domenica 30 ottobre 2022

La mia intervista ad Andrea Pomella

La depressione, la musica, la scrittura (2019)


Vorrei partire dal tuo ultimo libro “L’uomo che trema” che tratta una tematica delicata e complessa come quella della depressione. Quali sono le dinamiche mentali che ti hanno portato a sviluppare tale tematica? Quanto c’è di autobiografico? 

Ho affrontato il tema della depressione perché sono uno scrittore che pratica il genere dell’autobiografia, e ho capito solo recentemente che la mia vita non può essere disgiunta da questa malattia di cui soffro da sempre. Il libro tecnicamente è un memoriale. Tra le varie definizioni di memoriale la Treccani ne elenca una che mi piace più di tutte: “Scritto col quale s’invoca una grazia”.

Sia in “Anni luce” che in “L’uomo che trema”, in tutti i tuoi romanzi si parla molto di musica, anche quest’ultimo che sembra non avere legami invece poi si addentra nell’universo musicale. Fa pensare ad un tuo rapporto viscerale… cosa ci puoi dire in merito? 

Le fasi della mia vita da sempre sono scandite dall’ascolto di questo o di quell’album, li chiamo i miei cuori artificiali. L’ultimo di questi è stato Either/Or di Elliott Smith, un disco che mi ha aiutato molto a guardarmi dentro in un momento difficile, che è entrato a far parte in tutto e per tutto della mia terapia antidepressiva. La musica è l’esperienza artistica che più mi ha condizionato nel corso del tempo e nelle varie età che ho fin qui attraversato. Ha condizionato i miei comportamenti, il mio atteggiamento nei confronti del mondo, lo spirito con cui mi relaziono con gli altri. La musica è un luogo sicuro a cui so che posso tornare in qualsiasi momento e quando ne ho voglia.

La musica influenza anche il tuo linguaggio? 

Come tutte le cose a cui dedico la mia attenzione, che accolgo dentro di me, a cui faccio spazio, a cui concedo di toccare le mie corde più intime e sensibili. In questo senso non credo che influenzi solo il mio linguaggio, ma molto di più. 

Quanto di più? Quando si trattano certi argomenti così in profondità si possono toccare le corde anche della spiritualità. Che rapporto hai con la religiosità o con Dio?

Non sono credente, ma fin dalla prima infanzia ho avuto una fascinazione per la figura dell’uomo sulla croce. Uno dei miei giochi preferiti da bambino era mettere in scena la passione di Cristo, simulare coi miei giocattoli la scena del Golgota. Così Big Jim diventava un Cristo muscoloso che affrontava la morte con un sorriso ebete. Anche adesso quando osservo un crocifisso la prima reazione che provo è una sorta di trepidazione ludica.

Mi sembra che esista un Gesù Cristo della Mattel, se non esiste dovrebbero inventarlo. A proposito di linguaggio. Ci sono molte situazioni esemplari in cui ti addentri nella descrizione del particolare per trarne delle riflessioni universali sull’esistenza. Anche questo fa parte di una certa musicalità? Che legame hai con la parola, soprattutto in relazione a questi tempi moderni in cui il linguaggio è come impazzito? 

Se esiste un concetto di patria in cui mi riconosco, inteso come catalogo di fatti e relazioni che costituiscono un’identità condivisa, questo è legato alla parola, alla lingua in cui mi esprimo, e solo a quella. La violenza il più delle volte si manifesta quando manca la capacità di esprimersi a parole, è una reazione a uno stato di frustrazione. Viviamo tempi in cui la parola scritta è tornata al centro delle relazioni umane, pensiamo a quanto ne facciamo uso ogni giorno districandoci tra telefoni, computer e tablet. Ma ci manca la destrezza nell’uso delle parole, siamo disabituati al loro valore, e perciò le nostre interlocuzioni traboccano d’odio. Una vera civiltà fondata sulla parola è una civiltà di pace.

Dal mio punto di vista tu riesci perfettamente a fondare la Civiltà della pace sulla Parola. Quando ti sei accorto che scrivere era il tuo principale strumento di comunicazione?

Quando mi sono reso conto che per una forma psicanalitica di rifiuto c’erano alcune parole che non riuscivo a pronunciare ad alta voce. Per esempio il mio nome. Perciò non mi restava che l’ambito silenzioso della parola scritta.

Nell'ambito silenzioso trovi il tuo respiro profondo, probabilmente. Certe tue descrizioni ambientali sembrano lunghe particolareggiate passeggiate tra le strade di Roma. Quanto contano i luoghi nella tua scrittura? E l’influenza della periferia? 

La forma di scrittura che preferisco è il reportage, per molto tempo ho fatto passeggiate per le vie di Roma cercando di narrare l’esperienza prima ancora della storia. La scrittura è in gran parte un esercizio di divagazione, ha molto a che fare con il camminare, soprattutto col camminare senza meta. Camminare e scrivere sono due attività che hanno molto in comune. Quanto alla periferia, più che un’influenza è un’ossessione. Ancor oggi quasi ogni notte sogno le vie della borgata in cui sono cresciuto, e non potrebbe essere diversamente essendo quella borgata il microcosmo in cui si sono formate le connessioni più intime che governano la mia mente. Vale come il primo volto a cui siamo stati esposti, il primo latte, la prima voce.

Tutto ciò ha fatto di te quello che sei oggi, uno scrittore con parecchie pubblicazioni all'attivo. Ma quanto vale la pubblicazione cartacea in questo momento storico? Che rapporto hai con la materia carta? 

Non gli attribuisco alcun valore, non mi appassiona il dibattito intorno alla forma del libro. Sono più sensibile ai contenuti.

Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere questa strada? 

Ciò che è saggio dire prima di intraprendere qualsiasi strada che si prevede di una certa lunghezza: indossare scarpe comode.

In seguito sono uscite altre sue pubblicazioni:
I colpevoli (Einaudi)
Il dio disarmato (Einaudi)

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