domenica 27 aprile 2025

Clifford Brown: Il tempo di uno squillo di tromba

Per la rubrica: Archeologia musicale, il percorso che fa il jazz che prende la direzione dell'hard bop, grazie all'incontro di due geni assoluti.

Ha soltanto dodici anni Clifford quando suo padre lo invita a suonare la tromba e, certo, non può immaginare che poggiando le labbra su quello strano tubo d’ottone, che emette suoni striduli e acuti, si possa creare una magia tale da proiettarlo nel firmamento del Jazz mondiale in maniera così fulminea, giusto il tempo di uno squillo di tromba… appunto. Non può immaginare che tutto sia così veloce, troppo veloce, nella sua vita. Tutto brucia in fretta, troppo in fretta. Allora… poggia le labbra sul bocchino, chiude gli occhi e soffia… Soffia e sogna... Nel suo sogno c’è l’incontenibile volontà di imparare tutto molto rapidamente, supportata da una naturale predisposizione. Impara presto, infatti; impara a emettere il fiato, riuscendo a eseguire trentadue battute con un unico respiro, impara a muovere le labbra e la lingua per modulare e intonare le note, a gestire la muscolatura delle guance per evitare sbavature sonore. Impara a dirigere l’aria che passa dal tubo attraverso la giusta digitazione sui pistoni; impara a sincopare i volumi attutendo la campana. Il risultato della sua caparbietà è che, adesso quando suona, la melodia sfila in maniera fluida, in perfetta sintonia con l’armonia… quello che lui fa con la tromba è una magia. Non sembra neanche una tromba; è soltanto suono, l’unico suono che il brano che in quel momento vive possa avere. Il suo talento non passa di certo inosservato; quando ancora frequenta l’università tra i suoi estimatori si possono elencare nomi illustri del panorama musicale come quelli di Dizzy Gillespie e Fats Navarro. Ha soltanto ventidue anni quando completa i suoi corsi di studio ed inizia le collaborazioni con i grandi musicisti dello Swing e del Bebop, come Lionel Hampton e Tadd Dameron. La sua inconfondibile arte riesce a dare un segno sostanziale a registrazioni tenute con Art Blakey e Sarah Vaughan. L’incontro della vita, però, avviene nel 1954, quando entra nell’orbita del geniale batterista Max Roach. Tra di loro l’intesa è totale. Sentono l’esigenza di apportare qualcosa di nuovo alle sempre sperimentali sonorità Jazz; e sanno benissimo che per rinnovare non c’è niente di meglio che andare a scavare nel passato, nelle tradizioni musicali delle proprie radici culturali. Il Blues delle origini è il loro luogo di esplorazione più idoneo. Così prendono le vecchie melodie e ne sviluppano le armonie lasciando più spazio d’improvvisazione agli strumenti. Con loro ci sono anche George Morrow al contrabbasso, Richie Powell al pianoforte e Harold Land (poi sostituito da Sonny Rollins) al sassofono. In questo modo riescono a produrre una nuova sonorità che costituisce la struttura dell’Hard Bop. Dal vivo la loro sintonia arriva a livelli di assoluta meraviglia. Lo stesso succede in sala d’incisione dove nel 1954 registrano “Clifford Brown & Max Roach”, un album che porta semplicemente i loro nomi e che molto più semplicemente è uno dei dischi più importanti della storia del Jazz degli anni cinquanta. Contiene due pezzi straordinari diventati negli anni dei veri e propri standards del genere come Daahoud e il brano che Clifford dedica alla moglie intitolandolo con il nomignolo con cui la chiama nell’intimità e cioè: Joy Spring, oltre ad altri splendidi brani. Nel 1955 è la volta di “Study in Brown” album composto quasi esclusivamente da pezzi originali scritti dai membri della band, come George’s Dilemma e Sandu composti da Brownie (come gli amici chiamano Clifford), Lands End di Harold Land e Jaqui di Richie Powell, ad esclusione, però, di Cherokee, un vecchio standard, che è di Ray Noble, in cui si può apprezzare Clifford in uno dei più eccezionali assoli di tromba di tutti i tempi. Anche nel 1956 si possono contare diverse importanti registrazioni tra cui una tra le più rappresentative del filone Hard Bop, “Clifford Brown & Max Roach At Basin Street”, l’ultimo album inciso prima del tragico incidente che toglie la vita a Clifford, al pianista Richie Powell e la moglie Nancy che guida la macchina. Sono tanti i chilometri che un musicista deve percorrere per raggiungere i posti anche desolati, nei locali più squallidi o meno, pur di esibirsi, racimolare qualche soldo, accendere la luce della propria arte. È una vita passata in strada, a fare i conti con la benzina (sempre poca), e con il sonno (sempre tanto), guidando nelle condizioni più estreme, anche sotto il sole cocente, anche nelle notti burrascose, in cui è facile perdere il controllo. Non è il primo incidente molto pericoloso occorso a Clifford nella sua breve vita, è già sopravvissuto altre due volte. Questo è il terzo ed è quello fatale che lo consegna, nel tempo di uno squillo di tromba… appunto, al firmamento del Jazz e delle anime luminose, a meno di ventisei anni. Non poteva di certo immaginare che la sua vita sarebbe stata così corta ma, anche se lo avesse saputo, avrebbe comunque fatto le stesse cose, perché, da quando ha poggiato le labbra su quel bocchino, la sua vita ha vibrato soltanto nello squillo della sua tromba; uno strabiliante squillo… di tromba. 






Max Roach: 







domenica 6 aprile 2025

Primum movens della mia persona

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Arianna Vartolo sul percorso della poesia che, dal corpo, esce, nasce, ne delinea anche i contorni, ma quando poi è fuori, non appartiene più a chi l'ha espressa, appartiene al mondo, a chi ha voglia di leggerla.



Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma. L'aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi, cui segue la raccolta Derma (Arcipelago Itaca Edizioni, 2025). Compare nell'antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia - della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (per cui ha collaborato), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica - Roma. 

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?  

Penso di non essermene mai accorta davvero, in piena sincerità. Si respira da quando si nasce, ma non ci si fa caso. È solo qualcosa di naturale. Per me, comunicare, ha lo stesso principio: il suo processo avviene, e basta. È il primum movens della mia persona, senza con questo voler scomodare Aristotele et similia. Il farlo (anche) sotto forma di testo in versi, forse necessita di un approfondimento ulteriore. Da questo punto di vista, credo si possa tirare in ballo la mia passione per la musica. Nata sia per indole personale, sia per studio. In particolare son cresciuta a “pane e prog”: da quando ero piccolina, ne ho assorbito in varie forme i tempi dispari e le tecniche raffinate di esecuzione. Chiaramente, non solo del progressive; coltivo sempre certosinamente l’approfondimento di realtà musicali a me già note, tanto quanto la scoperta di quelle a me ancora ignote. È un richiamo a cui non ho mai resistito; e in fondo, mi dico, perché avrei dovuto? Da un certo momento in poi, credo sia divenuto semplicemente inevitabile formulare nel pensiero frasi che si unissero a una qualche forma di melodia. Probabilmente, sotto tale ottica, la poesia ben si sposa e (appunto) armonizza con questo. Altra importanza, poi, assume l’aspetto dello scavo etimologico nelle parole: ricordo che mia mamma, sin da tenera età, ha sempre stimolato in me e mio fratello la curiosità di sviscerare cosa significasse cosa e perché. Crescendo, questo esercizio catabatico di perforazione attraverso i vari strati dei termini così come li conosciamo oggi, non ho mai smesso di praticarlo. Ed è un piacere costante di scoperta, soprattutto per la potenza evocativa che ne può risultare di volta in volta.

Che rapporto hai con la poesia?  

Qualcosa di molto molto simile a ciò che ho già scritto nella risposta alla domanda precedente: esercizio, scoperta, messa alla prova della parola nella sua forza evocatrice; vedere fin dove può spingersi l’implicito con la sua capacità di mostrare, invece, esplicitamente. Attraverso il ritmo, la musicalità di termini diversi messi in dialogo tra loro, la loro etimologia. 

E cosa questo può far nascere nell’animo di chi legge.

È un modo, forse, anche per educare un equilibrio tra proiezione e introiezione; per trovare quel punto intermedio che lasci semplicemente la visione in sé – immediata.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico? 

La parola, a oggi, conta moltissimo. Ma forse nel modo sbagliato. Se ne abusa, sì, per attirare un’attenzione finalizzata al consumo: la si è fatta schiava di un sistema capitalistico e tendente sempre più alla mercificazione. La parola dunque si piega all’uso e all’utilità. Lavoro maneggiando linguaggi di marketing e comunicazione: nella mia testa e sulla mia lingua girano costantemente termini come SEOkeywordsvisibilitàattraversoparolechiaveottimizzazionediricercaetcetcetc. Personalmente lo trovo molto affascinante, non lo nego. Ma mi rendo conto di quanto le parole divengano sempre più uno strumento rivolto al profitto. In qualsiasi ambito, da quello della politica mondiale a un post sui social. In parte ancora ci salviamo, però. Io mi voglio concentrare lì.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale? 

Parto dal presupposto che ho sempre pensato (ma change my mind) che l’essere umano non vada incontro a un progresso, quanto più a una complicazione. L’AI trovo sia qualcosa di rilevante e rivelante a ogni livello; di certo spaventa (mi viene in mente il mostro di Frankenstein: creato da qualcuno senza che lui potesse saperlo o volerlo, gettato nel mondo e poi ripudiato perché spaventoso e ritenuto pericoloso dal suo stesso artefice) per le implicazioni che può avere nella sostituzione a molte figure che ricoprono ruoli nel mondo del lavoro, ma credo sia invece importante capirla. Indagare che sorta di spunti può darci, a che tipo di nuovi fronti può condurci. È un modo per interagire con qualcosa di totalmente distante da noi – in quanto esseri umani in “dialogo” con una voce artificiale – ma da noi creata. Già questo punto di vista suscita in me diverse riflessioni che partono sicuramente dalla fascinazione per i paradossi o giù di lì. E, oltre all’interazione, soprattutto penso possa essere un’integrazione importante per qualcosa che ancora non conosciamo; ancora non abbiamo capito né visto. Ma arriverà. Bisognerà di certo porre attenzione a quella tipica inclinazione all’onnipotenza che è insita negli esseri umani; credo che non cedendo a quest’ultima, il rapporto con l’AI potrà portare migliorie non indifferenti.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?  

La fase più bella della scrittura, per me, è quella in cui la parola esce da me. Non è più mia, non sono più io. È chiunque e di chiunque arrivi a leggerla. Con questa breve premessa voglio dire che non mi riconosco in alcuna mia opera. Riconosco l’opera in sé: ne conosco la storia, l’ho seguita, accompagnata – per ovvie ragioni. Ma non ci sono più io lì una volta che defluisce dalla fonte. Incontra gusti, stati d’animo, luci sul foglio o luminosità diverse su un desktop. Toni caldi toni freddi di una carta su cui viene stampata o dello schermo dello smartphone su cui viene letta. Io queste cose le immagino spesso: chissà cosa dove quando perché. È potente la libertà che riconosco a una creazione, e la voglio pienamente rispettare. Per non lasciare irresoluta la risposta posso dire che tengo molto a Derma, la mia ultima raccolta edita da Arcipelago Itaca Edizioni (2025): è un percorso che porto avanti da anni, iniziato nel 2018. Partì con una mail inviata a Giulio Mozzi, scrittore e intellettuale da me da sempre fortemente stimato. Proseguì poi sull’onda di letture e conoscenze e dialoghi con autori/autrici che poi son divenut* amic* car*, o che lo erano già. Raccoglie suggestioni musicali (appunto), cinematografiche, letterarie. E la vita, certo. Lo chiamo tra me e me itinerario di carne proprio perché traccia una mappa di quella che è la trasformazione di un corpo. Di come l’abbiano seguita i miei occhi. È stato un lavoro lungo, paziente, di profondo ascolto. E adesso è nel mondo, e al mondo appartiene. 


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Dal (molto basso) dei miei ventisette anni, penso proprio che non ci sia età per comunicare con la poesia. E che una luce rimarrà sempre accesa, senza doverci preoccupare di pagarne la bolletta.





venerdì 4 aprile 2025

In finale al Premio Bologna in Lettere

Orgoglioso per questo risultato!

Sono felice di poter presentare il mio nuovo progetto, MareCromia, durante la finale del Premio Bologna in lettere.


Questo risultato per me è già una Vittoria!


Ringrazio di cuore gli organizzatori e la giuria che hanno ritenuto il mio lavoro meritevole di questa finale.

Dome Bulfaro Nicolas Cunial e, in special modo, Marthia Carrozzo.









martedì 1 aprile 2025

Little Walter: Il più piccolo… il più grande

Per la rubrica: Archeologia musicale,  l'incontro magico e sensuale dell’armonica con l'amplificazione elettrica che apre un'altra era del blues. 


Marion Walter Jacobs è un bravo cantante e un eccellente musicista; suona la chitarra e soprattutto l’armonica. Così bravo come armonicista che quasi sempre trova un ingaggio in qualsiasi posto degli Stati Uniti si trasferisca, e ne ha girati tanti di posti, perché negli anni quaranta quelli bravi a suonare l’armonica come lui sono veramente in pochi… e Walter non è solamente bravo… è il migliore. Si è fatto le ossa sin da bambino, sin da quando è andato via di casa a dodici anni per confrontarsi con la vita; e quando si decide di affrontare il mondo da soli bisogna imparare in fretta. Tutti lo chiamano Little Walter… ma lui è già un asso nelle scazzottate e nelle sbronze a cuor leggero. Gira di notte e beve come una spugna… ed è una spugna anche ad assorbire, a carpire il meglio da chi sa insegnargli qualcosa di valido per la sua arte. Ha perfezionato il suo stile osservando ed esibendosi con i vecchi bluesmen, incluso Sonny Boy Williamson II, Sunnyland Slim, Honeyboy Edwards. Ha soltanto quindici nel 1945 quando arriva a Chicago, la città in cui decide di stabilirsi. La windy city è ormai da tempo il luogo in cui il blues sta trovando le sue più geniali evoluzioni tecniche. I più grandi musicisti di genere si esibiscono nei locali che accolgono un pubblico di gente che, è arrivata dal sud durante gli anni trenta, e si riunisce la notte per ritrovare i suoi suoni, i suoi ritmi, il suo movimento. A surriscaldare l’atmosfera di quelle notti già incandescenti si può assistere alle performance di Elmore James, Hound Dog Taylor, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Jimmy Rogers e soprattutto Muddy Waters. Probabilmente Walter è il più giovane di tutti, quindi il nomignolo “little” gli rimane attaccato addosso per sempre… ma è il più grande… a suonare l’armonica… e trova subito ingaggio presso la band di Floyd Jones, con cui registra i suoi primi demo. La sua attitudine è quella di dialogare con il suo strumento con gli altri musicisti della band, e rivaleggiare con loro nelle improvvisazioni quasi fosse un virtuoso jazzista. La sua bravura gli permette di fare ingresso in una delle più importanti band di Chicago di quel momento e poi del mondo, quella di Muddy Waters. Proprio in quegli anni il Blues vive una delle sue svolte epocali attraverso l’elettrificazione degli strumenti, soluzione che mette in maggior risalto la chitarra, costringendo, però gli altri strumenti ad un ruolo marginale. Questa situazione procura a Walter una sgradevole insoddisfazione e un grave stato di frustrazione che sfoga nell’alcol e nelle botte. Fin quando qualcuno non trova il modo di elettrificare l’armonica. Little Walter non è il primo a fare questo passaggio, qualcuno lo ha anticipato, avventurandosi in tale impresa, forse Sonny Boy Williamson II, ma, Little Walter è il primo e l’unico a fare dell’elettrificazione una forma di prosecuzione della propria armonica. Così, appoggia un microfono per voce al suo strumento e lo chiude tra le mani, in modo tale che le sue improvvisazioni e i suoi virtuosismi arrivino all’ascoltatore allo stesso livello della chitarra; inoltre gioca con le distorsioni, che l’elettrificazione gli consente, esplorando nuove potenzialità per il suono dell’armonica che, grazie a queste inedite sfumature, si avvicina ulteriormente all’anima del blues. Perché l’armonica proprio per la sua struttura povera, semplice e libera si è sempre prestata all’utilizzo per improvvisare sul momento, a intrattenere in maniera giocosa, ma adesso è in grado di sfoggiare il suo lato più oscuro e profondo, intonando i languori della disperazione in una forma sensuale e avvolgente. Proprio come è il blues. Tutto il nuovo sound Little Walter lo riversa nel brano che, al momento dell’uscita, verrà chiamato Juke; il brano che gli consente di tirare fuori tutto il meglio di sé, costringendo Muddy Waters e i suoi musicisti a fare da supporto alle acrobazie dell’armonica. Juke è un brano trascinante, intenso, suadente… così si avvera il miracolo; è il primo brano strumentale, e il primo brano per armonica in assoluto, ad arrivare al gradino più alto della classifica, e poi a oscillare nelle altre posizioni per oltre venti settimane. Questo brano pubblicato nel 1952 inaugura il decennio magico di Walter Jacobs. Mette su una propria band e negli anni registra un successo dietro l’altro. Quelli composti di suo pugno come Off the Wall, o quelli che sceglie di reinterpretare come Blues With a Feeling, un vecchio brano di Rabon Tarrant. La sua casa discografica, la storica Chess Records, gli affianca un musicista di talento come Willie Dixon, che negli anni diviene uno stretto collaboratore, e per lui scrive nel 1955 My Babe, riarrangiamento di un classico Gospel che tocca aspetti musicali più umani, sentimentali e dolorosi. Si rivela un altro successo senza eguali. Nel 1958 Little Walter incide Key To Highway, un brano dedicato al vecchio amico e collega Big Bill Broonzy, deceduto qualche giorno prima. Anche questo brano è una pietra miliare del blues e dell’armonica. Come sono fondamentali tutti gli altri brani da lui eseguiti, potremmo citare tra gli altri Up The Line (1963), Shake Dancer (1964), o Blue And Lonesome (1965), ma, il carattere irascibile e passionale e l’abuso di alcol, come il repentino cambio dei gusti musicali degli anni sessanta, hanno portato il piccolo grande Walter a coprire un ruolo sempre più marginale nella scena musicale di quel periodo. Nonostante due tour di successo in Europa, durante il Blues Revival, e l’attenzione di band leggendarie come i Rolling Stones e i Led Zeppelin che si sono occupate di lui, il suo lento scivolare verso l’oblio non ha avuto più ostacoli fino alla sua morte. Si dice che una mattina del febbraio del 1968 sia stato trovato morto nell’abitazione della sua ragazza di quel momento. Si dice che sul referto medico abbiano scritto che si trattasse di trombosi coronarica, probabilmente dovuta all’aggravarsi di vecchie ferite. Si dice che quelle vecchie ferite si siano riaperte a causa di una rissa in cui è rimasto coinvolto la notte precedente in un locale malfamato di Chicago. Quello che non si dice è che nessuno lo ha riconosciuto e nessuno ha indagato su quella rissa lasciandola passare per una morte naturale che porta via la più grande armonica di tutti i tempi. Anche se aveva meno di trentotto anni la sua arte rimane eterna e il più importante punto di riferimento per chi vuole approcciare a tale strumento.