domenica 28 gennaio 2024

Il farmacista

Per la rubrica: PHARMASONG



Nel 2021 Max Gazzè presenta al festival di Sanremo un brano ipnoticamente incalzante,  come è consueto nel suo stile, e condito da una grande dose di ironia, che descrive la figura di un farmacista, un po' alchimista, un po' venditore di fumo,  in cui, in qualche modo, mi ritrovo (autoironia,  eh). Suggerendomi, per deduzione, il titolo per questa nuova rubrica, in cui mi vorrei occupare del legame tra la chimica e la musica. E soprattutto sull'influenza che la musica può avere sul nostro organismo, migliorandone la chimica attraverso le giuste vibrazioni, fino a esercitare effetti benefici sulla salute. 

Anche se in maniera giocosa, lo stravagante Max, cita dei farmaci che solo al sentirli nominare, un farmacista serio avrebbe immediate crisi  isteriche, ma in arte tutto è concesso. 

In arte è permesso divertirsi con la trifluoperazina, un antipsicotico, con il secobarbital, un barbiturico, o con il pindololo, un betabloccante che agisce sulla pressione arteriosa e sul ritmo cardiaco. Nella realtà utilizzarli senza il controllo medico sarebbe deleterio. Anche il dimetisterone e il norgestrel,  in quanto progestinici, è sempre meglio trattarli con estrema attenzione. Solo un provetto farmacista previdente e preveggente, finanche visionario, come Max Gazzè, può maneggiarli con la fantasia fondamentale per sprigionare la creatività. E allora ci mettiamo pure lo Stramonio, erba del diavolo o delle streghe, che per i suoi alti contenuti di atropina e scopolamina ha effetti allucinogeni e venefici. Come sono accostate alle streghe anche il noce e i suoi frutti. Rimedi naturali energizzanti e stimolanti come guaranà, tè verde, senza dimenticare, per contrasto, il fiore della passione, la passiflora, e i suoi effetti sedativi. Sulla stessa linea troviamo zafferano e trifoglio rosso, quest'ultimo ricco di bioflavonoidi. Degni di nota, perché spopolano in questo momento in farmacia, i fiori di Bach e l'olio essenziale di lavanda per i loro molteplici effetti benefici, in grado di rilasssare l'organismo in modo genuino, contrastando il logotio della vita moderna, facendoci sentire tutti più vicini alla natura e un po' stregoni. 

Più vicini alla magia di una canzone. 

Alla fine, però, l'ingrediente più importante è la polvere d'amore, sempre per citare il Nostro Max. 


Max Gazzè


 Il farmacista 


Si può fare

Polvere d'amore, tè verde, due bustine

E non mi dici più che non ti va

Dimetisterone, poi Norgestrel in fiale

Per chiuderci una notte in camera

Son tutte soluzioni al naturale

Amore mio, vedrai che male non ti fa

Te le ho create io, ma in nome della scienza

Per quella tua tendenza alla rigidità

Trifluoperazina, stramonio e pindololo

E un pizzico di secobarbital

Somministra prima di un logorroico assolo

E via anche questa smania di parlar

Non c'è neppure controindicazione

Amore mio, ti dirò come si starà

Senza il pesante tuo brusio

Da conferenza che mi rompe l'anima

Io ho la soluzione (Si può fare)

Per un tormento che attanaglia

Punto debole o magagna

E qualsivoglia imperfezione

Per tutto invento, stai tranquilla

Una biochimica pozione (Ma che cos'è?)

È quel miracolo che non ho visto mai

In nessun'altra se non te dopo la cura

E stai sicura che stavolta è quella buona

E presto mi ringrazierai

Noci, zafferano, lavanda e passiflora

Poi ci mettiamo anche del guaranà

Travasare piano l'essenza su verdura

Contro lo shopping è una favola

E per i troppi tuoi salti d'umore

Fiori di Bach, e aggiungo vitamina E

Ma addizionando del trifoglio rosso

Posso cancellarti anche lo stress

Io ho la soluzione (Si può fare)

Per la pettegola che origlia

Vanità, coda di paglia

E qualsivoglia imperfezione

Per tutto invento, stai tranquilla

Una biochimica pozione (Ma che cos'è?)

È quel miracolo che non ho visto mai

In nessun'altra se non te dopo la cura

E stai sicura che stavolta è quella buona

E presto mi ringrazierai

Ma adesso aspetta, cara, c'è un problema

Questa camicia m'incatena un po'

Me l'hanno stretta a forza sulla schiena

Non chiedermi perché, io che ne so?

È quel miracolo che non ho visto mai

In nessun'altra se non te dopo la cura

E stai sicura che stavolta è quella buona

E presto mi ringrazierai

Io ho la soluzione (Si può fare)

Per un tormento che attanaglia

Punto debole o magagna

E qualsivoglia imperfezione

Per tutto invento, stai tranquilla

Una biochimica pozione (Ma che cos'è?)

È quel miracolo che non ho visto mai

In nessun'altra se non te dopo la cura

E stai sicura che stavolta è quella buona

E presto mi ringrazierai


                                        

domenica 21 gennaio 2024

“Dal ponte più alto”

 Chiacchierata con Filippo Chiello



Siciliano che vive a Torino, Filippo Chiello è un autore con all’attivo diverse pubblicazioni e, oltre la scrittura, tra le sue passioni troviamo anche il viaggio. L’inquietudine che lo spinge a spostarsi è, probabilmente, la stessa che lo spinge a scrivere. L'ho incontrato per farmi raccontare qualcosa delle sue esperienze vissute attraverso le sue passioni. 

Prima di arrivare al tuo ultimo romanzo “Dal ponte più alto”, è opportuno fare un excursus di tutte le altre opere, perché la tua attività di autore inizia nel 2005 e hai scritto per il teatro, oltre che dei racconti e dei romanzi. Proprio da una pièce teatrale inizia la tua carriera… 

“Dopo avere frequentato la scuola di teatro Viartisti, recito e mi dedico sempre più alla parte drammaturgica. Ho scritto per il teatro “Luggage” e “A Chi Tocca”. Quest’ultima pièce mi ha dato parecchie soddisfazioni sia per come è stata accolta dal pubblico sia per le recensioni della critica. Per qualche anno ho collaborato con Cascina Macondo di Torino, promuovendo attraverso iniziative e incontri la lettura ad alta voce. Pubblico nel 2005 la raccolta di racconti “Destini” (Edizioni Novecento). Dal racconto omonimo viene tratta una piccola pièce che vince la rassegna teatrale Rigenerazione. Nel 2010 esce, per Robin Editore, il mio primo romanzo “Via Santa Chiara 15”. Nello stesso anno la rivista letteraria Stilos (novembre 2010) pubblica l’articolo “Metamorfosi di una città diventata Polo Europeo” nel quale intervista alcuni scrittori torinesi tra cui Baricco, Oggero, Pandiani, Perissinotto e il sottoscritto. Qualche anno dopo pubblico il racconto lungo “Il sangue degli altri” inserito in “Bottega Baretti” (Robin Editore) e il romanzo “Lo diceva Picasso” (2018, Sillabe di Sale Editore)”.  

Un lungo percorso, come quello di un viaggiatore appunto, ma in questo caso della scrittura, che ti ha portato a sondare varie forme. Hai riscontrato, se c’è, un filo conduttore tra le tue varie opere?

“Tutte le storie che ho raccontato sia in forma narrativa che teatrale hanno una forte connotazione esistenzialista. Non c’è vita che a un certo punto non si attorcigli attorno o non sbatta contro le poche ed essenziali domande senza risposta che hanno a che vedere con il senso ultimo della nostra esistenza. Un altro elemento costante è la tensione che porta i personaggi a uscire dalle loro gabbie, reali o immaginarie. In “A Chi Tocca”, per esempio, ci sono quattro personaggi che si trovano a convivere in uno spazio chiuso e angusto. Fuori dalla loro stanza incombe una realtà pericolosa e ambigua e loro sono costretti a uscire uno alla volta per proteggersi a vicenda. Alla fine però si libereranno e troveranno il coraggio di affrontare la vita vera. Nell’ultimo mio romanzo, “Dal ponte più alto” (in lavorazione), accanto alla dimensione esistenzialista, appaiono temi più legati alla contemporaneità e ad alcune sue derive distopiche: la paura come emozione permanente, il controllo sociale, il fine vita, la violenza di genere, la presenza sempre più invadente dell’intelligenza artificiale.  

“Lo diceva Picasso”, la tua pubblicazione più recente,  uscito nel 2018, potremmo definirlo un romanzo nel romanzo, e la trama, che tocca, varie tematiche, si snoda attraverso un viaggio lungo la Penisola. Pensi che il tema del viaggio possa essere un tema ricorrente nelle tue opere? 

“Il tema del viaggio è presente in “Luggage” per il teatro, e nei romanzi “Lo diceva Picasso” e anche in “Dal ponte più alto”. Però viaggiare può voler dire mille cose diverse. Semplicemente spostarsi da un luogo a un altro mantenendo inalterate le proprie abitudini e le proprie esigenze, per esempio. Viaggiare in questo caso è solo un diversivo, un’interruzione della routine, uno status symbol. Oppure può voler dire rinunciare al proprio mondo per mescolarsi con altri, accettando i rischi della contaminazione o di scoperte poco rassicuranti. Spostarsi verso posizioni altre, diventare altri. Il mio ultimo romanzo “Dal ponte più alto” è ambientato su una nave da crociera dove, peraltro, io ho lavorato per nove mesi. Ricordo che un giorno attraccammo in un porto marocchino, credo fosse Agadir e io non potei scendere in quanto di turno sulla nave. Erano rimasti pochi turisti a bordo e io che per lavoro  dovevo fare conversazione chiesi a uno di loro come mai non fosse andato in escursione con gli altri. Mi rispose che non amava mescolarsi con la gente del luogo, che non sopportava tutti quegli odori e colori così diversi. Un altro giorno accompagnai un gruppo di turisti italiani in escursione a Damasco e ricordo che la guida ci portò a pranzare in un lussuoso ristorante dove avremmo assaggiato l’alta cucina siriana all’ultimo piano di una torre che ci concedeva anche un panorama mozzafiato. Bene, una parte del gruppo mi “costrinse” a chiedere, come rappresentante della nave, al personale del ristorante di poter avere un menù italiano o almeno un piatto di spaghetti al pomodoro. Furono accontentati ma nonostante tutto si lamentarono lo stesso in quanto la pasta non era al dente. Questi due aneddoti sono un esempio di come viaggiare possa essere un semplice spostamento fisico in cui ci si muove con la propria vita incrostata sulle spalle e non la si molli neanche per un attimo.  In “Lo Diceva Picasso”, Antonio Mondelli compie un viaggio a piedi che lo porterà dal nord Italia giù fino in Sicilia. Compiere un’impresa simile è uno dei miei sogni in quanto credo che camminare ci metta in contatto con una dimensione fisica della realtà che è in via di estinzione. Mi spiego meglio: oggi il nostro rapporto con la realtà è sempre più filtrato da schermi di ogni tipo. Quando lavoriamo usiamo la tecnologia e compiamo mille operazioni su uno schermo, quando ci divertiamo facciamo lo stesso che sia lo schermo di un cinema, della tv, di un cellulare; i rapporti sociali li curiamo sempre più a distanza. Potrei continuare con altri esempi ma mi fermo qui. La natura è sempre più confinata a esperienze limitate nel tempo e nello spazio e dei cinque sensi che abbiamo, per i motivi elencati sopra, abusiamo della vista e trascuriamo gli altri. Viaggiare diventa allora una fuga dalla dimensione claustrofobica che sta assumendo la nostra vita e, come in “Dal Ponte più alto”, la nostra morte. Oltre all’estinzione di questa dimensione esperienziale della realtà, c’è anche l’estinzione della categoria dell’esotismo. Viaggiare, in passato, voleva dire, non sapere nulla di un luogo prima di arrivarci. Oggi è impossibile. Prima di partire possiamo sapere tutto, persino il tempo che ci accoglierà minuto per minuto, il cibo che mangeremo, cosa visiteremo e quando. Niente sorprese, niente imprevisti. La scoperta si esaurisce tutta sugli schermi prima che il corpo si metta in movimento e i sensi si accendano”.

Il viaggio deve coinvolgere tutti i sensi, sì. Hai viaggiato tanto. Sei stato e hai vissuto, in varie parti del mondo, Olanda, Francia, Brasile e tanti altri. Riesci, in qualche modo, a portarti dietro questa sensualità nei tuoi lavori? 

“Dei miei viaggi provo a portare nei miei lavori le tracce che mi sono rimaste dentro, le sensazioni, le immagini. I viaggi intrapresi nel passato sono come certi ricordi: non sappiamo di averli ancora nascosti da qualche parte e risalgono a galla quando meno ce l’aspettiamo. Diciamo che i viaggi che abbiamo fatto si sono conclusi ma per qualche misteriosa ragione alcuni frammenti continuano a muoversi dentro di noi”. 

Nello stesso tempo, sempre in “Lo diceva Picasso”, parli di una donna segregata e condannata a scrivere. Cosa rappresenta per te? La staticità è il contrario del viaggio o in qualche modo si somigliano? 

“La staticità e il viaggio sono i due movimenti del pendolo che è la nostra vita. Quando siamo fermi miriamo all’altra sponda del fiume, all’orizzonte, al viaggio che ci aspetta. Quando viaggiamo, non dimentichiamo mai il punto fermo da dove siamo partiti e dove ritorneremo. In “Lo Diceva Picasso”, la donna segregata viaggia con l’immaginazione scrivendo una storia mentre Antonio Mondelli, dopo il viaggio a piedi, tornerà al punto di partenza ma trasformato”. 

Mi piacerebbe che raccontassi uno dei tuoi aneddoti preferiti che riguardano un viaggio che hai affrontato… 

“Durante il soggiorno in Brasile decisi di esplorare questo paese immenso con un viaggio molto fai da te. Una delle tappe di questo mio personalissimo e avventuroso tour fu Manaus, in Amazzonia. Alloggiai in un modesto hotel della città e dopo due giorni di esplorazioni urbane, il diavoletto dell’inquietudine cominciò di nuovo a punzecchiarmi. Chiesi al portiere dell’hotel quale fosse il modo migliore per visitare l’Amazzonia e lui mi disse che conosceva un caboclo che per sessanta dollari al giorno mi avrebbe ospitato nella sua capanna nel cuore della foresta. Organizzai in men che non si dica un gruppetto di viaggiatori e partimmo. Jack ci fece dormire per otto notti in una capanna dove c’erano solo amache. Se di notte ti scappava, te la trattenevi a meno che non volessi avventurarti nell’oscurità più nera del nero a cercare dove farla. La doccia non c’era, ce la facevamo tuffandoci allegramente dentro il fiume anch’esso, come la foresta di notte, nero. Dopo tre giorni Jack ci fece pescare ad appena cinquanta metri dalla riva e da dove ci lavavamo ogni giorno. Tirammo su tantissimi pesci che io, grazie a Hollywood, riconobbi subito: piranha. Il fiume ne era infestato. Chiesi a Jack come mai non ci avesse avvertito, vedendoci sguazzare nel fiume felici e contenti. Rispose che i piranha attaccano solo se sentono l’odore del sangue. Da quel giorno diventammo tutti meno schizzinosi nel sopportare l’odore che emanava dai nostri corpi e quando proprio non ne potevamo fare a meno, prima di tuffarci ci sottoponevamo a un’ispezione accurata del corpo in cerca di piccole ferite che ci avrebbero trasformato in un pasto succulento”. 

Ti sei salvato dai Piranha ma non loro da te… scherzo, ovviamente. Grazie per questo racconto inedito. Cosa ti porti, invece, della tua Sicilia nelle tue opere? 

“La Sicilia, in un modo o nell’altro, c’è sempre nelle mie opere ma non perché io decida di portarla o di darle spazio. Se lo prende da sola. Come una casa che non abito più ma che non ho venduto. Non solo, l’ho lasciata arredata com’era quando ci abitavo da piccolo. Una casa con la porta e le finestre sempre aperte. Se poi dovessi dire dove nei miei libri si intrufola di più e si mette a proprio agio, beh, allora direi nel modo in cui molti periodi sono costruiti, nel cibo che fa capolino in alcune scene (gli immancabili dolci di ricotta), in un certo senso nell’humour tipico della nostra isola. In “Dal Ponte più alto” uno dei motivi che ricorre in molte scene è come teniamo a bada il terrore della morte. Persino nell’affrontare questo tema, una certa vena a tratti ironica e tratti sarcastica non manca mai”. 

Ti comprendo alla perfezione, essendo anche io siciliano. Per finire una domanda che rivolgo spesso a tutti gli autori. Cosa rappresenta per te lavorare con la parola in questo periodo storico in cui la comunicazione telematica è esplosa e siamo sommersi da parole? E che rapporto hai con la parola? 

“Faccio parte di quella generazione che ha imparato il mondo attraverso la parola scritta parlata. Una generazione che conosceva la pazienza di leggere articoli lunghi, di seguire ragionamenti complessi che si sviluppavano sulla carta. Oggi, come scriveva Giovanni Sartori, siamo nell’epoca dell’Homo Videns. La comunicazione scritta non è mai stata così abbondante e nello stesso tempo così frammentata, veloce, accerchiata. Per me però lavorare con la parola non è cambiato nel senso che continuo a privilegiare la parola scritta come modalità sia di comprensione e interpretazione della realtà sia di sua rielaborazione personale. La parola rimane per me la chiave di accesso ai misteri dell’esistenza. Quando scrivo, riuscire a trovare e usare quelle giuste, quelle che mi aprono nuove porte nella comprensione di ciò che indago e nell’espressione di ciò che mi preme dentro, è una gioia immensa. Anche perché nel rapporto che ognuno di noi ha con la parola rimane una parte di mistero come dice Mariangela Gualtieri in questi versi “Abbi fede in quel niente/che viene – quel niente/che succede./Non prendere la parola./Lascia sia lei da sola. Diventa tu/la preda. Sia lei che ti cattura.”







domenica 14 gennaio 2024

Vincenzo Consolo: “Nottetempo, casa per casa” (1992)

 



Un continuo interrogarsi su cosa sia la Verità in Letteratura riversato in ogni singola frase dei suoi scritti, dei suoi romanzi in particolare. Perché un romanzo, per quanto sia realista, comunque è una finzione filtrata dal pensiero dello scrittore. Senza questo filtro sarebbe fredda cronaca, si potrebbe pensare. Invece è calda la narrazione di Consolo, complessa e avvolgente. Musicale come i versi di una poesia: la lingua più vera che un autore possa parlare. L'idioma personale interiore: soltanto questo è Realtà. All’interno del suo fluire linguistico ci sente dondolati in un continuo assaporare frutti di parole succose o dal gusto sconosciuto ma comunque stimolanti, attrattive e godibili. Quando nel 1992, pubblica “Nottetempo, casa per casa”, Vincenzo Consolo si interroga principalmente sulla veridicità storica del suo romanzo. Sceglie, infatti, di ambientarlo nella cittadina siciliana di Cefalù negli anni Venti. Proprio in quel periodo in cui si rafforza il potere del regime fascista e si fanno più aspre le lotte proletarie, i cortei socialisti e quelli anarchici, gli scontri duri con gli scagnozzi dei proprietari terrieri e le milizie della dittatura. Un affresco corale in dodici piccoli capitoli che colgono un momento delicato della società siciliana, un arco temporale che vede il primo variare di valori contadini verso corrompenti deliri edonistici e superomistici. Il personaggio di Petro, un ragazzo che assiste in prima persona a questo cambiamento epocale, forse, è il vero protagonista. O forse è il tessuto connettivo di un romanzo che non ha una vera e propria trama ma un insieme di quadri da cogliere nella loro totalità. Con un tema centrale che ruota intorno alla formazione del giovane. Proveniente da una famiglia proletaria, in cui l’assenza di punti di riferimento ha seminato il germe della follia. Suo padre vaga infatti nella notte ululando alla luna come un lupo mannaro, e la sorella… costretta a lunghi ricoveri per la debolezza psichica. Petro avverte fortemente l’esigenza di emanciparsi, di distaccarsi da una cultura intrisa di superstizioni e destini già scritti da retaggi obnubilanti. Comprende grazie alle varie esperienze formative che si può elevare socialmente grazie alla scrittura e alla cultura; ma per attingere alla vera cultura si deve allontanare. Petro, probabilmente, è la  vera proiezione autobiografica dell’autore di Sant’Agata di Militello, in questo romanzo. Rispecchia il pensiero che la scrittura deve essere impegno e riscoperta linguistica. Un concetto che si può esaudire soltanto se si conosce profondamente una storia e le dinamiche sociali di questa storia. Cosa si può conoscere meglio dei propri luoghi natii? Niente. Assolutamente niente. Così Consolo, attua la sua ricerca linguistica nella memoria filologica isolana, vera matrice culturale, e ambienta le storie nella sua terra, come del resto altri grandi scrittori siciliani. Una lingua che ha visto le stratificazioni delle varie dominazioni che si sono succedute e Consolo sembra volerle ripercorrere tutte, architettando un suo idioma, stratificato, appunto, ricco, complesso, pastoso. Ogni descrizione è coinvolgimento di tutti i sensi, un viaggio nella luce greca, nel colore arabo, nel barocco spagnolo, nella ricercatezza francese. Un flusso di lava e magma che, se non assecondato, travolge; ma a travolgere è la poesia. Ogni stazione, simile a quelle di una Via Crucis, è uno schizzo poetico che imprime valore impressionista. A quella di Petro si intrecciano le storie di altri personaggi. Uno di questi è Aleister Crowley, occultista inglese, che arriva a Cefalù con la sua nutrita schiera di adepti. Occupa una villa in cui istruisce il suo tempio e predica la sua religione, caratterizzata da riti orgiastici, baccanali in preda a droghe e sostanze di ogni tipo, libertà individuale e di azione. Questa ventata di seducente magia nera inonda tutto, tutto… ogni angolo del paese e la mente degli abitanti più ingenui. Janu, il giovane pastore, amico di Petro e innamorato della sua sorella pazza, viene investito in pieno da questa ondata di perversione sessuale e allontanato dai suoi valori primigeni. Janu ruberà del bestiame per la festa del paese e verrà arrestato per questo reato. Le scorribande della cricca di Cowley proseguono anche oltre la morte della neonata figlioletta del loro sacerdote ispiratore. Oltre ogni sonno della ragione. Il barone Cicio, accanito su una stupida eredità, è il vero antagonista di Petro. Il barone esaltato dal mito dannunziano, aderisce senza pensarci due volte alle forze fasciste che proprio in quegli anni prendono campo imponendo il rigido pensiero della tirannia. Non c’è, però, un protagonista o un antagonista. Forse la vera protagonista è la Sicilia, colta in quel determinato periodo storico con le sue dinamiche socioculturali, osservate in ogni suo aspetto. O forse è la lingua di Consolo, che, si ribella all’italiano, non per rivalutare i dialetti, ma per riscoprire vocaboli e con essi il senso e il sentimento che veicolano. Vincenzo Consolo viveva a Milano e di tanto in tanto tornava in Sicilia, anche per il suo lavoro di giornalista, e quando rimetteva piede nella sua terra, la girava in lungo e in largo, con la voglia di scoprire sempre qualcosa di nuovo o per riassaporare gli antichi sentori. Frequentava i suoi amici di sempre, Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Anche grazie ai loro scambi filosofici prosegue la stagione dell’impegno nella Letteratura siciliana in opere che lo hanno portato alla ribalta nazionale come “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), o “Lo spasimo di Palermo” (1998), opere che ripropongono questa stratificazione tra storia e visione poetica. O in racconti che si avvicinano al barocco surreale come “Lunaria” e “Le pietre di Pantalica”. Senza dimenticare mai, ovviamente, l’immensa problematica legata al fenomeno mafioso. Un impegno durato fino alla definitiva dipartita da questo mondo avvenuta nel 2012. Volendo allinearci ai suoi ragionamenti: ogni volta che si perde il senso si perde la lingua… e bisogna allontanarsi, per ritrovare la lingua e con la lingua il senso. Chissà se l’autore ha raggiunto il suo personaggio Petro, il giovane, creato dalla sua stessa penna e che più gli assomiglia, che ha visto vagare il padre in preda alla follia e la sua terra arrendersi al trionfo del vuoto di senso, imbarcandosi clandestinamente per una terra, da dove poter osservare da lontano e sognare una nuova lingua e nuovo senso.



domenica 7 gennaio 2024

Lester Young: Serenata per Billie Holiday




Negli anni della Grande Depressione è difficile trovare un ingaggio; la scarsa disponibilità economica che, per il crollo della borsa, ha colpito gli Stati Uniti d'America e i paesi che con essi fanno affari, ha dileguato gli investitori. Non c'è più nessuno disposto a scommettere sui musicisti, soprattutto su uno come Lester Young che, quando suonava con la band di famiglia, rifiutava di esibirsi negli stati del Sud razzista, o che spesso lo si trovava nei locali malfamati a bere come un dannato e a sfidare a duello tutti gli altri sassofonisti in cui si imbatteva, uscendone sempre vincitore, ma sempre più sbronzo. Andare dietro a sciocche, piccole, folli cose era il suo stile di vita.

Proprio in uno di questi locali malfamati di Harlem, durante una jam session, incontra Billie Holiday, anche lei persa ad andare dietro alle sue sciocche, piccole, folli cose. La sintonia tra i due è immediata. Nella voce di Billie c'è il dolore per tutto quello che ha provato nella vita, ogni nota che prende contiene una scintilla dei momenti che ha passato; ha sofferto la fame, il complesso di bambina abbandonata da quel padre di cui ha ripreso il cognome sovrapponendolo a Fargan, quello suo vero; ha subito violenza fisica e carnale, ha dovuto prostituirsi per poter mantenere lei e la madre, sempre distinguendosi per il suo atteggiamento signorile; ha dovuto mandare giù i rifiuti amari degli agenti che non la scritturavano come ballerina, per anni ha convissuto con la depressione. Nella voce di Billie c'è anche l'eleganza e la gioia, per essere riuscita a esprimersi attraverso il canto; perché grazie al linguaggio canoro riusciva un po' a divincolarsi da tutta questa sofferenza, a volte a superarla. Nel modo sinuoso di suonare il sax da parte di Lester sentiva un flusso di parole, ed erano proprio le parole giuste che voleva interpretare, quasi fossero una serenata scritta apposta per lei. Tra un bicchiere e l'altro, qualche giro sulla giostra delle sostanze, i due hanno interpretato e scritto moltissimi dei brani più belli degli anni trenta e per tutti gli anni a seguire, basti pensare a brani come Mean To Me o Body and Soul. La loro capacità intrattenitiva era enorme ed erano fantastici i loro duetti sui pezzi sentimentali, ma non dimenticavano mai le loro origini. Forse uno dei brani più belli, da lei interpretati, tra i più importanti per la storia della musica, è Strange Fruit, tristissimo testo antirazzista che denuncia la terribile fine di molti fratelli neri. L'intesa tra i due è tale che Lester si trasferisce a casa di lei, per la gioia anche della madre di Billie, che finalmente può godere di una gentile presenza maschile tra le mura domestiche. Billie lo soprannomina Prez (o Pres), presidente, perché è l'uomo più importante della sua intera esistenza. Lui la chiama Lady Day, perché Billie quando va in scena è una signora raffinata ed elegante, soprattutto quando indossa quella gardenia tra i capelli ed inizia a cantare, in quel caso lei è la Signora per eccellenza. L'amicizia tra il Prez e la Lady forse è soltanto platonica ma i sentimenti in gioco sono più forti di quelli di una storia d'amore.

Negli anni trenta l'industria dell'intrattenimento è affidata maggiormente alle grandi orchestre di swing e Lester Young viene scritturato forse da una delle più importanti dell'epoca, quella di Count Basie, orchestra che oltre l'intrattenimento produce anche tanta arte, con arrangiamenti innovativi strutturati sulla musica tradizionale e il giusto spazio lasciato al genio improvvisativo. Sono gli anni in cui Lester può affinare la sua tecnica dall'approccio rilassato e eccezionalmente privo di vibrato, caratterizzato da un attacco leggero e un senso del ritmo suadente e senza pause. Stile ispirato dal suo principale modello, il bianco Frankie Trumbauer (vedi sotto), da cui assorbe anche il tono cupo dell'accordatura in do. Quasi totalmente all'opposto del suo rivale più affermato, Coleman Hawkins, più vigoroso e ad effetto. Lester con il suo tipico modo di cullare il sax in diagonale, sapeva seguire uno schema melodico nella totalità dei suoi intrecci come fossero fili di un tappeto e contemporaneamente si lanciava sul rovescio del tappeto, dove gli stessi fili e gli stessi colori si intrecciavano in modo diverso. Tra dissonanze e riprese al volo di cellule di note lasciate in sospeso per intraprendere altre linee melodiche. 

A stravolgere le carte, su una tavola già piena di carte stravolte, arriva la seconda guerra mondiale e l'inevitabile chiamata alle armi. Lester fa di tutto per non rispondere alla chiamata, ma la sua domanda di ammissione nella banda militare viene rifiutata, a causa del suo carattere inaffidabile, ma il caso vuole che venga trovato in possesso di stupefacenti, così viene arrestato, o forse si fa arrestare, di certo non fa niente per rispondere alle accuse e viene condannato dalla corte marziale ad un anno di detenzione presso i campi di prigionia militare (Detention Barraks) dove compone D. B. Blues. Quando torna in libertà una delle prime cose che fa è andare ad incidere quello che forse è il suo capolavoro, These Foolish Things, con Nat King Co!e al pianoforte e Buddy Rich alla batteria. Suona con un'intensità straordinaria e forse lo fa pensando alla ritrovata possibilità di tornare alle sue folli cose e forse lo fa pensando alla sua amata Billie, che in quegli anni nonostante i successi artistici, tra matrimoni falliti e la perdita della madre, continua a perdersi dietro le sue piccole, sciocche, folli cose. Entrambi, in modo diverso, ma in totale empatia, dissipano il loro talento. Lei minata dall'uso di stupefacenti e lui dall'alcool. In molti sostengono che Lester Young dopo la guerra non abbia più ritrovato il feeleng energico con il suo sax, in realtà il numero di registrazioni e la qualità dei brani eseguiti nell'orchestra di Oscar Peterson è maggiore se non migliore di quella degli anni precedenti, come è possibile apprezzare dalle numerose pubblicazioni. Molto semplicemente con il passare del tempo ha raggiunto una maggiore consapevolezza e imparato a dosare il fiato, oltre al fatto che non amava ripetersi; non faceva mai due volte lo stesso brano. Anche nella vita utilizzava lo stesso stile e quando il linguaggio non lo soddisfaceva lo inventava. Vero è che nell'ultimo periodo della sua vita ha passato più tempo a bere più che a suonare, a bere più che a mangiare, a bere più di ogni altra cosa, fino a dimenticarsi di tutto, compreso se stesso, come lo hanno dimenticato gli altri, lasciandolo deperire e perire a neanche cinquanta anni nel marzo del 1959. A pochi mesi di distanza anche Billie Holiday raggiunge il suo Prez; le cartelle cliniche parlano di cirrosi epatica, ma la verità è che la vita le era diventata insopportabile, nessuno più ormai le dedicava serenate come quelle di Lester Young.



Per chi avesse desiderio di conoscere qualcosa in più su Frankie Trumbauer può cliccare qui sotto 👇 









lunedì 1 gennaio 2024

Cenni biografici

GABRIELE PERITORE 



Nato ad Agrigento. Ha conseguito la laurea in Farmacia presso l’università degli Studi di Palermo.

Vive e lavora a Roma come: 

farmacista preparatore galenico, 

poeta, scrittore, operatore culturale attivo in svariate manifestazioni di carattere nazionale e internazionale,

blogger, gestisce l'omonimo blog in cui si occupa di Cultura e Controcultura, Poesia e Pirateria. Precedentemente (2016/2019) è stato caporedattore centrale della testata giornalistica online Magazzini Inesistenti. 

Videomaker. 


Pubblicazioni:

“L’isola confine” (romanzo, 2014, Edizione Libreria Croce)

“Vino e Venere” (romanzo, 2012, Edizioni Libreria Croce).

”A respiro trafitto” (poesie, 2004, produzione clandestina).

“Io sono la vera vite”, simbologia e fitoterapia delle piante dei Vangeli (saggio, 2007, Edizioni Libreria Croce).

“Luigi Filippo Peritore, intellettuale agrigentino” (saggio monografico, 2008, Ca. Gi. Editore).


Antologie:

”E il naufragar m’è dolce in questa radio…..” (poesie, 2003, Il Filo Edizioni).

“Peccati veniali” (racconti, 2004, Coniglio Editore).

“La congiura dei poeti” (2005, Fabio Croce Editore).

“Il resto è poesia” (2005, Regione Lazio – Lettere Caffè).

“100 poesie di odio e di invettiva” (2007, Coniglio Editore).

"Cartoline da Firenze" (2022, Giulio Perrone Editore).


È uno dei poeti protagonisti del documentario “Poeti” del regista Toni D’Angelo in concorso alla 66ima edizione del Festival del Cinema di Venezia 2009.

Nel 2010 una poesia tratta dalla silloge “A respiro trafitto” diretta dal video artista Quinto Ficari ha partecipato allo ZebraPoetry FilmFestival di Berlino, il più importante festival di videopoesia in Europa.

Ha curato, inoltre, la pubblicazione delle opere inedite di Luigi Filippo Peritore “Il fascino di un’isola e delle sue contraddizioni”, vincitore del premio “Libro dell’anno 2008, opera antologica” (Ca. Gi. Editore) e la monografia del pittore Giorgio Pirrotta (2009).

Ha dato vita, insieme agli amici poeti Cony Ray e Marco Orlandi, al progetto “La Poesia E’ Reale” in collaborazione con il circuito delle biblioteche di Roma e a sostegno di Emergency.

Presente alla Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati in qualità di poeta per un progetto a favore dell’Aquila: L’orizzonte perduto e il dolore trattenuto.

A ottobre del 2020 è stato insignito di una menzione speciale per la poesia “Cadenza” all’interno del Premio Internazionale I Colori dell’anima e una Menzione speciale per la poesia “Il segreto del profeta” al Premio Nazionale Ossi di Seppia nel febbraio del 2021. Sempre nel 2021, in primavera, una menzione d'onore per il racconto "Il canto dell'africano" al Premio Nazionale Lorenzo Montano.

La silloge inedita "Canti galenici" si aggiudica il terzo premio al Premio Nazionale AlberoAndronico. Nella primavera del 2022.

Nel giugno 2022 rappresenta l'Italia insieme alla poetessa Marthia Carrozzo al Festival Internazionale di poesia di Sidi Bou Saïd.

Nel 2023 realizza insieme al figlio Luigi Filippo, la videopoesia sperimentale "Benvenuti nel primo mondo".

Suoi testi sono tradotti in inglese.