domenica 6 aprile 2025

Primum movens della mia persona

Per la rubrica: Parola ai Poeti NON Artificiali, la chiacchierata con l'autrice Arianna Vartolo sul percorso della poesia che, dal corpo, esce, nasce, ne delinea anche i contorni, ma quando poi è fuori, non appartiene più a chi l'ha espressa, appartiene al mondo, a chi ha voglia di leggerla.



Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma. L'aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi, cui segue la raccolta Derma (Arcipelago Itaca Edizioni, 2025). Compare nell'antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia - della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (per cui ha collaborato), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica - Roma. 

Quando ti sei accorta che per te la poesia è un'importante forma di comunicazione?  

Penso di non essermene mai accorta davvero, in piena sincerità. Si respira da quando si nasce, ma non ci si fa caso. È solo qualcosa di naturale. Per me, comunicare, ha lo stesso principio: il suo processo avviene, e basta. È il primum movens della mia persona, senza con questo voler scomodare Aristotele et similia. Il farlo (anche) sotto forma di testo in versi, forse necessita di un approfondimento ulteriore. Da questo punto di vista, credo si possa tirare in ballo la mia passione per la musica. Nata sia per indole personale, sia per studio. In particolare son cresciuta a “pane e prog”: da quando ero piccolina, ne ho assorbito in varie forme i tempi dispari e le tecniche raffinate di esecuzione. Chiaramente, non solo del progressive; coltivo sempre certosinamente l’approfondimento di realtà musicali a me già note, tanto quanto la scoperta di quelle a me ancora ignote. È un richiamo a cui non ho mai resistito; e in fondo, mi dico, perché avrei dovuto? Da un certo momento in poi, credo sia divenuto semplicemente inevitabile formulare nel pensiero frasi che si unissero a una qualche forma di melodia. Probabilmente, sotto tale ottica, la poesia ben si sposa e (appunto) armonizza con questo. Altra importanza, poi, assume l’aspetto dello scavo etimologico nelle parole: ricordo che mia mamma, sin da tenera età, ha sempre stimolato in me e mio fratello la curiosità di sviscerare cosa significasse cosa e perché. Crescendo, questo esercizio catabatico di perforazione attraverso i vari strati dei termini così come li conosciamo oggi, non ho mai smesso di praticarlo. Ed è un piacere costante di scoperta, soprattutto per la potenza evocativa che ne può risultare di volta in volta.

Che rapporto hai con la poesia?  

Qualcosa di molto molto simile a ciò che ho già scritto nella risposta alla domanda precedente: esercizio, scoperta, messa alla prova della parola nella sua forza evocatrice; vedere fin dove può spingersi l’implicito con la sua capacità di mostrare, invece, esplicitamente. Attraverso il ritmo, la musicalità di termini diversi messi in dialogo tra loro, la loro etimologia. 

E cosa questo può far nascere nell’animo di chi legge.

È un modo, forse, anche per educare un equilibrio tra proiezione e introiezione; per trovare quel punto intermedio che lasci semplicemente la visione in sé – immediata.

Poesia è soprattutto lavorare con la parola, quanto conta ancora la parola in questo periodo storico nel suo massimo abuso telematico? 

La parola, a oggi, conta moltissimo. Ma forse nel modo sbagliato. Se ne abusa, sì, per attirare un’attenzione finalizzata al consumo: la si è fatta schiava di un sistema capitalistico e tendente sempre più alla mercificazione. La parola dunque si piega all’uso e all’utilità. Lavoro maneggiando linguaggi di marketing e comunicazione: nella mia testa e sulla mia lingua girano costantemente termini come SEOkeywordsvisibilitàattraversoparolechiaveottimizzazionediricercaetcetcetc. Personalmente lo trovo molto affascinante, non lo nego. Ma mi rendo conto di quanto le parole divengano sempre più uno strumento rivolto al profitto. In qualsiasi ambito, da quello della politica mondiale a un post sui social. In parte ancora ci salviamo, però. Io mi voglio concentrare lì.

Come può la parola umana competere o interagire con la parola dell'intelligenza artificiale? 

Parto dal presupposto che ho sempre pensato (ma change my mind) che l’essere umano non vada incontro a un progresso, quanto più a una complicazione. L’AI trovo sia qualcosa di rilevante e rivelante a ogni livello; di certo spaventa (mi viene in mente il mostro di Frankenstein: creato da qualcuno senza che lui potesse saperlo o volerlo, gettato nel mondo e poi ripudiato perché spaventoso e ritenuto pericoloso dal suo stesso artefice) per le implicazioni che può avere nella sostituzione a molte figure che ricoprono ruoli nel mondo del lavoro, ma credo sia invece importante capirla. Indagare che sorta di spunti può darci, a che tipo di nuovi fronti può condurci. È un modo per interagire con qualcosa di totalmente distante da noi – in quanto esseri umani in “dialogo” con una voce artificiale – ma da noi creata. Già questo punto di vista suscita in me diverse riflessioni che partono sicuramente dalla fascinazione per i paradossi o giù di lì. E, oltre all’interazione, soprattutto penso possa essere un’integrazione importante per qualcosa che ancora non conosciamo; ancora non abbiamo capito né visto. Ma arriverà. Bisognerà di certo porre attenzione a quella tipica inclinazione all’onnipotenza che è insita negli esseri umani; credo che non cedendo a quest’ultima, il rapporto con l’AI potrà portare migliorie non indifferenti.

Qual è la tua opera in cui ti riconosci di più? Ce ne vuoi parlare?  

La fase più bella della scrittura, per me, è quella in cui la parola esce da me. Non è più mia, non sono più io. È chiunque e di chiunque arrivi a leggerla. Con questa breve premessa voglio dire che non mi riconosco in alcuna mia opera. Riconosco l’opera in sé: ne conosco la storia, l’ho seguita, accompagnata – per ovvie ragioni. Ma non ci sono più io lì una volta che defluisce dalla fonte. Incontra gusti, stati d’animo, luci sul foglio o luminosità diverse su un desktop. Toni caldi toni freddi di una carta su cui viene stampata o dello schermo dello smartphone su cui viene letta. Io queste cose le immagino spesso: chissà cosa dove quando perché. È potente la libertà che riconosco a una creazione, e la voglio pienamente rispettare. Per non lasciare irresoluta la risposta posso dire che tengo molto a Derma, la mia ultima raccolta edita da Arcipelago Itaca Edizioni (2025): è un percorso che porto avanti da anni, iniziato nel 2018. Partì con una mail inviata a Giulio Mozzi, scrittore e intellettuale da me da sempre fortemente stimato. Proseguì poi sull’onda di letture e conoscenze e dialoghi con autori/autrici che poi son divenut* amic* car*, o che lo erano già. Raccoglie suggestioni musicali (appunto), cinematografiche, letterarie. E la vita, certo. Lo chiamo tra me e me itinerario di carne proprio perché traccia una mappa di quella che è la trasformazione di un corpo. Di come l’abbiano seguita i miei occhi. È stato un lavoro lungo, paziente, di profondo ascolto. E adesso è nel mondo, e al mondo appartiene. 


La Poesia può ancora comunicare alle nuove generazioni? 

Dal (molto basso) dei miei ventisette anni, penso proprio che non ci sia età per comunicare con la poesia. E che una luce rimarrà sempre accesa, senza doverci preoccupare di pagarne la bolletta.





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