sabato 27 aprile 2024

Andrea Camilleri: “Il colore del sole” (2007)

 
                                 

Padrone della luce e del buio, del loro contrasto che esalta il movimento, rende viva un’immagine, la distacca dalla tela quasi a permetterle di uscire; questo il talento del pittore Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. La sua vita inquieta e piena di ispirazione parla attraverso le sue opere. Apprezzato dai notabili e dagli esponenti delle famiglie più potenti di ogni luogo in cui ha soggiornato e soggiorna, riceve numerose commissioni di opere di carattere sacro o mitologico. L’attualizzazione dei contesti nelle sue opere che fa comprendere il periodo storico in cui vive è uno dei suoi segni caratteristici. Come anche i soggetti presi dal popolo, con delinquenti a impersonare santi, e prostitute di sua frequentazione a prestare la figura per rappresentare la Madonna. I suoi compari di bisca e bisboccia protagonisti nelle sue tele e dei suoi momenti ricreativi che ci riportano un suo profilo di uomo dedito all’alcol e al gioco d’azzardo, collerico e rissoso, pronto a andare dietro a qualsiasi gonnella gli si parasse dinnanzi e risoluto nel fronteggiare chiunque lo sfidasse a duello a qualsiasi costo, anche la vita. Del suo periodo romano si porta dietro la notorietà dovuta ai capolavori consegnati e la fama di fuorilegge dovuta a una condanna a morte da eseguire tramite decapitazione per avere ucciso un uomo. Dopo la fuga da Roma, in tutte le opere in cui ritrae scene di decollazione, la testa del decapitato è sempre la sua; così compare anche lui, nelle sue tele, insieme ai suoi compari, e possiamo riconoscere e conoscere il suo volto intenso. Leggenda vuole che sia fuggito a Napoli e poi da Napoli a Malta. Sempre ammirato dai suoi colleghi artisti che volevano carpirne le tecniche e perseguitato dai tutori dell’ordine. Costretto a fuggire anche da Malta si rifugia in Sicilia dove incontra nuovamente, Mario Minniti, il suo amico e allievo ai tempi di Roma. Sull’isola rimane pochi mesi, in cui lascia, però, tracce indelebili. Poi prova a tornare a Roma all’inseguimento di un miraggio di Grazia da parte del Papa, e, durante questo viaggio, per motivi del tutto misteriosi, perde la vita. Non si sa dove sia il suo corpo (sono due i comuni che si contendono le sue spoglie: Ladispoli e Porto Ercole e niente esclude che sia disperso in mare), né il prezioso materiale che recava con sé. Sul periodo siciliano di Caravaggio si concentra la ricerca di Andrea Camilleri riportata nel romanzo “Il colore del sole”. L’autore siciliano si muove nel suo territorio ideale che è quello del giallo, ma stavolta non c’è un delitto da risolvere o in cui scoprire l’assassino, in questo romanzo il mistero è legato all’esistenza di un diario di Caravaggio tenuto durante i suoi giorni passati sull’isola. Il protagonista non è il sagace Montalbano ma Camilleri stesso nei panni dell’indagatore e intenditore di opere d’arte. Si ritrova a Siracusa dopo tanti anni per assistere a delle rappresentazioni nel teatro greco ma quasi inconsapevolmente viene coinvolto in una intricata ricerca di un prezioso carteggio tra i discendenti del pittore Mario Minniti. Lo stile ironico e scorrevole è sempre quello riconoscibile dello scrittore di Porto Empedocle ma fa avvertire un notevole cambio di registro quando viene in possesso dell’antico diario. Per coinvolgere il lettore nell’intimo del pensiero caravaggiano inventa una lingua picaresca ed elegante di un italiano volgare come poteva essere quello parlato nel Seicento. Una lingua comunque comprensibile e avvincente. Non c’è altro mistero da risolvere se non entrare nelle dinamiche esistenziali del pittore geniale e vivere insieme a lui la fuga da Malta, l’approdo alla bianca scogliera della Scala dei Turchi, il viaggio verso Siracusa, il passaggio da Agrigento e l’incanto davanti alla valle greca, le commissioni ricevute nonostante la sua fama, le tecniche che utilizzava per dipingere in una terra in cui la luce è più potente rispetto agli altri posti da lui conosciuti. Il sole, rende il colore più vivo e lo deteriora più velocemente. Il rosso è più rosso, così la passione, la follia, il sangue; il nero è più nero, il lutto, le tenebre, l’ignoto. La sua è una vera ossessione per il “sole nero”, elemento che caratterizza gran parte della sua rocambolesca esistenza. Serve uno stratagemma per filtrare la luce e padroneggiarla per versarla sulla tela come uno dei tanti colori dello spettro. In Sicilia Caravaggio crea uno dei suoi capolavori assoluti: “La resurrezione di Lazzaro”. Un’opera riconosciuta a livello mondiale così come il talento del suo autore. Andrea Camilleri sembra voler suggerire che per trovare scintille di genio bisogna scavare nel passato, un passato che è glorioso al cospetto del presente scialbo e superficiale. A cui attingere per trarne insegnamenti fondamentali, da prendere come esempio, perché è impossibile cambiare l’attuale stato delle cose e pensare al futuro senza conoscere le proprie radici.

sabato 20 aprile 2024

Amore e citrosodina

Per la rubrica: PHARMASONG, la ricetta del dottor Sergio Caputo per digerire amori e altri dispiaceri.

                                         


Non puoi dire di aver amato se per questo stesso amore non hai sofferto almeno un po’.

Non puoi dire di aver amato se non sei mai andato fuori di testa fino a commettere atti di cui ti vergognerai per tutta la vita. 

Fino a pronunciare frasi insensate solo per attirare l'attenzione della persona che ami. 

Non puoi dire di aver amato se non ti sei mai presentato sotto la sua finestra con un cartello con la scritta TI AMO o quantomeno a ululare alla luna il tuo sentimento come un lupo mannaro.

Non puoi dire di aver amato se non ti sei mai arrovellato in dialoghi immaginari, dettati dall'ansia divorante delle tue ragioni inespresse.

Non puoi dire di aver amato se non hai passato notti insonni a macerarti per la sua mancanza. 

Non puoi dire di aver amato se non sei impazzito di gelosia solo perché ha dedicato un attimo della sua attenzione verso un'altra persona che non sei tu. 

Non puoi dire di aver amato se non ti sei sentito corrodere dalla gastrite quando non l'hai sentita per più di dodici ore, fissando il barattolo di antiacido, sperando che ti desse la forza di non chiamarla per l'ennesima volta.

Non puoi dire di aver amato se non hai mai provato la paura di perderla.

Non puoi dire di aver amato se non hai mai pensato che i suoi difetti siano i più grandi pregi che una persona possa avere. 

Non puoi dire di aver amato se non accetti il fatto che lei possa non amarti più e desiderare comunque la sua felicità. E ringraziarla in ogni caso per averti fatto provare l'unico sentimento per cui valga la pena vivere, nonostante la gastrite. 

Chissà se può bastare una vagonata di citrosodina, come cantava Sergio Caputo in uno dei suoi più celebri brani, Bimba se sapessi (contenuto nell'album “Un sabato italiano”, 1983), che, in realtà, tutti conoscono con il titolo Citrosodina, perché è così che è stata registrata e pubblicata. Ma, dopo qualche mese, Caputo riceve una telefonata dall'industria farmaceutica che produceva il digestivo, che gli comunicava che essendo un medicinale, era tenuto a menzionare la dicitura "è un medicinale, leggere attentamente le avvertenze e le modalità d'uso", se non voleva incorrere in delle salatissime multe.

Fu così che il titolo fu cambiato in Bimba se sapessi e furono reincise le prime parole del brano, mutandole in "idrofobina vegetale" (che non esiste in natura) al posto di "citrosodina granulare". 

La composizione della citrosodina, basata su bicarbonato di sodio e citrato di sodio, invita, effettivamente, alla leggerezza, perché aiutando la digestione, riduce la pesantezza di stomaco. Sono entrambi blandi antiacidi che trovano largamente uso nell'industria alimentare come tamponi per l'eccesso di acidità dei cibi e come conservanti. Anche se l'utilizzo prolungato può causare esattamente l'effetto opposto e creare altre problematiche a livello renale. 

La leggerezza è alla base dello swing che propone Caputo. Una leggerezza in grado di far superare tutte le abrasioni che la vita ci impartisce, buttandosi a capofitto nella vita notturna, fatta di illusioni e disillusioni, comunque sempre sfavillanti.

Negli anni a seguire anche Ligabue (Tra palco e realtà) e Vinicio Capossela (Amico ingrato) citeranno degli antiacidi come Maalox e Geffer nei loro testi, ma queste sono altre storie.


Sergio Caputo 


Bimba se sapessi (Citrosodina)


Idrofobina vegetale (Citrosodina granulare)

Bevo per dimenticare il mal di mare

Viscerale che questo mondo mi da

Respirazione artificiale

Per resuscitare il vecchio buon umore

Fai il favore, non criticarmi perché

È sempre più difficile

Tirare avanti questo show

Mi fanno male i piedi a furia di ballare

Un pediluvio nel tuo cuore mi concederò

Bimba se sapessi che monotonia

Tutte quelle balle sulla fantasia

Guarda che mestiere che mi tocca fare

Io con questa faccia e il mio passato da dimenticare

Bimba non è un caso di nevrastenia

Puoi denominarlo spreco di energia

Tutta la fatica che mi tocca fare

Solo per riuscire a galleggiare in questo pazzo mare

Abito qui, perché non sali?

Ho una collezione di medicinali e due bicchieri

E avanzi del pranzo di ieri

Ci sono tante sfumature

Anche nel colore delle scottature

Le abrasioni che questa vita ci fa

Mentre inesorabili

Tiriamo avanti questo show

Ho un forte mal di testa a furia di sgolarmi

Con un tuffo nel tuo cuore mi rinfrescherò

Bimba se sapessi che monotonia

Tutte quelle balle sulla fantasia

Guarda che mestiere che mi tocca fare

Io con questa faccia e il mio passato da dimenticare

Bimba non è un caso di nevrastenia

Puoi denominarlo spreco di energia

Tutta la fatica che ci tocca fare

Solo per riuscire a galleggiare in questo pazzo mare








sabato 13 aprile 2024

Come nella Lirica, Croce e Delizia al Cor

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice  Stefania Giammillaro sull'intensità della poesia, come nella Lirica, a volte Delizia, a volte Croce.


Stefania Giammillaro (Messina, 1987). Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto Processuale Civile (UniPi). Ha pubblicato: Metamorfosi dei Silenzi, Edas, 2017, e L’Ottava Nota – Sinfonie Poetiche, Ensemble, 2021 e fa parte con suoi componimenti di diverse Antologie. Performer poetico – teatrale, cura gli eventi letterari presso il Caffè Letterario Volta Pagina di Pisa e la Libreria Civico 14 di Marina di Pisa. Fa parte della redazione del Lit-blog “Le Finestre de L’Irregolare”. Nel 2024 la sua prima collaborazione cinematografica per il cortometraggio “Fidati di me”, incentrato sulla violenza di genere, in veste di autrice del monologo finale.

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione? 

Da quando mi sono trasferita a Pisa, credo. Perché da quel momento ho realmente compreso quanto la poesia possa rappresentare uno snodo fondamentale, non solo per veicolare emozioni, immagini, sfumature, sensazioni, ma anche e soprattutto quanto costituisca luogo e occasione di incontro in questo comune sentire umano-universale. Non che prima fossi chiusa nel mio guscio, ma è stato un progressivo aprirsi da crisalide ad una bellissima farfalla, che spicca il volo verso mete inesplorate. Il saluto alla terra natia, ai luoghi comuni, agli amici di sempre, ha permesso alla poesia di farsi forza e di occupare il posto che (forse) da sempre le spettava nella mia vita anche attraverso i contatti che mi ha permesso di creare.

Che rapporto hai con la poesia? 

Ho sempre usato l’espressione “Croce e Delizia”, mutuata dal titolo di una nota aria de “La Traviata” di Giuseppe Verdi, per descrivere il mio rapporto con la poesia: è come se non ti fermassi mai di “pensare”, o meglio di “rimuginare” e di “provare”, “accorgerti”, e al contempo vorresti non sentire, non notare, non percepire e invece certe evidenze ti si palesano con tutta la loro forza e tu non puoi che renderti strumento della “Musa” che irrompe a gamba tesa nel tuo quotidiano. Così, scrivo. Penna e taccuino in ogni borsa e via.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico?

Sono d’accordo: la parola è abusata e al contempo “svuotata” ed impoverita. Si legge sempre meno, sempre meno si conosce l’infinita varietà semantica di ogni parola o come un concetto possa essere espresso in infiniti modi diversi. Sarebbe bello recuperare il desiderio, la curiosità di sfogliare gli ormai vecchi “dizionari” per mettersi alla prova, per verificare quante parole si conoscono aprendo una pagina a caso. E da lì costruire tassello dopo tassello la propria personale muraglia di associazioni, di evocazioni, di immagini, di stupori. La mia insegnante di filosofia diceva sempre che la “sintesi implica l’analisi” e per riuscire ad andare all’osso di ciò che s’intende significare, occorre scandagliare prima sino al più piccolo dettaglio verbale, linguistico, d’accezione e poi abbracciare il mondo, ma proprio tutto, raccogliendolo in un verso.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale?

Non occorre che competa, non sussiste termine di paragone. L’intelligenza è e resterà sempre prerogativa esclusiva della mente umana, la stessa “intelligenza artificiale” ne è suo prodotto (o misera derivazione?) non bisogna mai dimenticarlo, per non farci sopraffare. E’ importantissimo che la scienza faccia progressi, ma per rendere l’uomo migliore, non schiavo di se stesso.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare? 

Mi è capitato negli anni di raccogliere molti più entusiasmi e consensi con le mie poesie in vernacolo siciliano e sai cosa succedeva? Mi dispiacevo! Stranissimo vero? Anziché essere contenta… Eh, ma noi “artisti” difficile che lo siamo vero? Insomma, anche in questo caso, seppur per ragioni diverse, si ripropone la famigerata “Croce e Delizia” di cui sopra: il mio amato dialetto, da me stessa bistrattato non appena acclamato, insomma, una vera e propria contraddizione in termini! Ebbene, siccome ultimamente è proprio la mia ultima poesia in vernacolo siciliano ad essere riproposta, la quale effettivamente esemplifica al meglio il mio viscerale rapporto con il mare e, per esso, con la mia terra; scelgo di condividere qui una poesia in lingua, nella quale mi riconosco, anzi, mi vedo nitidamente perché suo tramite mi piacerebbe che anche chi la leggesse, non solo si ritrovasse, ma avesse una reale, profonda voglia di vedersi e accogliersi esattamente per come è.

È storia ormai

la tua luna tra le dita

Un disegno di un bimbo

a forma di cuore

dove tu sei casa

e lui il sole

Non si dimentica, sai

un prelavaggio lungo

quaranta gradi

ad impegnare domeniche

prive di ritardi

Sei quel mai, senza perché

nell'adesso dei silenzi

nessuna spiegazione

per i soldi da contare

È storia, sai

il lieto fine ai giorni storti

che più non cerco

e non ti cerco

e il mio nome termina con me.


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni?

Sono fiduciosa: sì. Non depreco i nuovi canali attraverso i quali poter veicolare anche la poesia. Affinché si scardini il triste mito che la poesia sia un genere di nicchia o possa fruirsi solo nelle noiose lezioni di letteratura a scuola; è bene, è utile che si incentivino i social nella divulgazione del dire e del sentire poetico. La poesia quale fenomeno umano deve assecondare il divenire, il trasformarsi del sociale, non deve spaventarsi affinché non spaventi. Certo, per me sarà sempre meglio preferire un bel libro o un bel quaderno per leggere e per scrivere, ma credo che anche seguire le pagine Instagram  dedicate alla poesia e alla letteratura è sicuramente un modo per avvicinare i giovani ad entrambe.





venerdì 12 aprile 2024

Il gusto della vittoria

 



Felicissimo per questo premio!!!

Orgoglioso del fatto che una mia opera sia stata ritenuta degna di vincere quello che considero uno dei più importanti concorsi letterari a livello nazionale Concorso Sinestetica.

https://www.concorsosinestetica.it/

Un premio che va equamente condiviso con il grande musicista Rough Max Pieri, il primo a credere nel testo e a realizzare l'ipnotico groove che lo esalta, e con mio figlio Luigi F. che ha curato la regia del video insieme a me.

Ringrazio la giuria tutta del concorso che ha deciso di assegnarmi il premio, soprattutto nella persona del Direttore Artistico Luigi Colagreco che mi ha contattato per comunicarmi la vittoria... E da quel momento non ho capito più niente 😂😂😂.

Ci vediamo a Pescaaaraaa 










sabato 6 aprile 2024

T- Bone Walker: T-Bone Blues, T-Bone Rock



Se il Blues è così come lo conosciamo adesso, un genere che attraverso la sua struttura musicale può esprimere il lamento profondo dell'anima, ma allo stesso tempo è in grado di intrattenere ipnotizzando con il giro di basso e mettendo voglia di dimenarsi in balli sensuali e poi ancora di esprimere il talento virtuoso dei musicisti che grazie al largo spazio di improvvisazione possono sbizzarrirsi al meglio ammaliando con il loro linguaggio creativo, probabilmente, gran parte del merito è di artisti come T-Bone Walker, che hanno saputo sintetizzare le lezioni di maestri come Blind Lemon Jefferson, di cui è stato allievo in adolescenza, Lonnie Johnson (vedi sotto), o Meade Lux Lewis (vedi sotto) contaminandole con le sonorità provenienti dalle regioni di Los Angeles e tra i primi ad elettrificare il suono della chitarra.

Così se B.B. King o Muddy Waters hanno potuto sviluppare il loro stile alle sei corde, polposo e vellutato, lo devono ai fraseggi veloci, elettrici e densi di T-Bone, e lo stesso si può dire di Jimi Hendrix che struttura la tecnica sensuale, potente e acrobatica, emulando i funambolismi in cui si lanciava Walker al culmine dell'esibizione; portava la chitarra dietro la nuca, con le gambe in spaccata, non sbagliando un accordo o usava tutto quello che gli passava tra le mani, una bottiglia, un accendino, la cinghia di una cintura, facendolo planare sulle corde come una tavola da surf sulle onde, non perdendo mai la qualità espressiva.

Aaron Thibeaux (T-Bone) Walker nasce da genitori musicisti, sangue misto di padre afroamericano e madre Cherokee, cresce tra gli strumenti come fossero giocattoli. A dieci anni sa già suonare quasi tutto. A tredici è già un professionista, dopo aver accompagnato per le strade del Texas, uno dei riconosciuti padri del Blues Blind Lemon Jefferson. A diciannove anni può già incidere il suo primo brano Whichita Falls Blues, che segna il suo debutto discografico.

Nel 1934 si trasferisce a Los Angeles dove vive un ulteriore intenso periodo di formazione artistica e sentimentale. Conosce e sposa Viola Lee, si esibisce nei locali più affollati della Avenue più in voga anche come provetto ballerino.

Grazie alla continua collaborazione e interazione con musicisti che provengono da ogni parte del Paese può mettere a punto la sua tecnica che fonde il picking primitivo di Blind Lemon Jefferson, il fraseggio veloce di Lonnie Johnson e le tessiture creative del Jazz, trovando la giusta sintesi in uno stile fluido, oleoso, massaggiante, che si amalgama al timbro vocale fumoso e proveniente direttamente dalle profondità dell'anima. 

Tutta la tecnica acquisita in quegli anni confluisce nel brano Mean Old World, del 1942, in cui canta di un distacco amoroso. Nel 1946 arriva il momento di registrare il suo brano più celebre in assoluto Call It Stormy Monday che spicca per la sua capacità di suonare su una singola corda tutte le note possibili. È il brano che mostra al mondo il suo genio.

Ma al contrario di quello che ci si possa aspettare la sua carriera non decolla come dovrebbe. Nonostante festival che lo vedono come protagonista e altre pregevoli registrazioni il suo nome scivola inesorabilmente sempre più verso l'oblio, fino al decesso per ictus cerebrale nel 1975.

Forse il suo stile era troppo innovativo rispetto ai tempi e fortunatamente compreso da musicisti che lo hanno eletto come loro nume tutelare.

A me piace rivedere i vecchi filmati in cui molleggia, magari insieme a Chuck Berry, sorseggiando un gin tonic e suonando con passione estatica, e sembra che la musica possa vivere momenti di leggerezza e divertimento anche se proviene dai tormenti dell'anima, e tutto questo mi sembra Blues, tutto questo mi sembra Rock'n'Roll.







Per chi avesse desiderio di conoscere qualcosa in più su Lonnie Johnson può cliccare qui sotto 👇

Per chi avesse desiderio di conoscere qualcosa in più su Meade Lux Lewis può cliccare qui sotto 👇 



















sabato 30 marzo 2024

1988. The Church. “Starfish”

 


Mentre scintillavamo come stelle, al culmine dell’illusione, involontariamente ci stavamo perdendo. Mentre ci consumavamo al massimo dello splendore sfavillante ci stavamo smarrendo. Inebriati dal luccichio delle paillettes degli anni ottanta non ci rendevano conto che stavamo per essere inghiottiti nel buco nero degli anni a seguire. Non sapevamo davvero quello che stavamo cercando, pieni di energie, con la voglia di saltare sul mondo, di spaccare tutto e ogni cosa proibita o meno sembrava a portata di mano. Edonismo narcisista e individualista, arrivismo esasperato, rampante, sostituivano i valori degli anni precedenti, l’idea dell’amore libero e la dilatazione dell’anima per una maggiore consapevolezza di sé, il collettivismo e la lotta al potere. I soldi sembravano girare facilmente e quei soldi anche se insanguinati ci facevano raggiungere le nostre comodità, i nostri squallidi, falsi, miti. Quello di cui avevamo realmente bisogno, da sempre e per sempre, erano le sostanze, sostanze che ci facessero perdere la cognizione di quello che avevamo perso, e di quello che stavamo perdendo ancora. Che ci facessero perdere la cognizione della nostra identità. Alcool o droghe per sopperire a tutto questo. Le sostanze pericolose venivano nascoste negli anfratti bui, nei cessi delle stazioni notturne o nelle periferie senza controllo. I treni arrivavano e partivano per nuove destinazioni. Si poteva cambiare pelle ogni giorno come un viscido e potente rettile. E ogni volta era un successo. Ogni nuova alba era un successo. Dopo la notte vissuta a inseguire la via lattea senza sapere davvero dove andare. I punti cardinali scossi e rimescolati nell’incavo delle nostre mani come fossero dadi impazziti di un gioco divino e infantile. La somma dei numeri era sempre inferiore a quella scommessa. E comunque facevamo scommesse sempre più grandi. Potevamo sintonizzarci con tutte le correnti più intense e scorrere, scorrere via incontrollati. C’erano ancora angoli del pianeta che scintillavamo per noi, che ci riservavano qualche scintilla personale. In fondo al mare come una stella marina o dentro un vulcano, o nella galassia più lontana. Il massimo del piacere. Sì, avremmo potuto rinascere, vivere una nuova stagione ma abbiamo preferito perderci, perderci inesorabilmente nel grembo che ci ospitava, fosse un amore passeggero, o una sbronza, o un viaggio fortunato. Nessuno dio, nessun valore, nessuno futuro. Solo altre piccole, Improbabili, sempre più rare, scintille personali. Suonavano The Church, con il loro album "Starfish”, nel mio mangianastri portatile e in qualche modo riempivano il vuoto lacerante che si era creato dentro di me nel 1988. Il più doloroso che si possa immaginare per un ragazzo. La perdita del padre. Un vitale punto di riferimento. L'unico modo per non soffrire che la mia mente pseudo adolescente mi suggerì fu quello di cancellare ogni sensazione. Ricordo. Emozione. Una tabula rasa. Come se non avessi mai vissuto. Così mi ritrovo a Palermo,  agli inizi degli anni novanta, chiuso in me stesso, a studiare chimica, con la necessità di aggiungere esperienze forti al mio bagaglio da rampollo di provincia. Una delle prime emozioni fu l'ascolto di Starfish, passatomi, due anni dopo l'uscita ufficiale del disco, in un'audiocassetta registrata, in maniera casalinga, come una dose presa da uno spacciatore, da una delle prime persone che ho conosciuto a Palermo, un ragazzo di cui adesso non ricordo più il nome, ma a cui sarò per sempre grato. Del tutto inconsapevolmente mi passò uno dei dischi più rappresentativi di quegli anni. Palermo era bellissima. Aveva già l'aria di una metropoli esotica, con i suoi mercati le sue cupole arabe, i profumi del porto e le architetture normanne tra quelle abusive. Con il suo fascino ancora pericoloso e tremendamente accogliente per uno studente. La meraviglia era così grande che non ci siamo mai accorti che in quegli anni si combatteva una guerra intestina. Ogni mattina, al risveglio, la notte ci restituiva, dal suo fondale di tenebre, un morto ammazzato per mano mafiosa, mentre la vita continuava come se niente fosse. Si combatteva. Qualcuno moriva, qualcuno lottava per un concetto astratto di giustizia, qualcuno rivendicava la propria giustizia personale, qualcuno ambiva al Potere, mentre io dovevo assolvere soltanto al mio dovere di studente. Non c'erano i lustrini e la spensieratezza degli anni ottanta. Ero perso tra le volte di fumo del mio vuoto. E anche se Palermo era bellissima, io ci ho messo un po’ prima di amarla. Sognavo sulle note di Starfish seguendo le crepe dei muri della mia stanza, con i sogni che sprizzavano incontenibili da quelle crepe. Ero giovane e avrei potuto innamorarmi. Ma forse ero troppo giovane e continuavo a innamorarmi della donna sbagliata. Erano troppe le scale da fare e il sogno aumentava per ogni rampa che superavo. Quando sono arrivato sulla cima, il piacere era bello, bellissimo, ma meno del sogno. Non avevo ancora trovato la mia scintilla personale. Quella maledetta tendenza a sognare mi ha fottuto la vita, ma era comunque la cosa più bella che mi potesse capitare. Forse era quella, sì, era quella la mia scintilla personale. Ritrovandomi, come sempre, col culo sull’asfalto e magie nelle tasche.


The Church nel 1988: Steve Kilbey: Basso, voce solista. Peter Koppes: Chitarra, voce solista in A New Season. Marty Willson-Piper: Chitarra, voce solista in Spark. Richard Ploog: Batteria, percussioni. 


Tracklist: 1. Destination. 2. Under the Milky Way. 3. Blood Money. 4. Lost. 5.North, South, East and West. 6. Spark. 7. Antenna. 8. Reptile. 9. A New Season. 10. Hotel Womb




domenica 24 marzo 2024

Giuseppe Bonaviri: “Il vicolo blu” (2003)

 


C’è una Sicilia magica caratterizzata da un animismo profondo che pervade ogni elemento della natura. Come se lo scricchiolio delle foglie nel sottobosco fosse dotato di vita propria, o l’ombra che si allunga o si accorcia in base alla posizione di un lume, fosse viva. Così anche l’effusione lattiginosa dell’alba ha una sua segreta essenza, per non parlare del rotolare incendiario del tramonto. Il belare impazzito di un caprone, lo sprofondare di un seme nel grembo della terra, il suo perdersi nell’oscurità, il ritorno alla luce, il suo germogliare e la sua raccolta, tutto può essere propiziato da un antico rituale contadino, o da incantesimi di bambini. D’altronde anni di dominazione araba avranno pur lasciato un segno. Su un altura, nella campagna, poco fuori la cittadina di Mineo, c’è una grande pietra piatta dove si radunavano poeti contadini da ogni angolo dell’isola e declamavano a braccio le loro composizioni estemporanee. Lo scrittore Giuseppe Bonaviri, nato proprio in quel paese, affascinato da questa tradizione, intende, fin dal suo primo lavoro “Il sarto della stradalunga”(1954), riportarla in vita e ripercorrerne il filone magico. Tutta la sua straordinaria produzione è ambientata in Sicilia e soprattutto nei suoi luoghi natii. Basta dare un’occhiata ai suoi lavori di narrativa, citando tra gli altri “La divina foresta”(1969), “Notti sull’altura” (1971), “L’isola amorosa” (1973), o alle sue raccolte di poesia, come “Il dire celeste” (1976) fino a “I cavalli lunari”(2004), per rendersi conto della sua volontà ferma di esplorare, e illuminare di nuovo chiarore, l’intreccio culturale che permea ogni espressione vibrante della sua terra. Con il romanzo “Il vicolo blu” pubblicato nel 2003, fa un tuffo nel passato di quasi cinquanta anni per ripercorrere la stradalunga del sarto che, non era nient’altri che suo padre. Proprio l’anno dopo aver perso quasi tutti,  tranne una, tra fratelli e sorelle, a lui Giuseppe, che era il più grande di cinque figli, non rimane che la memoria per sfuggire al nulla che inghiotte senza ritegno. L’unico balsamo che può lenire le artigliate di una morte obliante. Una memoria di rarefatti ricordi e invenzioni, trasposizioni di esperienze realmente vissute o di come avrebbero potuto essere se vissute davvero. Trasferendo ogni elemento in un periodo di tempo in cui stavano tutti insieme. Il padre, la madre e i cinque fratelli. Prima che si disperdessero per andare a cercare lavoro. Prima che Giuseppe partisse per Frosinone per svolgere il suo mestiere di medico… molto prima: il tempo dell’infanzia. Infatti i protagonisti sono loro bambini, che scoprono il mondo con i loro occhi sognanti, curiosi ed inesperti. Vivono il trasferimento dal paese verso l’altura di Camuti come un vero e proprio viaggio iniziatico. Verso il buio e la luce insieme… ed è un gioco visionario di chiaroscuri lo stile che sceglie Bonaviri per descrivere questa dimensione incantata. C’è un forte legame tra immagini, parole e emozioni che vuole trasmettere. Così ogni volta che i protagonisti bambini si apprestano a vivere un accadimento,  o a scoprire qualcosa di sconosciuto,  anche la scrittura cambia, si adegua alla situazione, sempre con ricchezza di lessico e terminologia. Per dipanare la nebbia della vita e quella della memoria, serve un linguaggio nebuloso, come un filo di nuvole che ricuce tutto e che conduce oltre ogni nebbia, in un tempo senza tempo, un tempo eterno, il tempo del cosmo. Fatto di cicli stagionali, mensili, quotidiani. I bambini possono assistere alla crudeltà della natura senza esserne scioccati, perché questa crudeltà rientra nel ciclo cosmico… ed è magia. Possono assistere all’uccisione di un capretto ma anche alla composizione di una laude per violino da parte dei contadini in onore della vittima. Possono assistere all’incagliarsi delle ali di un passerotto tra le spine dei fichi d’India ma anche all’apertura delle foglie della stessa pianta per curare le ferite. Possono scoprire le prime pulsioni della sessualità; tutto è materia, densa materia. Lo stesso vale per il modo di narrare i vari quadri da parte di Bonaviri, da ogni parola ne deve estrapolare la materia, il colore, il suono, il gusto, l’olfatto, il tatto. E si serve di tutte le parole che conosce per cogliere l’anima di ogni cosa, riportare in vita le deità liberatrici e descrivere, il gemmare dei mandorli, o lo schioccare della pioggia, il battere del fabbro o il movimento delle ombre. La sofferenza dei papaveri recisi durante l’aratura o il soffio del vento. Si serve dell’italiano, ma l’italiano non basta; si serve del dialetto ma non basta neanche quello. Inventa parole, le scova dalla terminologia medica, botanica, contadina, astronomica. Solo così si può comprendere il perché il vicolo dove vivono i bambini è un vicolo blu: con la descrizione dell’aria; che prima è un leggero blu instabile, poi caligine bluastra, poi ancora un’aria pendula tinta di blu e quindi un aura cenerognola. Poi il suono: una voce maschile che dice che c’è solo il nulla e una dolce voce femminile che dice che tornerà la luce. Il ciclo cosmico si chiude. Così come si chiude il ciclo letterario di Giuseppe Bonaviri. Prima della sua morte, avvenuta nel 2009, ci saranno altre uscite, vale la pena ricordare “L’incredibile storia di un cranio” (2006) o “Autobiografia in do minore”(2007), ma con la pubblicazione del romanzo “Il vicolo blu”, nel 2003, quando stava per compiere quasi ottant’anni, che si ricongiunge alla sua prima pubblicazione “Il sarto della stradalunga” del 1954, per Bonaviri equivale alla chiusura ideale del cerchio letterario… e quindi cosmico.