domenica 1 ottobre 2023

Il trombettista antigravitazionale

 La mia Intervista a George Avramidis (2018)



Arriva dalla Grecia uno dei trombettisti più talentuosi del panorama jazz europeo. Sto parlando di George Avramidis ed io sono fiero ed emozionato di poter scambiare qualche battuta con lui. Il suo modo di suonare la tromba denota uno stile del tutto personale, intenso, originale, passionale… tutti elementi che ha saputo riversare nei suoi dischi come Leader: “Protocol” del 2013 e “Voyager” del 2015. 

Ciao George, per iniziare a farti delle domande vorrei partire dal tuo ferro del mestiere: La tromba è il tuo strumento d’elezione o ce ne sono stati altri prima? 

A detta di mia madre, che teneva dei diari con i momenti diciamo più salienti della mia infanzia, da piccolo prendevo le pentole della cucina e le martoriavo a più non posso con cucchiai e forchette, quindi forse il mio primo strumento sono state le percussioni. Scherzi a parte, però, il mio primo vero strumento è stata la chitarra e ancor oggi la apprezzo visto che ogni volta che devo scrivere un nuovo pezzo strimpello prima la melodia sulle corde e poi le do fiato con la tromba.

La musica è presente nel tuo DNA fin dalla nascita, quindi, con il ritmo e la melodia ma poi, come è scoccata la scintilla per questo strumento… e per il jazz?

Il mio modello di riferimento durante i miei anni formativi è sempre stato mio fratello maggiore, il quale suonava la tromba nella filarmonica della mia città, Giannitsa. Visto che per me era una specie di eroe e volendo seguirne i passi, abbandonai la chitarra e cominciai anch’io a soffiare. Inoltre, all’epoca vivevamo proprio accanto al teatro in cui provavano i membri dell’orchestra e ogni giorno, dalla mia finestra, vedevo entrare i musicisti vestiti di tutto punto e con gli strumenti sotto braccio; una cosa che mi strabiliava. Il mio primo maestro, un trombone, fresco fresco da una tournée a New York, mi dava a ogni lezione delle cassette e poi dei CD per introdurmi al jazz che veniva suonato all’epoca in America. Fin dalle elementari, quindi, possiamo dire che crescevo a ritmo di jazz.

Beh, DNA e destino che coincidono alla perfezione… E durante questi ascolti sei riuscito a trovare i tuoi modelli di riferimento musicale?

Oltre alle proposte del mio maestro, agli inizi ero affascinato dalle melodie di Arturo Sandoval, Maynard Ferguson, Chuck Mangione e Jon Faddis. Col passare degli anni, poi, i miei gusti sono cambiati e, via via che maturavo sia come musicista che come persona, persi l’interesse per gli artisti sorprendenti, andando a finire tra le braccia di compositori più semplici e al tempo stesso essenziali come Erik Truffaz ed Enrico Rava.

Sono felice per il fatto che hai nominato un musicista italiano, tra l’altro eccezionale, come Enrico Rava… Quindi immagino che tu abbia avuto modo di farti un’idea della scena jazz italiana… 

Ho un legame con il vostro paese che nasce dai miei ascolti giovanili (ricordo con affetto anche Andrea Tofanelli) e non. Il jazz italiano (Fresu e Rava) è molto vicino al mio senso estetico e osservando l’enorme tradizione musicale dell’Italia, non si può fare altro che rimanere sbalorditi e ammaliati dai vari geni che producete senza sosta. 

Invece la situazione in Grecia com’è? È stato facile dedicarsi alla musica jazz nel tuo Paese?

Sfortunatamente, è molto difficile, in questo paese, vivere di jazz. Come la maggior parte degli artisti, dunque, ero costretto a dedicarmi anche ad altri generi (musica popolare e/o mainstream) per poter arrivare a fine mese, sebbene non mi dessero la stessa gioia che provavo e provo tuttora quando suono un pezzo jazz. All’estero, invece, ho sempre avuto un riconoscimento molto più soddisfacente per i miei sforzi. Per farvi però un esempio infelice, grazie a Paolo Fresu, il vostro compatriota, mi arrivò un’offerta per partecipare al centenario della Prima Guerra Mondiale organizzato dal Ministro della Cultura Italiana (2017), ma il corrispondente ministro greco, fatto unico tra tutti i paesi invitati, non rispose all’offerta, facendomi dunque perdere un’occasione del genere. Oltre al danno, anche la beffa insomma.

Poi, però, ti sei rifatto alla grande… Tu hai suonato in molti posti, in Italia e nel resto d’Europa… riesci a fare una differenza tra i tuoi luoghi d’origine e gli altri in cui ti sei esibito?

La verità è che sono molto fortunato e ho avuto la possibilità di suonare in molti luoghi europei dove ho potuto osservare e assaporare le diverse forme di cultura di questa Unione. Il pubblico di Berlino è sicuramente molto diverso da quello di Barcellona o Salonicco, anche perché i primi stanno seduti immobili ad ascoltarmi mentre gli altri ballano e bevono al ritmo della mia musica! Scherzi a parte, l’elemento che più mi commuove sono gli altri artisti greci che, per via della crisi, hanno scelto di migrare verso altri lari e, quando me li ritrovo davanti agli occhi in una città straniera per entrambi, è sempre un colpo al cuore.

C’è qualche posto in particolare in cui hai suonato che ricordi con piacere?

Ogni volta che presento i miei nuovi lavori qui a Salonicco, davanti ai miei amici e ai miei collaboratori più cari, rimango sempre di stucco. Figuratevi che viene anche il cuoco del mio ristorante preferito! Nonché la mia parrucchiera, anche se per ovvi motivi ci vediamo molto di rado nel suo negozio. 

Il sapore di casa è sempre il sapore di casa… Forse è la cosa che ti ispira di più per la tua arte… Mi piace tantissimo la ricerca musicale che hai intrapreso nei tuoi dischi… pensi che il jazz sia ancora un genere che può comunicare qualcosa alle nuove generazioni?

La musica jazz è una musica viva e si sviluppa continuamente, trovando nuove forme e nuovi linguaggi per comunicare i problemi moderni. Ultimamente, per farvi un esempio, ho avuto modo di ascoltare il nuovo lavoro di Alfa Mist (UK), il quale introduce nuovi suoni e nuove composizioni, dimostrando proprio quello che dico. Non bisogna però cercare solo tra i nuovi, anche i vecchi musicisti hanno sempre qualcosa di nuovo da offrire se sono in grado di evolversi, come fece ad esempio Miles Davis durante tutta la sua carriera.

Evoluzione è la parola magica che caratterizzerà anche i tuoi nuovi lavori e la nuova direzione del jazz? 

In questo periodo sto incidendo il mio terzo disco, che si chiamerà Invented Memories e verrà pubblicato in autunno. Ci sarà una grande differenza dai due lavori precedenti, in quanto ho tentato di combinare insieme jazz e musica folk dell'Irlanda e della Scozia, visto che ho sempre apprezzato le tonalità diciamo celtiche. Come anticipo dell'album, farò uscire un single con relativo disco nei mesi estivi, per rinfrescare un po' i miei fan e portarli lontani dal caldo torrido del mare greco.

E noi non vediamo l’ora di rinfrescarci un po’ con il tuo nuovo brano… E per salutarti ti chiedo se vuoi dare qualche consiglio ai tuoi giovani estimatori che vogliono intraprendere il tuo stesso percorso… 

Il consiglio che darei ai nuovi trombettisti, ma anche al me stesso di molti anni fa, è di seguire sempre i propri gusti, suonando d'istinto, giocando con lo strumento. Dobbiamo conservare tutti la capacità di sorprenderci come se fossimo ancora dei bambini. Non bisogna pensare quando si suona, anche perché suoniamo principalmente per sfuggire a tutti i pesi che ci tengono ancorati al suolo. La musica è un'arte unica proprio perché ci permette di ottenere una leggerezza che altrimenti non potremmo mai avere, maledetta gravità. Quindi prendiamoci tutti meno sul serio e diamo fiato alle trombe!

Io ti ringrazio per la tua disponibilità a dialogare in maniera così aperta e credo che anche i lettori siano stati felici di scoprire qualcosa in più di te. 

Stupendo, ne sono felice. Vorrei ringraziarti per l’interesse nei miei confronti e per l’invito a fare questa intervista.




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