domenica 26 marzo 2023

Nick La Rocca: una luce italiana all'alba del jazz

                                                    


Come succede anche attualmente era difficile vivere di sola musica nella New Orleans degli inizi del Novecento. Il padre lo ripeteva sempre al piccolo Dominic, chiamato Nick per abbreviare, il quale aveva una passione pura e incontenibile: non riusciva proprio a fare a meno di sfilare la tromba del padre dalla sua cornice sulla parete. Prima per gioco e poi per esercitarsi seriamente. New Orleans di inizio secolo è un crogiolo ribollente di razze ed etnie diversissime tra loro. Alle due comunità più grandi, Quella afroamericana e quella francese, vanno aggiunte altre corpose comunità di spagnoli e italiani. Tra gli italiani ben 30.000 sono siciliani. Una di queste famiglie è quella di Nick. I La Rocca partono dalla Sicilia, da Salaparuta, perché il giovane Girolamo, da poco sposato con Vita, non riesce a sostenere le spese del fresco matrimonio con i suoi piccoli guadagni da ciabattino. New Orleans in quel periodo è una delle città degli Stati Uniti che permette facili assunzioni per i suoi vasti campi di cotone e per il suo fiorente porto fluviale che tanto comunica con l'Italia, importando agrumi dalla Sicilia e facendo lavorare il cotone nell'industria tessile di Genova: il tessuto ricavato, di ritorno in America, verrà ribattezzato jeans. Girolamo e la moglie decidono di stabilirsi nella cittadina della Louisiana per iniziare una nuova vita e finalmente mettere su famiglia. Porta con sé la sua tromba, o meglio la cornetta, il ricordo di quando era bersagliere e suonava nella banda In presenza del generale La Marmora. La incornicia come un cimelio, minacciato soltanto, qualche anno dopo, dall'arrivo del piccolo Nick e dalla sua passione irrefrenabile. La tromba è spesso motivo di grosse liti tra il padre e il figlio, nel tentativo di fare comprendere all'aspirante musicista i valori del "lavoro vero", che richiedono sacrificio e impegno, e soprattutto che l'arte non dà il pane. Le parole accorate provengono da un uomo che ha conosciuto la fame, mentre Nick sente l'esigenza di assecondare fin da ragazzino la propria personalità, focosa, turbolenta e ambiziosa. Il padre, per non fargli toccare la tromba, in un gesto estremo, dettato dalla rabbia, distrugge lo strumento, per poi colto da pentimento, ripararlo. Questo episodio si ripete spesso in casa La Rocca e, in questo clima, cresce Nick, costretto a nascondersi nei posti meno appropriati per allenarsi a suonare, disturbando l'intero vicinato. Fin quando, all'età di 15 anni, non perde il padre e scopre il dolore, ma anche la libertà. A New Orleans grazie alla commissione di etnie, per le vie, nei luoghi di lavoro, nei locali, si sente suonare tantissima buona musica, ma prevale, tra le altre, l'improvvisazione a turno di strumenti in assolo sul blues, un genere che forniva le basi al jazz, che nello slang locale veniva chiamato jass. In particolare il jass di New Orleans, così eclettico e vitale, veniva definito Dixieland jass. Nick studiava con ammirazione le improvvisazioni alla cornetta del grande Buddy Bolden su cui si esercitava improvvisando i suoi assolo, che nascevano dall'imitazione dei suoni di tutti i giorni, i versi degli animali e i clangori metropolitani. Con le prime esibizioni e i primi guadagni può permettersi un nuovo strumento e di conoscere la gente giusta per formare il primo nucleo di un'orchestra, con cui non ci sarà manifestazione pubblica della sua città in cui non suoneranno. Uno dei pochi bianchi in un genere prevalentemente nero afroamericano. Presto si accorge che per avere più ingaggi deve snellire l'orchestra, portandola a una band di cinque elementi, tra cui un altro oriundo italiano, Tony Sbarbaro alla batteria. Durante un evento sportivo di importanza nazionale vengono notati dal produttore Johnson della Victor che propone loro di incidere un disco. Così, nel 1917 nasce "Livery Stable Blues", di Nick La Rocca And The Original Dixieland Jass Band (termine in seguito sostituito con Jazz), una delle prime incisioni del genere, che grazie a brani come Tiger rag, Clarinette Marmalade, dal ritmo energico ed energetico per chi li ascolta, venderà più di un milione di copie, contribuendo a diffondere il jazz a livello nazionale e internazionale. Grandi artisti come Louis Armstrong si formeranno su questa incisione, proponendo i brani che ne fanno parte come standards. La fama di Nick La Rocca e la sua band li porterà a suonare per la famiglia del re d'Inghilterra, Giorgio V. I successi si susseguono costanti, a livello mondiale, ma il carattere di Nick rimane sempre lo stesso, anzi, con la pressione crescente, peggiora, non riuscendo a evitare litigi furibondi, fino allo scontro fisico, con gli altri membri della band, arrivando all'inevitabile scioglimento. Il carattere turbolento e ambizioso che ha portato La Rocca alla vetta del successo lo ha anche precipitato nel baratro dell'oblio. A distanza di cento anni forse è arrivato il momento di tirarlo fuori da questo oblio, riconoscendo la sua importanza nella diffusione del jazz e rendendogli gli onori che merita.




 


domenica 19 marzo 2023

Pirandello segreto

 Pirandello segreto - una chiacchierata con Arianna Fioravanti (2017)


Quest'anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita di Luigi Pirandello e ci siamo ripromessi di tracciare un profilo inedito dello scrittore siciliano grazie al fondamentale e sensibile contributo di Arianna Fioravanti, autrice del libro "Una vita senza vita. Pirandello in cinquant’anni di lettere" che ci restituisce un'immagine intima e sconosciuta di Pirandello, ricostruita attraverso il voluminoso epistolario tenuto, con diversi destinatari, fino alla fine della sua vita. Ho incontrato Arianna alla consegna del Premio Internazionale Pergamene Pirandello, che si svolge ogni anno ad Agrigento, e ho avuto modo di rivolgerle qualche domanda per avventurarci in questa impresa. Le prime curiosità sono legate ai luoghi; Arianna, tu sei di Roma e la Capitale offre un lungo elenco di scrittori di altissimo livello... cosa ti ha spinto a dedicarti all'opera del drammaturgo agrigentino? 

Ora che mi ci fai pensare se avessi dovuto scegliere uno scrittore romano senza dubbio avrei scelto Moravia, ma non sono i confini geografici né altri tipi di confine a condizionare l’amore, e con Pirandello è stato grande amore… a 15 anni avevo i suoi ritratti appesi in cameretta, a 18 conoscevo tutta la sua opera, lo portai anche come argomento a piacere all’esame di maturità, conservo ancora la tesina. Della sua opera mi colpirono in particolare la filosofia arzigogolata, la distruzione delle certezze assolute, la ribellione ai formalismi (da cui egli personalmente non riuscì mai a liberarsi), l’umorismo, la vita come «enorme pupazzata», insomma, per dirla con Gramsci, «le tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori» e dei lettori, producendo «crolli di banalità, rovine di sedimenti di pensiero».  

Sappiamo che, pur essendo Pirandello uno scrittore di importanza mondiale, la stragrande maggioranza della sua opera è legata alla Sicilia (Agrigento in particolar modo), e ai siciliani, passando da correnti letterarie quali il verismo e il naturalismo, che prevedevano una abilità espressiva mimetica dei luoghi in cui erano ambientate le novelle o gli altri testi. Se ne potrebbe dedurre un grande amore verso la sua terra: dalle lettere si evince qualcosa a riguardo? 

Pirandello è uno scrittore siciliano. La Sicilia ha condizionato la sua formazione e la sua opera in mille modi diversi. Mi vengono per esempio in mente le grandi amicizie che influenzarono la sua produzione artistica, come quella con Luigi Capuana che lo attrasse nel mondo della narrativa, o con Nino Martoglio, che lo spronò a scrivere per il teatro, che agli inizi del suo successo fu appunto in dialetto… ma soprattutto per “l’aria” che Pirandello respirò in Sicilia nei suoi primi venti anni di vita, prima di lasciare l’isola. La Sicilia dell’Ottocento, quella dei latifondi, dei privilegi, delle rigide caste sociali, a cui lo scrittore rispose con esplosività distruttiva; ma anche la Sicilia dei formalismi, dell’allusività, della reticenza, dell’onore, sotto la cui oppressione si agitava senza liberarsene mai completamente la ribellione del nostro autore. E a proposito di ribellismo pirandelliano, come non notare una connessione con gli avvenimenti rivoluzionari che sconvolsero la Sicilia preunitaria? E pensiamo anche al tabù sociale del sesso e alla concezione rigida di famiglia che Pirandello aveva ereditato dalla sua terra, e contro cui, anche qui, in contraddizione con sé stesso, scaraventava il suo umorismo. In particolare c’è una lettera in cui, raccontando alla sorella del modo semplice in cui in Germania si faceva amicizia con le ragazze, scrisse al riguardo: «Comprendo anche che tal modo di vita non si addicerebbe per nulla ai nostri paesi, dove regna l’ipocrisia e la buona educazione fa difetto in presso che tutti gli uomini». Pirandello amò la sua terra ma i rapporti con la società siciliana furono molto conflittuali. 

Tu invece che rapporti hai con la Sicilia? 

In Sicilia sono come a casa. Per la cordialità delle persone, la simpatia, l’affabilità, e forse anche un po’ per averla da sempre sentita vicina attraverso le opere di Pirandello.

Pirandello è stato un maestro nello svelare la profonda spaccatura tra l'identità percepita di se stesso dall'individuo e quella percepita dalla folla di individui attorno dello stesso soggetto. Un maestro altresì nel descrivere la crisi dell'io e della possibilità di indossare delle maschere per sfuggire a tale crisi o a peggiorarla. Volendo fare un gioco sfruttando le tematiche pirandelliane, scavando nel suo carteggio, secondo te... Pirandello riusciva a sfuggire a queste dinamiche o ne era vittima? 

Pirandello era costantemente alla ricerca di un Io autonomo e autentico. Le maschere non sono solo quelle che si indossano in società, davanti agli altri, ma soprattutto quelle che si indossano per nascondere a sé stessi parti del proprio Io ritenute sbagliate. Lo dice chiaramente il Padre nei Sei personaggi, uno dei personaggi più autobiografici di Pirandello insieme a Laudisi del Così è (se vi pare). Non ci intendiamo con gli altri, ma non ci intendiamo nemmeno con noi stessi, se non siamo pronti a riconoscere e ad accettare le tante parti di cui si compone e si frantuma il nostro Io. Reprimere parti di sé equivale a togliersi pezzi di vita. Riuscire ad accettare ogni parte che chiede di esistere e coesistere insieme alla altre, con cui potrebbe essere in contraddizione, comporta invece la liberazione dalle maschere. Ma a questo, in una società dominata dalle convenzioni, corrisponde la contropartita della “follia”. Non credo che nella sua vita privata Pirandello sia mai riuscito a superare questo conflitto.

Per quanto ti riguarda ci sono stati momenti della tua vita che definiresti pirandelliani in questo senso? 

Si tratta di un disagio universale, che riguarda tutti gli uomini. Sì, mi è capitato di non volermi conoscere e riconoscere per intero, nella mia moltitudine. 

Nella sua infinita genialità, Pirandello, suggerisce anche delle vie di fuga all'annullamento dell'identità; dall'umorismo, che da espediente comico, si trasforma in profondo atto di comprensione umana, alla follia, unico elemento che permette di guardare in faccia la realtà e smascherare l'ipocrisia; al sentimento amoroso così simile alla follia. Sappiamo che questi elementi hanno avuto un ruolo importante nella sua vita, come emergono dalle sue parole più intime? 

La follia e l’amore come fonte di vita. La tua è una osservazione molto pertinente e acuta. L’innamoramento riusciva a scuotere Pirandello dall’inedia esistenziale, ci sono molte lettere al riguardo. Uno dei periodi più felici nella vita di Pirandello, e forse veramente l’unico, fu durante il soggiorno a Bonn, dove con Jenny Schultz-Lander visse un amore spensierato. E mi viene in mente una lettera scritta ad Antonietta alcune settimane prima del loro matrimonio. Vale la pena citarla:

«Io immaginavo la vita come un immenso labirinto circondato tutt’intorno da un mistero impenetrabile: nessuna via di esso m’invitava ad andare per un verso anzi che per un altro: tutte le vie mi parevan brutte o inamabili. [...] Io non trovavo in questo labirinto una via d’uscita. Né nulla potevo trovarci, perché nulla vi mettevo, né un desiderio, né un affetto qualsiasi: tutto m’era indifferente, tutto mi pareva vano e inutile – ero come uno spettatore annojato e smanioso, a cui era di peso il rimanere, e pur non sapeva decidersi ad andarsene, ero come un espulso dal fiume, che consideri dalla riva la corrente senza più la voglia di lasciarsi portare. […] Oh, in che orrenda notte, Antonietta mia, era avvolto il mio spirito! I miei sogni di gloria eran baleni a un tratto oscurati: e invano chiedevo la luce, invano il sole… Ora il sole per me è nato! Ora il mio sole sei tu, e tu sei la mia pace e il mio scopo: ora esco dal labirinto e vedo altrimenti la vita».

E mi viene in mente un’altra lettera molto significativa a testimonianza del nesso Amore-Vita, scritta 36 anni dopo la precedente all’attrice e musa Marta Abba:

«Perché dopo tre anni di starti vicino, ora, senza Te, per quanto mi sforzi, per quanto cerchi di resistere, sento che io muojo. Muojo perché non so più che farmene della vita, in questa atroce solitudine non ha più senso per me vivere, né valore né scopo; il senso, il valore, lo scopo della mia vita eri Tu, nell’udire il suono della tua voce a me vicina, nel vedere il cielo nei tuoi occhi e la luce nel tuo sguardo, la luce che m’illuminava lo spirito. Ora tutto è morto e spento, dentro e intorno a me. Questa è la terribile verità. È inutile che te la faccia sapere; ma è così. La colpa è mia che mi son lasciato riprendere dalla vita, quando non dovevo. Ora non mi è più possibile sentirmene abbandonato».

Abbiamo detto amore e follia come fuga dalla morte, anche se, in tanto naufragio, l’unico scoglio a cui Pirandello riuscì a restare sempre saldamente ancorato fu l’Arte.

Ci vuoi raccontare della tua follia nell'inseguire questo progetto? 

Certe follie si compiono solo se mossi da una grande passione… questa è stata una “follia” che ha riempito quattro anni della mia vita. Ho letto e analizzato mezzo secolo di lettere, cercando di tracciare un filo narrativo attraverso il punto di vista dello scrittore, senza lasciarmi influenzare dalla critica. È la vita di Pirandello raccontata da Pirandello, la sua “verità”.

Dal matrimonio in poi, tutte le scelte fatte nella sua vita pubblica e privata sono state fonte di discussione; l'interventismo riguardo la prima guerra mondiale, l'adesione al fascismo, il suo cattolicesimo interrotto... ci puoi dire qualcosa al riguardo? 

Proverò a rispondere quanto più sinteticamente possibile. Cominciamo dall’interventismo. Va ricordato che dopo l’iniziale entusiasmo Pirandello sembrò retrocedere da quel patriottismo che aveva tanto animato i suoi avi. A un certo punto infatti dovette apparirgli secondario, se non deprecabile, quel fervore che muoveva alla guerra. Ne troviamo per esempio testimonianza in alcune righe che Pirandello inviò al figlio Stefano quando questi, dopo l’armistizio, poté lasciare il campo dove era prigioniero e tornare in patria. Già in questa lettera Pirandello sembrava voler suggerire al figlio di sostituire gli entusiasmi bellici con l’attenzione da dedicare alla sofferenza umana. In cima a ogni pensiero non c’era più la Patria, ma il dolore delle famiglie spezzate dalla chiamata alle armi, tema che ritroviamo anche nelle opere. In relazione all’adesione al fascismo non possiamo che sottolineare anche qui forti conflitti interiori. Pirandello aderì al fascismo e non rinnegò mai la sua scelta, almeno ufficialmente. Ma per Mussolini ebbe parole anche molto sprezzanti, ne intravedeva il dispotismo e se ne sentiva schiacciato: «Ciò che vuole è che nessuno predomini, nessuno alzi la testa. Attorno a Lui, un livello di teste che gli arrivino appena al ginocchio e non un dito più su. Tutto, così, resta in basso, per forza, e confuso», scrisse a Marta nel 1928. Non era l’uomo che Pirandello apprezzava in Mussolini, ma il Mito, di fronte a cui si poneva come artista. In un contesto storico in cui gli ideali risorgimentali erano stati spazzati via da una società alla deriva, Mussolini incarnava per Pirandello il male necessario. Il Duce avrebbe potuto aiutarlo a risollevare le sorti del teatro italiano attraverso la costituzione di Teatri di Stato, aspettative che però vennero regolarmente deluse. Tutto questo è raccontato bene nel mio libro attraverso le lettere. In ultimo, riguardo al cattolicesimo, sappiamo che da bambino Pirandello era stato religiosissimo e che la prima frattura con il culto si ebbe quando, una domenica di lotteria, il parroco gli fece vincere un premio che spettava ad altri. Il ragazzino non digerì la “frode” con cui erano stati macchiati gli insegnamenti cristiani e da quel momento non si fece più vedere a Messa. Spostandoci avanti negli anni, soddisfo la tua curiosità citando una lettera che nel 1895 Pirandello indirizzò alla sorella Lina, divenuta mamma per la seconda volta e in procinto di far battezzare la figlia.

«[…] la tua bambina dunque sarà battezzata tra pochi giorni. Che ne capirà lei? Quest’imposizione di fede non la capisco affatto. È una violenza, per me, frutto della più cieca intolleranza! Tollerante invece son io, che non vorrei imporre a mio figlio, prima che lui possa o sappia dir di sì, una fede. Se poi lui, venuto su negli anni ed entrato nella ragione, volesse il battesimo, io stesso, lo porterei per mano in una chiesa per farglielo avere. Ma è inutile ragionare… Son menzogne convenzionali che tutto il mondo oggi pratica, e a ribellarvisi si rischia di parer pazzi, o peggio!». 

Nell'ultimo periodo della sua vita si stava impegnando nell'affrontare testi di argomento spirituale che probabilmente dovevano essere il suo vero testamento, ma rimasti incompiuti. Per concludere questa intervista in modo che non rimanga incompiuta ci vuoi svelare qualcosa che ritieni di fondamentale importanza? 

Maria Antonietta Portolano. Credo che vada riscritta la storia della sua “pazzia”, ma non aggiungo altro, nel rispetto dei lettori che vorranno scoprirlo nel libro. Dunque, lasciamo pirandellianamente incompiuta la risposta…

Arianna, nell'augurarti buona fortuna per i prossimi lavori intanto ti ringrazio per averci presentato il tuo libro "Una vita senza vita. Pirandello in cinquant’anni di lettere" e per la bella chiacchierata su uno dei più importanti scrittori che il nostro Paese possa vantare. 




domenica 12 marzo 2023

Luigi Natoli: “Cagliostro e le sue avventure” (1914)


Ci sono personaggi o protagonisti del nostro passato, anche non troppo lontano, che nel corso della storia vengono colpiti dalla Damnatio Memoriae e del loro passaggio in vita viene cancellata ogni traccia, o le poche tracce che se ne trovano sono tutte indirizzate a screditarne la figura. Così come è successo ad Alessandro Conte di Cagliostro (molto presumibilmente uno dei tanti nomi del palermitano Giuseppe Balsamo), condannato per eresia nel 1791 dal tribunale della Sacra Inquisizione, oltre che alla morte, alla cancellazione della sua memoria, della sua esistenza. 

Ancora oggi se si cerca su internet qualche cenno della sua vita ne esce fuori la descrizione di uno squallido figuro, semianalfabeta, ciarlatano, millantatore, truffatore, pappone e sfruttatore. Allucinato massone e goffo raggiratore di ingenue nobildonne. Un intrallazzatore che le provava tutte pur di rimanere sulla cresta dell’onda e farsi ospitare dalle corti reali di tutta Europa. Il punto è che, nelle corti reali di tutta Europa, veniva accolto davvero, ogni volta, come un salvatore. 

A gettare nuova luce sulla sua figura ci pensa nel 1914 lo scrittore Luigi Natoli con la pubblicazione del romanzo “Cagliostro e le sue avventure”. Anch’egli palermitano, Luigi Natoli si è sempre dedicato allo studio degli aspetti socioculturali della sua terra. Tutta la sua vasta produzione letteraria è ambientata in Sicilia. Magistralmente esemplare è la ricostruzione che ne fa attraverso i secoli nel suo monumentale “Storia della Sicilia”. Probabilmente uno dei suoi lavori più famosi è “I Beati Paoli”, uscito a puntate sul Giornale di Sicilia (a proseguire la grande tradizione consacrata da Victor Hugo e Eugene Sue), poi raccolto in romanzo. Considerato uno dei più grandi capolavori letterari del Novecento italiano. 

Nel caso di Cagliostro la sua attenzione si concentra su un suo concittadino di cui si erano occupati precedentemente Alexandre Dumas padre, Wolfgang Goethe e Lev Tolstoj. Se cotanti autori hanno dedicato un minimo del loro tempo ad individuo come Cagliostro forse qualcosa di buono in lui ci doveva pur essere. Oltre al fatto che sue rappresentazioni, tra sculture e ritratti, sono esposte nei musei di mezza Europa. 

Con uno stile diretto e scorrevole, del tutto inconsueto per le tecniche narrative dei primi del secolo, ricostruisce l’immagine del suo concittadino. Giuseppe Balsamo è un ragazzino inquieto che troppo presto perde il padre commerciante. Il giovane Giuseppe è attratto dall’occulto e dalla guarigione tramite vari espedienti. La madre fa un tentativo di fargli intraprendere la carriera monastica, ma, nonostante il suo amore per le piante medicinali, emerge ancora più grande, il suo amore per le donne. Fugge, quindi, dal convento di Caltagirone per tornare a Palermo. La sua voglia di conoscere il mondo lo porta a viaggiare per le città siciliane. A Messina conosce il suo primo misterioso Maestro, Altotas. Con lui viaggia per tutto il Mediterraneo, venendo a conoscenza degli antichi misteri dell’ermetismo egizio e iniziato all’ordine dei Cavalieri di Malta. Durante il suo soggiorno a Roma conosce Lorenza, la bellissima figlia quattordicenne di un fonditore, di cui si innamora perdutamente, finendo per sposarla. Nei primi anni di matrimonio, probabilmente, pur di avere qualche entrata economica, deve avere messo a punto qualche stratagemma truffaldino, oltre a procurarsi falsi titoli nobiliari. Una volta scoperti, i suoi inganni, inevitabilmente, comportavano trasferimenti improvvisi in altre città, e la necessità di cambiare nome, cambiare identità. 


Lo scrittore Luigi Natoli comprende bene l’arte di spacciarsi per un’altra persona o di trovare altri nomi. Era solito, infatti, firmare con lo pseudonimo di William Galt, i suoi articoli sui giornali e i suoi romanzi d’appendice. Non avere identità è un modo per avere tutte le identità, partecipando coscientemente all’essere assoluto. Riesce anche a provare una forte componente d’immedesimazione per le persecuzioni da lui subite. Luigi, infatti, 

proviene da una famiglia che accoglie totalmente gli ideali risorgimentali con la conseguente persecuzione da parte delle forze militari Borboniche. 


Qualche anno più tardi, durante il regime fascista, non aderisce ai dettami della tirannia, e viene ostacolato nella sua carriera di insegnante e trasferito spesso di città in città, dove comunque riesce sempre a frequentare gli intellettuali del posto. Sa che la persecuzione può avere un valore doppio. C’è chi è perseguitato e non si può difendere e chi persegue e spesso ha il potere di modificare la storia come vuole.


Quando Giuseppe Balsamo assume l’identità del Conte di Cagliostro prova a scrivere un’altra storia. Ad andare oltre… la storia. Affiliato alla massoneria londinese, incontra a Berlino il suo più importante Maestro, il monaco benedettino Antoine Pernety. Da lui apprende che non servono alambicchi e polveri, l’alchimia è una antica Arte Sacra che attinge alla Sapienza dei sacerdoti egizi, in cui la cosa più importante è la ricerca interiore che, attraverso una salita verticale trasformativa, induce l’iniziato ad entrare in contatto con il segreto del Dio Toth, l’Ermete Trismegisto dei greci: il segreto della morte e della rinascita. Cagliostro viene stimato come valente alchimista dal Cardinale di Rohan e invitato a Parigi. A Lione Istituisce una sua setta massonica, caratterizzata dai valori basati su una profonda conoscenza spirituale interiore che, oltre alla filosofia razionalista, è alla base degli ideali della rivoluzione illuminista. Si fa conoscere come guaritore formidabile: cura il corpo rivolgendosi all’anima. Puntuale e affidabile preveggente. Si fa elargire laute somme di denaro dai più benestanti ma presta la sua opera gratuitamente a chi ne ha bisogno. Viene accolto con magnificenza nelle corti reali di tutta Europa e in ogni regno in cui viene ospitato porta sempre “il più bene possibile” (cit. dal suo memoriale); ma lui è un nobile e un viandante allo stesso tempo e non fa altro che passare. Non rinunciando mai, purtroppo, alla sua altra passione: il corteggiamento e la seduzione delle giovani nobildonne. Luigi Natoli probabilmente ammira questo aspetto da amatore latino, lui che invece era votato alla famiglia e agli undici figli. Si sposa una seconda volta soltanto perché la moglie muore lasciandolo solo con i primi tre figli. La seconda moglie, Teresa Ferretti, si dimostra la donna ideale, scrittrice anche lei e figlia del fondatore della casa editrice La Gutenberg che pubblicherà tante delle opere di Luigi. 


Il modo di fare di Cagliostro, però, gli procura non pochi nemici e molto potenti. Viene perseguitato in tutti i modi, dalle accuse ingiuste alla falsificazione di notizie (oggi si chiamerebbero fake news) per calunniare la sua persona a mezzo stampa. Di fronte al tribunale dell’inquisizione anche la moglie lo abbandona. Viene accusato di aver violato la parola della Sacra Bibbia e aver manipolato le sostanze deviandole dalla natura divinamente dettata. Condannato a passare il resto dei suoi giorni nella rocca di San Leo sull’Appennino marchigiano. La data di morte, dopo anni di patimenti inenarrabili, indica il 28 agosto 1795, ma un uomo che può assumere qualsiasi identità non ci mette molto a far perdere le sue tracce. Così non si ha nessuna certezza che Giuseppe Balsamo, o il Conte di Cagliostro, o chissà chi, fosse in quella cella. Qualcuno sì… forse lui e forse no. 

Così come non muore uno scrittore come Luigi Natoli che scriveva per pura 

passione. Come si legge dal suo testamento del 1941: “dal mio lavoro non cercai la parte commerciale, ma solo la gioia che mi procurava”. 

domenica 5 marzo 2023

IL CANTO DELL'AFRICANO

Menzione d'onore nella sezione Prosa Inedita al Premio Nazionale Montano 2021



Disegno realizzato da Benito Saluzzi


Scavo. Scavo nella terra il più profondamente possibile, alla luce della luna, perché non riesco a dormire. Ho paura. Ho paura e scavo. Scavo in ginocchio su questa terra che non è la mia terra. Questa terra così scura, così dura, così simile alla mia terra ma che non è la mia terra. Mi entra sotto le unghie, come faceva la mia terra, ma non è la mia terra. Mi graffia i polpastrelli ma non è la mia terra. Questa luna così grande, simile alla luna di casa mia, non è quella di casa mia. Questa aria umida che non fa respirare non è per niente come quella del mio villaggio… e scavo. Africano qui mi chiamano e… non gliene frega niente se sono senegalese, keniota, nigeriano, togolese o anche Zulu. Io scavo come mi diceva di fare mia nonna, durante le notti di luna piena. Ho paura e scavando, come mi diceva mia nonna, mi sembra di stare un po’ a casa mia, anche se non è il mio villaggio. Mentre scavo mi viene in mente la canzone che mi cantava mia nonna quando avevo paura: “Kuna mtu shambani, kuna mtu shambani, ia ia kuna mtu shambani”. Mia nonna cantava e mi diceva di scavare, durante le notti di luna piena, quando avevo paura dei versi degli animali, delle urla del vento o mi mancavano i miei genitori. Scavavo una buca profonda per nascondere le mie lacrime. Scavavo perché mia nonna diceva che in fondo alla terra, nelle notti di luna piena, avrei trovato il seme che mi dava la forza. Non ho mai trovato quel seme ma, piangendo, ho sentito ugualmente la forza. Scavando e piangendo. Scavo in questa terra che io chiamo Europa, scavo per i miei genitori che sono morti perché volevano arrivare in Europa… loro non ci sono arrivati in Europa mentre io ci sono arrivato… Questa Europa che qui chiamano Italia… e poi la chiamano Puglia… e poi la chiamano Foggia… e poi ci sono tanti altri nomi ma io non so dove sono. Abbiamo viaggiato per ore su un furgoncino scassato e siamo arrivati in questa campagna lontana da tutto per raccogliere i pomodori… e io scavo perché ho paura. Due o tre euro all’ora per raccogliere pomodori tutto il giorno. Sotto un sole cocente che non è il mio sole. In un’aria irrespirabile che non è la mia aria. L’uomo, che ci fa lavorare, tutti lo chiamano “U Caporale”. Ha la faccia bruciata dal sole e dalla rabbia e urla in continuazione… “Te le uadagnà u páne, Te le uadagnà u páne”. In una lingua che non è la mia lingua. “Fatica, fatica, Te le uadagnà u páne”. Ogni giorno prendiamo il furgoncino scassato, ci entriamo anche in venti, stretti come bestie, e veniamo a faticare. Quel furgoncino mi fa più paura della barca con cui ho attraversato il mare. Quanti fratelli africani come me sono morti in mare, come i miei genitori… e quanti fratelli africani stanno morendo su questi furgoncini. Ho paura e scavo. Poi la notte ci riuniamo per mangiare quel poco di cibo che abbiamo e con le ossa doloranti andiamo a dormire in una capanna che non è una capanna. Poche coperte buttate su un materasso ammuffito e una lastra d’amianto per proteggerci la testa… ma io ho paura e non riesco a dormire. Non so in quanti siamo. Forse cento. Forse mille fratelli africani… ma nessuno è mio fratello. Ho paura. Riesco solo a scavare. C’è chi prega il suo Dio, c’è chi non beve la birra, c’è chi beve birra per staccare il cervello. Io scavo. C’è chi fatica così da tanti anni ed è ormai abituato, c’è chi non s’abitua e se la prende con gli altri. Nessuno è mio fratello veramente… e io ho paura. Ho paura e scavo. C’è qualcuno che scava come me… no… non come me, scava per farsi una latrina. Scavo perché poi la notte ho troppo freddo. Scavo nelle notti che fa caldo. Scavo, scavo ma non è la mia terra, non è il mio villaggio, non è la mia luna, non è il canto di mia nonna. Non è la mia lingua. Ogni giorno che passa dimentico sempre qualcosa di più della mia lingua e mi rimbombano in mente soltanto le parole del Caporale… “Te le uadagnà u páne, Te le uadagnà u páne…”… ma io non smetto di scavare. Come quando ero bambino e cercavo il seme della forza. Scavo per nascondere la mia paura. Scavo, dovessi arrivare dall’altra parte del mondo…  nel mio villaggio. Scavo per ritrovare la voce di mia nonna. Scavo e per non piangere canto, in questa lingua che lentamente sta sostituendo la mia. Scavo e canto. “Ia ia kuna mtu shambani / Ki ma dda dà stu páne? / Bibi Bibi Mungu Bwana / Ki ma dda dà stu páne? / Baba mama Mungu bwana / Ki ma dda dà stu páne? / Mimi humba, Ninakumba dunia / Mwezi utanikiliza, mi ascolterà la luna”.



Alcuni pareri dei lettori:


Poetico,Intenso e Commovente. La ripetizione dei gesti e dei pensieri, così come è descritta, fa stare male è angosciante, si prova quasi la stessa sofferenza del giovane protagonista..Ecco è così che ci sente e non è facile descriverlo. La terra, il pane, la vita, le radici, la famiglia: poche certezze per potere tirare avanti e tanto dolore. Altro che lo smalto alle unghie e tutte le altre inutilità che gravitano attorno a noi e nel web. E' un nuovo blues, è un canto triste ma voglio pensare che chi canta ha in sé speranza. Chi canta scopre la sua forza. E ' una storia dura e cruda ma è raccontata nel modo giusto. Perché serve per conoscere.Serve per capire.

Ubaldo Scifo


Sottoterra la temperatura dell'aria é costante. Sottoterra i rumori sono attutiti, solo ritmo, sordo. Scendi un pò più giù e sono annullati del tutto. Sottoterra non c'é vuoto e lo spazio, ogni centimetro, devi scavarlo a fatica. Se non ti manca l'aria, se non ti finisce la forza. La forza del passato, gli avi, tua nonna che l'ha appreso da bambina e poi ha dovuto capirlo per tutta la vita, ti rivelano il segreto della vita tutta, non solo umana, anche animale, la stessa delle piante e dei vermi. Scava oltre la tua stessa tomba. Sfonda il suolo. Accedi a un altro mondo. Sopravvivi alla tua stessa tomba. Allora sarai forte e ti sarai conquistato il diritto di vivere, che nascere non ti ha lasciato in eredità. Lotta ragazzo, lotta. Cantare parole eterne ti aiuterà... il tuo racconto é cronaca e storia universale. Mi é piaciuto molto, si é capito?

Toti Careca


Più che un racconto è quasi una canzone. Bene per il tema! Dobbiamo fare tutti insieme opera di umanità e civilizzazione.

Claudio Orlandi


Bello, bellissimo racconto Gabriele: intenso e angoscioso.

Gabriele Dodero


È già stato detto parecchio ma vorrei aggiungere che hai davvero toccato la superficie del fondo e la descrizione è inequivocabile... ed hai trovato la luce.

Marinella Ru


Il canto africano, del poeta e scrittore Gabriele Peritore, nel teatro disumano del nostro tempo si fa blues. Il ritmo, nella scrittura dell'autore, nell'anafora, incalza piu' potente della cronaca quotidiana. Un monologo - a tratti nella lingua originaria del protagonista - piu' incisivo di un Favino all'ultima edizione del Festival di San Remo. E arriva. Arriva nel profondo di noi, piu' profondo di quella terra scavata da un'umanita' vittima di chi commercia nel dolore fino alla morte, di caporali che non sono ne uomini ne persone: Infami. La sensibilita' dell'autore non e' nuova alla tematica dell'immigrazione nel nostro Paese. Parte da lontano nei versi de "I giorni Con Faqi" in A respiro trafitto, silloge edita da Edizioni del Giano nel 2004 per approdare nuovamente nel breve romanzo "L' Isola confine" per Edizioni Croce nel 2014, quel "...Confine per i naufraghi che arrivano dall"Africa. Confine per un occidentale in crisi esistenziale..." ndr Ma in Canto dell'Africano, nella lettura, d'innanzi ai nostri occhi attenti si erge l'umanita' tanto vera quanto poetica nell'universalita' del dolore che lotta con le unghie per raggiungere la luce della dignita'. L'invito e' quello di leggere Il Canto dell'africano di Gabriele Peritore per comprendere che il sudore del dolore e' pianto di una Terra Madre per ogni umanita'.

Cony Ray


Racconto breve ma incredibilmente intenso e lirico, che senza indulgere nei particolari che suscitano la lacrima superficiale e momentanea, le cui parole rimbombano nel cuore e nella mente ," scavando nel "terreno" di chi legge,per aiutarlo a trovare più facilmente i semi dell'indignazione e della non rassegnazione, divenuti, oggi più rari e più preziosi di qualunque monile.

Valerio Di Paolo


Anche per me è molto bello il racconto. Io sono cresciuta e vivo in Capitanata, la terra dell'oro rosso. Li ho visti e continuo a vederli i ragazzi nei campi assolati... nel nostro Paese troppo spesso le cose non cambiano, troppo spesso si rimane impuniti. É giusto denunciare, parlarne sempre e comunque per smuovere le coscienze... forse, chissà... ma il “raccontare” te li porta dentro certi vissuti. Ti umanizza e ti coinvolge. Grazie Gabriele Peritore per aver dato voce sommessa ad un pianto troppo spesso inascoltato.

Lucia Gargano


Mi sono presa un po' di tempo per parlarti del tuo racconto. È un argomento vivo, sanguina ancora e sanguinerà per ancora molto tempo. Scriverne è una presa in carico, è assumersi un rischio. Da un lato quello "politico", dall'altro quello di scivolare nella retorica dell'uomo bianco che parla per il nero. Però tu hai schivato tutto questo. In realtà arriva il sudore, la desolazione, la solitudine, il dolore, l'abbandono, l'aggrapparsi alla terra, al buco, ai riti e alla memoria per rimanere vivi e umani. E tutto questo è oltre il colore della pelle, oltre le proprie radici. È l'uomo.

Isabella Dilavello


La narrazione di Gabriele Peritore, la triste realtà dello sfruttamento che sfocia nella schiavitù. Da leggere e riflettere, un seme da cui far germogliare la pianta della verità e della liberazione.

Maurizio Celloni