domenica 30 aprile 2023

Ferdinand Morton: Mr. Jelly Roll




Quando Ferdinand Morton entrava in un locale, immediatamente attirava tutte le attenzioni su di sé. Indossava sempre un soprabito attillato su completi alla moda, sfoggiava uno splendido sorriso, reso ancora più scintillante dalla presenza di un grosso diamante sul dente incisivo superiore. Era pieno di sé, egocentrico e tracotante, non gli interessava attirare le simpatie degli astanti. Chiunque stesse suonando al piano lo invitava ad allontanarsi per fargli posto. Prima di sedersi spolverava lo sgabello con un fazzoletto di prelibata fattura e poi si esibiva sciorinando il suo repertorio che ne faceva uno dei più grandi pianisti del Jazz, come amava autodefinirsi. Il problema è che, probabilmente, era davvero uno dei massimi esponenti dello strumento a tasti di quel periodo storico, quindi chi non era un suo estimatore a livello caratteriale doveva comunque sopportare la sua supponenza.

Il suo stile fondeva la metrica scomposta del ragtime a generi musicali di varia provenienza, diluendo le battute sincopate con fraseggi melodici simili al tango o al valzer e la polka. Con brani come Jelly Roll Blues del 1915 (una delle prime incisioni jazz in assoluto), Tank Town Bump, Wolverine, Mama Nita, a tutti gli effetti può essere definito un traghettatore del genere rag blues, passando dallo stride style, allo stomp, e allo swing, al genere jazz. Uno dei più grandi esponenti del jazz, certo, ma non l'inventore del genere, sempre come amava autodefinirsi. Pur di avvalorare la sua tesi falsificava la sua data di nascita, l'aumentava di cinque anni. Si sa poco di certo riguardo il suo passato, ma una cosa è sicura, l'anno di nascita, che è il 1890. Nato nello stato della Louisiana da famiglia creola, quindi abituato fin da bambino alla musica e alla contaminazione. Il nome di suo padre è La Mothe, e quello del suo patrigno Mouton, Ferdinand lo trasformerà in Morton, forse perché non ama i termini francesi o forse sempre per la solita passione per la contaminazione. Il suo nuovo nome sembra una fusione tra i due.

All'età di diciassette anni si trasferisce a New Orleans e si stabilisce nel quartiere di Storyville, il quartiere a luci rosse, dove suona il piano nei bordelli per intrattenere gli ospiti mentre lui è intrattenuto dalle ragazze che ne apprezzano le capacità amatorie, grazie alle quali nasce il soprannome Mr. Jelly Roll, anche se si sospetta che si tratti ancora di un'auto attribuzione.

La maggior parte dei suoi colleghi lavora di giorno e suona di notte, mentre lui fa di tutto per non lavorare; giocatore d'azzardo e scommettitore, spaccone al tavolo di biliardo e pappone a tempo perso. Ovunque ci siano soldi e opportunità c'è lui. Nel frattempo affina il suo stile e stressa gli orchestrali.

La vita lo porta spesso a spostarsi per convenienze economiche. A Chicago conosce i musicisti giusti per formare La Red Hot Pepper, l'orchestra con la quale registrerà la maggior parte dei suoi successi tra i quali, Doctor Jazz Stomp, Dead Man Blues o Hyena Stomp.

Lo stile di vita vissuto sull'onda del fatalismo e dell'opportunità non sempre ha pagato il giusto prezzo, per cui la crisi economica degli anni trenta, che ha destabilizzato la carriera di tanti musicisti, complica la vita anche a lui, che è costretto ad adattarsi a suonare in locali sempre di più basso livello, fino al quasi totale oblio. Destino a cui non sa rassegnarsi. Combatte con tutte le sue forze per recriminare il suo status, e pur di riottenere un barlume di visibilità, scrive lettere disperate e deliranti agli speaker delle radio che trasmettono jazz, ma il suo carattere che ha seminato antipatie nel settore non lo aiuta a riemergere. La lenta deriva continua fino al 1941, l'anno in cui residui di malattie non ben curate e indebolimento cardiaco pongono fine alla sua vita. Negli anni in cui lui scintillava illuminava tutto intorno, e anche se per amore dell'azzardo diceva di essere l'inventore del jazz, per lo stesso azzardo sono nate perle come Finger Breaker o The Crave, che il jazz può sfoggiare con orgoglio tra i suoi archivi e di certo hanno consolidato le fondamenta di questo genere.








sabato 22 aprile 2023

La mia intervista a Greta Margaret Cipriani

Foto di Carlo Goretti

 

La vulcanica musicista Greta Margaret Cipriani ha scelto il mio blog per rilasciare delle dichiarazioni sui brani che eseguirà a Toronto proprio in questi giorni. La pianista, poetessa e compositrice di origine abruzzese è stata invitata ad esibirsi in Canada in una serie di concerti in qualità sia di pianista e compositrice assieme al soprano Bianca D'Amore e all'attore Donato Angelosante sia come pianista solista. Non c'è occasione migliore per proporre in prima assoluta il brano dedicato ai suoi luoghi natii: Terra d'Abruzzo, di cui ha composto testi e musica. Ho incontrato Greta per fare una chiacchierata su questa nuova avventura. 

Qualche mese fa sono stata chiamata per suonare in una serie di concerti in Canada. I concerti sono stati organizzati dal fondatore del Centro Scuola e Cultura Italiana di Toronto, Alberto Di Giovanni. Sono stata invitata sia in qualità di pianista compositrice, sia per suonare con gli artisti Bianca D'Amore (soprano)  e Donato Angelosante (attore) in un progetto di valorizzazione storico-letteraria. Per l'occasione, oltre a portare delle composizioni mie per pianoforte solo, ho deciso di scrivere un brano dedicato alla mia terra d'origine, dove ho vissuto la maggior parte dei miei anni. Questa composizione, assieme ad altre, verrà eseguita in Prima Assoluta nella città di Toronto.

Il legame con la mia terra posso definirlo più a livello di panismo che procede da un'esigenza interiore molto radicata. In D'Annunzio, lo scrittore e poeta di origine Abruzzese, il panismo permea gran parte della sua produzione poetica, tendenza che lo porta a confondersi con il Tutto Naturale anche nella definizione e ricerca di termini naturalistici forbiti, pregnanti, musicali.

Il mio 'panismo' è qualcosa di meno evidenziato linguisticamente, è un moto interiore profondo e ancestrale che si riferisce ad un'immedesimazione 'fisica', quasi 'biologica', emulativa, corrispondente, assonante nei confronti dei tratti caratteristici naturali abruzzesi.

Quante volte ho sentito risuonare in me la ruvidità e l'imponenza delle montagne delle Gole di Tremonti, oppure la dolcezza digradante dei vigneti sulle colline chietine, oppure, lo spirito esule che riecheggia in alcuni luoghi benedetti di colui che fece 'il gran Rifiuto'.

È pur chiaro che una terra che ha dato i natali a personaggi illustri, porta con sé l'humus germinale, la radice, di alcune intuizioni che avrebbero trovato sviluppo altrove, come quella propensione crociana a stabilire una visione quantomeno solida ed esaustiva del vivente, l'amore dannunziano per l'estetismo in ogni cosa, l'analisi ovidiana del mito e del reale, la profondità siloniana di un sentire 'puro'.

È a questa radice sottintesa che mi appello, pur in una semplicità tutta musicale, senza appigliarmi volontariamente a riferimenti troppo dichiaratamente intellettuali.

Inoltre, alcuni sentimenti profondi, ma più generici e non legati strettamente alla terra, li ritrovo in alcune poesie mistiche di mia madre, che conservo in qualche modo nel mio essere.

Per cui la Musica per me, anche se non meramente descrittiva a livello di linguaggio e proprio per questa sua caratteristica, mi permette di aderire meglio a quei moti interiori più vicini alla verità sensoriale della Natura che mi ha sempre circondato, oltre a farsi veicolo di riflessioni sulla Storia del popolo che la abita da secoli, attraverso l'uso della Parola, che può essere affidata al Soprano o al Tenore (in questa Prima al soprano) per essere 'detta'.


Abbiamo avuto la possibilità di collaborare in varie occasioni e ho avuto modo di apprezzare il tuo talento come pianista, compositrice, poetessa, cantante, amante delle sperimentazioni di varie forme musicali. Già con la vittoria del Tour Music Fest avevi dato prova del tuo estro compositivo, accostando, in quel caso, il pianoforte ad effetti elettronici. Qui, invece, riprendi la tradizione operistica Romantica, intessendola di un gusto personale, legato alla tua visione intima della musica e dell'atto poetico.


Sì, in questo brano, ritorno nella classicità pura, nella bella melodia e bel canto, scrivendo un testo poetico simmetrico ed evocativo dove protagonista assoluta è "la Terra", l'habitat della gente antica d'Abruzzo. Un'opera solenne e vera, legata alla gente nobile di cui io stessa sono figlia. 


Inoltre porterai il brano Magnificat. Anche In questo caso proponi una tua versione di Magnificat, in cui ti stacchi dall’originale invocazione (legata principalmente alla figura della Madonna), per mantenere solamente la solennità della preghiera mista ad un senso di meraviglia, che però viene dall’oscurità. 


Dalle oscure acque profonde viene la visione nobile. L’abisso dell’oscurità assomiglia ad un mare tremebondo, l’inquietudine assomiglia ad un paesaggio incerto e grave, dove le armonie lasciano sempre un senso di sospensione. Qui, In questo paesaggio, è la visione, l’idea di una possibile preghiera a riscattarci dal senso di gravità e smarrimento. Una preghiera di qualcosa di noto, antico, sacro.

Questo pezzo nella sua struttura e compagine armonica è stato scelto per fare da sfondo alla lettura di alcuni passi del Canto XXVI dell’Inferno, il Canto dove viene presentata la figura di Ulisse, in tutta la sua umana peculiarità, assetato di conoscenza e proprio per questo un eroe condannato a vagare per sempre a causa della sua inquietudine, per aver sfidato in qualche modo i confini “divini” e che manca nelle sue azioni della giustezza divina. L’incertezza ondeggiante del mare si lega bene alla scenografia iniziale del pezzo nel suo tremolio di ottave che fanno da pedale in un pezzo dalle tinte iniziali scure ma in seguito anche luminoso.

È da questo oceano quasi indefinito che si leva il canto, da questo mare di conoscenza imperfetta umana. Da questo mare le note, come dei canti salmodici, sono destinate a rinfrancare gli animi.


Quindi, In realtà, la tua non è una vera e propria opera religiosa, ma prende in prestito alcuni connotati del “sacro”...


In un’epoca in cui c’è stato lo “squarcio” di Nietzsche che ha messo in discussione i valori fondanti e dove l’umanità dovrebbe considerarsi più “democratica”, per me questo Magnificat è il ritorno ad un senso di solennità, però intima, personale.

La preghiera dunque può essere considerata questo desiderio di Armonia personale e magari anche Universale.


E, ultimo, ma non ultimo, il brano, My Piano, un brano che fa parte dell'album Piano Universo, che ho avuto il piacere di ascoltare e recensire in anteprima nel 2019. in cui la scrittura del pianoforte esce da sé stessa per proiettarsi in una dimensione ulteriore, quasi cinematografica.


È una melodia fortemente romantica, dai toni idealistici, quasi un canto di amore e di speranza. È dedicata allo strumento per cui scrivo maggiormente, il pianoforte.

Arrivare alla sintesi per qualcosa di semplice, diretto e universale è una sfida principalmente di natura filosofica.

Questo brano verrà eseguito assieme ad “Un cuore incorrotto” di Ignazio Silone, proclama della sua idea di Libertà, pura, incorrotta, scevra da condizionamenti.

Un cuore dove l’idea di Libertà è soggettiva, come personale è la propria visione del Mondo.



domenica 16 aprile 2023

Davide Cortese: "Tenebrezza"



Non posso che rendere omaggio a questo bellissimo libro di poesie di Davide Cortese. Da vero poeta, in questi versi,  Davide, riesce a mettersi completamente a nudo, rivestendosi esclusivamente di musica in strofe. Le paure, le incertezze, i desideri,  tutti gli intimi sommovimenti del poeta si muovono tra melodia e malinconia, insinuandosi profondamente tra i pori della pelle e le ghiandole lacrimali di chi legge, per fare esplodere tutto con estrema dolcezza. Ho incontrato Davide, come spesso accade, anche casualmente, tra i vari eventi culturali della Capitale, e ho avuto modo di chiacchierare un po' con lui del suo libro.  

Bellissimo già il titolo: "Tenebrezza", perché in una parola sei riuscito a cogliere vari stati d'animo, a evocare diverse sensazioni; è già esaustiva di per sé, ma che cos'è per te Tenebrezza?

Tenebrezza è per me una tenerezza crepuscolare, una dolcezza saturnina, una compassione per ciò che nell’umano è oscuro, una nostalgia dell’avvenire incerto, un timore della gioia del passato. È per me questo e molto altro.

In tutte le poesie si avverte questo senso di inquietudine, di dolce melancolia, come se qualcosa stesse sfuggendo nel momento stesso in cui te la godi. Tutto si consuma?

Sì, questo consumarsi di tutto è al centro di molti versi di questa raccolta e anche di altre precedenti. Sono ossessionato dal tempo che passa e che non torna, dal presagio della fine che è in ogni cosa, dall’addio che può leggersi ovunque e in ogni istante.

Forse l'unico modo per non consumare la vita è la Poesia, anche se poi si va a bottega dal diavolo, citando proprio dei tuoi versi. Cos'è per te la Poesia?

La poesia è l’incontro segreto tra bellezza e mistero a cui il poeta assiste accidentalmente, come al convegno notturno di due amanti. Di questo intimo incontro tra bellezza e mistero, il poeta-testimone serba solo un profumo: nessuna prova. Questo profumo ha la consistenza che hanno i suoi versi, che sono tutti indizi di poesia, e che solo insieme agli indizi del lettore diventano prove.

Quando ti sei accorto che era così importante per te essere poeta-testimone della bellezza e del mistero? 

Ho scoperto che esprimermi attraverso i versi mi dava gioia già da bambino. Privilegiavo le rime baciate, allora. La parola ha il potere di creare, di rivelare, di salvare dall’oblio.

Cosa ti aspetti, o cosa ti auguri, che un giovane lettore che si avvicina alla poesia trovi nei tuoi versi? Eventualmente che consiglio gli daresti?

Mi auguro che il lettore trovi tra le mie pagine qualcosa di significativo per sé  o anche solo che colga il guizzo di una luce nuova, di un sorriso inaspettato. Al giovane lettore consiglierei di leggere voci poetiche molto diverse tra loro. 

Grazie Davide, sono sicuro che il lettore troverà qualcosa di più, come in uno specchio, potrà riflettere le proprie emozioni e avrà la possibilità di riflettere ancora oltre... e magari salvarsi dall'oblio, proprio come dici tu...



domenica 2 aprile 2023

Uno sparo e un sorriso

Disegno realizzato da Miriam Autiero


Uno sparo! Bang! Ogni volta che percuoto la bacchetta sulla pelle del tamburo risento quello sparo. Il botto secco e intenso nell’aria, lo scoppio che stordisce. Riprovo la stessa sensazione di intontimento e rivedo, sì rivedo, il sorriso di lei che muore tra le mie braccia. L’intontimento, l’incredulità, il dolore. Nel battere sul tamburo, come in una detonazione, rivivo tutto di quel giorno. Il giorno in cui ho perso lei. Era la sera in cui decidemmo di andare al concerto di una band che si stava affermando proprio in quel periodo grazie all’energia e alla tecnica del batterista. Lei mi aveva appena regalato una batteria. Non una batteria completa, i pezzi base, una gran cassa, un rullante, due tom tom, i piatti charleston e un ride. Li aveva presi di seconda mano su internet, una volta incassato lo stipendio, perché io potessi iniziare a suonare. Era il regalo più bello del mondo per me. Per me che volevo fare il musicista. Il batterista. Lei ha sacrificato alcuni stipendi perché potessi suonare su una batteria vera e non su percussioni improvvisate o inventate come ho sempre fatto. Il regalo più bello della mia vita. Faceva freddo quel giorno. Avevamo indossato cappottoni pesanti e sciarpe e cappelli. I nostri respiri si trasformavano in vapore all’uscita dalla bocca a contatto con l’aria esterna. Tremavamo dal freddo. Ci abbracciavamo il più possibile per scambiarci calore. Tremavamo per i brividi ma eravamo felici, lì in coda, in attesa del concerto. Già pregustavamo il vino che avremmo bevuto, la musica che avremmo sentito, le tecniche che avrei potuto imparare. Quando faceva freddo le si spaccavano le labbra ma non aveva voglia di togliere i guanti per mettere il burro cacao, così chiese a me di passarglielo sulle labbra. Cercai di fare il miglior lavoro possibile ma, nonostante tutto, la mia poca abilità nel passare il burro cacao, la fece sorridere. Eravamo in tanti lì fuori in attesa del concerto. Poi all’improvviso lo sparo, un uomo che inneggia ad Allah, la folla che si disperde, lei che si fa più pesante tra le mie braccia. Poi altri spari, che non sento. Non riesco a capire quello che sta succedendo. Vedo gli altri fuggire impazziti ma noi non possiamo, siamo bloccati. Lei è sempre più pesante tra le mie braccia. Non riesco più a tenerla, la adagio sulle mie ginocchia e cerco di chiedere cosa succede. Lei mi sorride, non risponde. Mi sorride, non respira. Mi sorride, il cuore non batte più. Mi sorride, non è più viva. Mi sorride. Un proiettile le ha trapassato il polmone da dietro, si è fermato sul cuore. Mi ha fatto da scudo. Avrebbe potuto prendere me quel proiettile. Avrei preferito che prendesse me. 

Rimaniamo lì da soli in un angolo della piazza del mercato dove di solito c’è fermento e brulichio continuo di gente che brama sprazzi di vita. Adesso invece soltanto, desolazione, il lastricato che riflette la luce dei lampioni, i banconi chiusi, gli alberi spogli, tristezza. L’incapacità di capire cosa è appena successo. 

L’intontimento, l’incredulità, il dolore, l’impotenza. Un attentato terroristico di matrice islamica, dicono gli agenti di polizia appena arrivati. Un attentato terroristico, dicono i giornalisti. Un attentato terroristico, dicono tutti. Lei è morta, dicono i medici. Io ho visto soltanto un folle che si è messo a sparare tra la folla e poi si è disperso con il disperdersi di essa. Ed io sono rimasto lì, con lei tra le mie braccia, mentre mi sorrideva. 

Quell’esplosione è rimasta dentro di me, ammutolendo le mie percezioni. 

L’incapacità di comprendere quello che è successo. Non saprei come chiamarlo adesso. Attentato. Follia. Ingiustizia. Destino crudele. Un vuoto. Sicuramente un vuoto doloroso e incolmabile. Nessuna lacrima a lenire il dolore. L’incapacità di riconoscere la vita. Da quel momento tutto ha assunto un altro senso. Non ha avuto più nessun senso. Nessuna passione. Nessuna musica. Soltanto uno sparo e poi il nulla. 

Ho sentito quello sparo nella mia testa per moltissimo tempo. E andava a finire sempre allo stesso modo. Con il suo sorriso. Guardavo la batteria che mi aveva regalato e la odiavo. Eppure era la cosa che più mi ricordava lei. Nessuna passione. Nessuna musica più. Nessuna salvezza. Continuavo a sentire quello sparo nella mia testa. 

Poi un giorno per assordare lo scoppiare del mio cervello mi sono seduto alla batteria e ho percosso con la bacchetta la pelle del tamburo, con tutta la forza che avevo. Un’esplosione! All’esterno. Finalmente un’esplosione all’esterno di me, che apriva i canali del mio cuore, i canali delle mie lacrime. E ho continuato a battere, ho continuato a battere, ho continuato ancora. Per tirare fuori tutto quello che avevo dentro. Ogni battito sulla gran cassa il battito del mio cuore. Tum tum tum prende ritmo, tum tum tum prende vita. Tum tum tum prende rabbia. Un battito dopo l’altro. Il ritmo prende quota. È il ritmo della mia rabbia. E batto, ribatto. Uno squarcio di tempesta a ciel sereno. Follia, maledetta follia degli uomini che si abbatte sempre sugli uomini stessi. E io schianto, percuoto. Una valanga rotolante di massi inarrestabili. Quante vittime ancora, quante vittime innocenti servono a questo dio. E io scasso, fracasso. Un boato sismico che scuote le fondamenta. Quale famelico dio può avere tutta questa sete di sangue e continuare a uccidere. E io scasso, sconquasso. Un’onda d’urto per l’abbattimento del muro del suono. Quale famelico dio se non il dio denaro, di chi ha interessi economici, di chi ha interesse che tutto rimanga così. E io frango, rifrango. Girano le armi, girano i soldi, girano le vite. E io sfascio, distruggo. A chi fa comodo, a chi fa comodo tutto questo… Le mie domande non hanno risposte. Solo disperazione. Le mie domande non hanno risposte ma lentamente il mio spirito si rasserena, il ritmo si fa simile a quello del cuore, come una pioggia notturna in primavera. E il cuore che sento è il cuore di lei. Era il suono che le piaceva di più. Quello della pioggia notturna in primavera. Così rara, così intima. Io beccheggio sul rullante, sui piatti, come se le bacchette fossero i miei polpastrelli e potessi praticare un massaggio cardiaco nel petto di lei. Perché il suo cuore batta ancora insieme alla mia batteria. Perché il suo cuore viva. Perché il suo sorriso sia un sorriso di una persona in vita. Sì, così la sento. Viva. Non è possibile tutto questo, no. So che non è possibile, lo so, ma ogni volta che mi siedo alla batteria e percuoto la bacchetta sulla pelle del tamburo sento quello sparo e rivedo il suo sorriso. 



Alcuni pareri dei lettori:


Dire che questa storia è toccante è poco.... ti entra nel cuore e nell’anima.... Grande Gabriele.

Luca Paoli


Caro Gabriele come sempre riesci in un racconto a emozionare chi lo legge. E il legame tra "uno sparo e un sorriso" è molto sottile e quel che mi rimane è il "sorriso" di una persona che rimarrà per sempre.

Bravo sopratutto per non dimenticare ciò che è accaduto.

Enrico Belbusti


Bellissima Gabriele!

Dario Lastella


Con abbondante ritardo ci tenevo a dire la mia:...bello, gran ritmo e ricco di pathos...mi ha emozionato...😢❤️🙏🎼

Francesco Mascio


Vivo e avvolgente, grazie

Roberto Menabò


Certe storie vanno "ascoltate" più che lette...onorata di aver incrociato il tuo cammino 💗

Valeria La Rocca


Un racconto molto bello Gabriele😊

Maurizio Fierro


Trasuda di vita il tuo racconto, drammatico ma con una rara potenza evocativa che riporta al ricordo, ricordo che vive e, con esso, vivono la vittime innocenti della guerra, di tutte le guerre. Bello davvero Gabriele.

Maurizio Celloni


Qualcuno doveva pur raccontare per non dimenticare. Tu hai saputo... 🌟

Isabella Dilavello


Bella storia.

Pupi Bracali


Un bel racconto, che purtroppo ricorda fatti recenti, che hai saputo raccontare con sensibilità.

Gabriele Dodero


il dolore di ognuno tra la folla. Il dolore che si porta dentro. È Il vuoto di ciascuno a dare la misura della sofferenza.

Lucia Gargano