altri rumori. C’erano i canti in coro, gli slogan urlati a squarciagola che rivendicavano una Sicilia libera dalla mafia, una Sicilia normale. Reclamavamo a gran voce la normalizzazione. C’erano le campane che rintoccavano a lutto. Solo le campane di alcuni preti coraggiosi delle parrocchie che toccavamo durante il nostro percorso. Solo alcuni preti coraggiosi, tanti altri non hanno aderito spaventati dalle nostre motivazioni. C’erano i lenzuoli sventolanti al soffio dello scirocco che salutavano il nostro passaggio. C’erano voci e c’erano altoparlanti e c’era il suono delle suole delle scarpe come un soffice calpestio continuo, inarrestabile. 

Una marcia pacifica. Sembrava che ci fosse tutta la città, tutta la Sicilia. Eppure non c’era tutta la città. Non c’erano quelli che ancora credevano nella forza dell’antistato, quelli che in maniera molto subdola avevano servito la criminalità dall’interno dello Stato, quelli che avevano premuto il tasto del telecomando sperando ancora di detenere il comando, i sicari che avevano fatto saltare in aria il giudice Falcone, sua moglie e tutta la scorta. Che avevano sventrato un tratto enorme di autostrada, un pezzo enorme di terra. Quelli che avevano dato l’ordine di uccidere. No, loro non c’erano. O forse sì. Infiltrati, nascosti, acquattati nell’ombra come nella loro naturale essenza, a ridere del nostro dolore. 

Camminavo anch’io in mezzo alla manifestazione. Tra quelle gambe che sfilavano c’erano anche le mie gambe. Mi facevo trascinare dal flusso umano, da questo scorrere ritmico di talloni e polpacci e femori come quello di un fiume. Non sentivo altro. Dentro ero assodato, ancora dopo un mese, dallo scoppio di Capaci. Non perché l’avessi sentito con le mie orecchie ma perché mi sembrava assurdo. Non capivo nella mia ingenuità di giovane studente come si potesse arrivare a tanto, come si potesse semplicemente pensare di usare un quantitativo di dinamite così grande da scatenare una guerra, solo per uccidere un uomo… un uomo soltanto… e non era l’ultima vittima, non era la prima, non sarebbe stata l’ultima volta. Si sarebbero ripetuti un mese dopo per eliminare il giudice Borsellino e tutti quelli che stavano con lui. Un altro uomo pericoloso, altri uomini pericolosi. Distrutto l’uomo per distruggere il suo pensiero, distrutto la terra e distrutto il cielo. Ferite enormi al cuore della Sicilia. Non capivo come si potesse arrivare a questo viscido e gorgogliante odio e perché nella mia magmatica isola. Forse per questa sua magmatica consistenza. 

Mi sentivo violato nell’orgoglio di siciliano, come la mia terra bombardato. Tutto ciò mi comprimeva i pensieri. Me li sincopava. Mi faceva bene soltanto stare in mezzo a tutta quella gente che urlava a squarciagola come in un pianto corale. Quello che sentivo era lo sfilare delle gambe. Lo sfilare e il filare silenzioso come di un filo che cuciva, cuciva. Come quello di una paziente sarta accecata dalle lacrime, cuciva lembi di terra, cuciva pezzi d’asfalto. Cuciva, cuciva, frammenti di lamiere, cuciva brandelli di cielo, quadranti di pelle. Quello sfilare di gambe, come il filo di un’addolorata tessitrice, con mano tremante, cercava di richiudere la ferita e la richiudeva… la ferita, sulla carne. Non quella dentro. Non quella interiore. Quella è ancora aperta, impossibile da richiudere, e si rinnova ogni giorno, ogni anno che passa e sono passati quasi trent’anni. Basta fermarsi a riflettere un attimo per realizzare che dopo tutto questo tempo ancora non si sa la completa verità, e che probabilmente non si saprà mai quali elementi dello Stato si erano venduti all’antistato, per invidia, per collusione, per concussione o chissà quali altre lugubri farneticazioni, e che questi loschi affari ancora continuano. Ancora esistono queste alleanze segrete di comodo che possono decidere sulla vita e sulla morte di una persona, di un popolo, di un intero Paese. Ogni volta che ci penso mi risale lo stesso senso di impotenza, la stessa esplosione nel cuore, le stesse lacrime brucianti. Non siamo niente. 

Nenti ammiscatu cu nuddu. Il mio organismo cerca antidoti come quelli forniti dai preti coraggiosi che avevano provato ad educare. Eliminati anche loro, i preti coraggiosi, anche loro uomini pericolosi. Avevano provato ad educare. Avevano provato a fornire un’alternativa. Questa l’unica possibilità. Non la violenza. Non la morte. La vita. 

Vorrei che la colonna sonora di quel giorno, quello sfilare di gambe, fosse il suono di una penna che scorre sulla carta e scrive: la Sicilia non è la terra della mafia. Penso che avesse ragione Gesualdo Bufalino quando affermava che la lotta alla malavita organizzata doveva partire dalle scuole elementari con l’esempio dei maestri e delle maestre. Vorrei sentire il suono strascicato e silenzioso della penna di un esercito di bambini che scrive: la Sicilia non è la terra della mafia. La Sicilia non è la terra della mafia. Soltanto in quel caso la ferita potrebbe incominciare a chiudersi. A cicatrizzare come deve. Che quelle cicatrici al tatto traccino la nuova geografia del sogno di libertà.

 



sabato 1 luglio 2023

Ida Cox: una regina senza corona



Ida è una ragazza indipendente; non le interessa sapere cosa devono e non devono fare le donne della sua età, le donne nere, della sua età. Non le interessa inginocchiarsi al suo destino di angelo del focolare che sopporta i soprusi del marito che lavora tutto il giorno e poi quando torna a casa, ubriaco, si sfoga sulla moglie, picchiandola violentemente. Non le interessa assecondare il volere dei genitori che le prospettano un futuro da ignorante, a rompersi la schiena in quella maledetta piantagione di cotone che le dà il cognome, come se lei non esistesse e non fosse degna di riceverlo dalla sua famiglia. Prather non è il suo cognome; è solo quel pezzo paludoso di terra della famiglia Prather dove ha vissuto tutta la vita, lei e i suoi genitori. Gli unici momenti in cui sta bene è quando canta durante le funzioni sacre della sua parrocchia. Soltanto la musica la fa sentire veramente viva. Così quando capisce di aver accumulato le forze sufficienti, e si sente abbastanza matura da affrontare il mondo da sola, va via da casa. Forse ha quattordici anni o forse qualcosa in meno, nessuno lo sa, perché nessuno conosce la sua data di nascita, talmente era fitta l'ignoranza che avvolgeva il suo passato, la sua esistenza. Sono i primi del novecento e negli stati del sud è diffusa una forma di spettacolo itinerante conosciuto come Minstrel Show; una forma di commedia che prende in giro in maniera caricaturale le abitudini degli afroamericani con intermezzi musicali. Non è il massimo per una donna nera ma non può rifiutare l'opportunità che il destino le presenta, così accetta di esibirsi in performances canore in stile Vaudeville. In questo modo, spettacolo dopo spettacolo, chilometro dopo chilometro, ha la possibilità di affinare le sue tecniche e di arricchire il suo stile con la gestualità teatrale. Ha la possibilità di conoscere tanta gente, di conoscere l'uomo che poi diventerà suo marito, il musicista Adler Cox e in qualche modo di intraprendere degli studi fondamentali per la sua vita. Il matrimonio dura poco. Purtroppo per lei, il marito rimane vittima durante il primo conflitto mondiale ma lei mantiene il cognome del suo amato per sempre, anche dopo gli altri matrimoni. Ida sa, comunque, che deve fare affidamento soltanto su stessa; ha sempre lottato per questo. Il suo talento ormai maturo le consente di esibirsi con tutti i più grandi musicisti del periodo tra cui Jelly Roll Morton o James P. Johnson, entrambi geniali pianisti, e, di proiettarla a pieno titolo nell'epoca d'oro del Blues al femminile dei ruggenti anni Venti, con Ma Rainey e Bessie Smith. Forse tra quelle grandi interpreti è la meno dotata vocalmente, nonostante il suo timbro elegantemente intonato e la raffinatezza dei suoi movimenti; forse per questo viene soprannominata "la regina del Blues senza corona", o forse è per la sua attitudine a non piegarsi ai compromessi, a difendere in ogni circostanza i suoi diritti di donna indipendente e a battersi per le categorie più deboli. Non si sente per niente una regina, lei è una donna vera. Ida Cox probabilmente è la prima e l'unica donna a scriversi i testi da sola in quel periodo storico. Non essere la più dotata, quindi, non le impedisce di registrare per la Paramount una quantità enorme di brani, tra cui il suo inno per la libertà sessuale femminile, Wild Women Don't Have The Blues. Oppure a sollevare le problematiche sulla mancanza di occupazione, degna di essere chiamata tale, per gli afroamericani, come Pink Slip Blues, ed ancora innalzare un canto sensibile e sofferente contro la pena di morte in Last Mile Blues. I pezzi incisi in quel periodo sono tanti e di pregevole valore, potremmo citare tra gli altri Hard Times Blues, o Gipsy Glass Blues. Ida Cox è probabilmente una dei pochi musicisti che riesce a sopravvivere alla grande depressione economica degli anni trenta, mettendo su uno spettacolo itinerante, Raisin' Cain, insieme al nuovo marito, che gira in ogni angolo del Paese, registrando spesso il tutto esaurito. Ancora una volta si distingue per il suo carattere indipendente; lo spettacolo la vede, infatti, nel ruolo di autrice, interprete e soprattutto manager di se stessa. Anche in questo caso viene fuori la sua unicità. Importante la presenza del marito pianista Jesse Crump che sa esaltarne le sue caratteristiche qualità. Come tutte le grandi star alla fine degli anni trenta viene ingaggiata per la celebre serie di concerti al Carnegie Hall; in quell'occasione ha la possibilità di esibirsi con l'eccezionale Lester Young e con altri immensi musicisti. La sua carriera continua in questo direzione fino al 1945 quando un ictus la colpisce in scena durante un'esibizione. Le serve tempo per riprendersi ed è costretta al ritiro dalle scene, affidandosi alle cure della figlia Helen, avuta dal matrimonio fallito con Eugene Williams. Come tanti musicisti Blues viene riscoperta negli anni sessanta entrando per l'ultima volta in sala d’incisione per pubblicare Blues For Rampart Street, un album che contiene canzoni del vecchio repertorio. Il suo stato di salute ormai minato dalla fragilità cardiaca peggiora fino alla scomparsa avvenuta nel novembre del 1967. Questo ultimo tributo che le permette di suonare con celebri musicisti come Coleman Hawkins, e il riconoscimento di cantanti che ne hanno seguito le orme, le restituisce la corona che le è mancata in vita e che avrebbe meritato per il suo carattere, la sua indipendenza, le sue lotte... proprio per quel carattere che gliel'avrebbe fatta rifiutare.