Le radici del prog (2018)

Ciao Michele, il tuo strumento è il pianoforte e leggende narrano della tua formazione avvenuta sotto la guida di Giuseppe Peirolo, compositore di musica sacra… ma quando è avvenuta la decisione di dedicarti al pianoforte, quando è scoccata la scintilla per lo strumento e per la musica?
È probabilmente vero che ogni persona ha le proprie attitudini; infatti mia mamma mi racconta che non camminavo ancora e già passavo il mio tempo cercando suoni da strumenti giocattoli o tutto quello che mi capitava a tiro; però il vero inizio dello studio della musica è venuto grazie sempre ai miei genitori che mi iscrissero da bambino al Conservatorio; quindi per fortuna mi tolsi dalle scatole molto presto gli anni meno appassionanti della teoria e del solfeggio. Durante questi anni ho avuto la fortuna di incontrare un paio di insegnanti che oltre alla tecnica mi hanno trasmesso il pensiero che la musica non è solo lo spartito scritto ma che esiste in quanto espressione dell’anima…Questa libertà di fronte alla tastiera ha probabilmente facilitato la mia vena compositiva. In particolare sono stati importanti gli anni passati a girare le pagine durante i concerti di organo del mio maestro Giuseppe Peirolo.
Quanto ti ha dato la conoscenza della musica sacra nel tuo stile compositivo?
Accanto a partiture un po’ noiose ho potuto conoscere della musica fantastica… Non so se hai mai provato a entrare in una chiesa con l’organo a canne al massimo, con i registri principali che ti sparano una musica che ti avvolge in modo totale… ti senti veramente in un altro mondo… E inaspettatamente le stesse sensazioni le provai da lì a poco durante un concerto rock… Ti racconto che durante l’estate i miei genitori mollavano me e mia sorella in un campeggio di Albenga per un paio di mesi e una sera col gruppo di amici decidemmo di andare a vedere il concerto di un complesso allora sconosciuto: era il primo tour italiano dei Genesis. Nonostante il palasport forse veramente piccolo ti assicuro che era praticamente vuoto e, a dir tanto, ci saranno stati 300 ragazzi. Beh io ero praticamente seduto per terra con davanti a pochi metri Peter Gabriel che cantava… in pratica di fronte avevo una parte della storia della musica moderna senza saperlo… Credo che sia nato lì l’amore per quel genere che molti anni dopo sarebbe stato nominato come rock progressive. Ritrovai il modo di suonare di Tony Banks alle tastiere non lontano dai classici del Conservatorio; addirittura la pedaliera dei bassi suonata da Michael Rutheford aveva la stessa profondità dell’organo a canne, il tutto però in una sonorità nuova, potente, con suoni distorti che noi ragazzi sentivamo molto vicina… Di lì a poco nella mia città vidi suonare una band che si chiamava Locanda delle Fate e che faceva cover nei vari locali.
È così che sei entrato nella band La Locanda Delle Fate che però ancora non produceva brani originali. Con il tuo ingresso invece è arrivata la svolta, anche se avevi soltanto diciassette anni… come è nata la sintonia con gli altri musicisti che vi ha fatto pensare che potevate dare questo contributo alla musica italiana?
Quei ragazzi con qualche anno in più di me, cercavano un pianista e mi convinsero a provare con loro; nello stesso periodo entrarono anche i chitarristi Ezio Vevey e Alberto Gaviglio. Noi tre convincemmo gli altri a fare musica nostra e dopo circa un anno di prove nacque “Forse le lucciole non si amano più”. In quel periodo la sintonia tra di noi era totale e veramente magica; ci si capiva al volo e i brani musicali si sviluppavano velocemente uno dietro l’altro. Eravamo gasati perché ci rendevano conto man mano che stava nascendo una musica sopra le righe, almeno rispetto a quello che si sentiva in giro. Ma mai più avremmo immaginato che quei brani sarebbero stati apprezzati per cosi tanto tempo…
Eterno direi. La Storia ci insegna, infatti, che questo album è considerato un capolavoro assoluto del genere e vi ha elevato a protagonisti della scena musicale progressive… Dopo anni di difficoltà assoluta del genere progressive e di tuo esilio volontario sei tornato in Studio per registrare l’album “Endless Nights”, e dal primo singolo estratto, È Nell'Aria, il sound sembra comunque appartenere al progressive. Ci puoi dire qualcosa in più?
Purtroppo i momenti magici non durano per sempre… Penso perché il tempo fa evolvere ogni persona in modo differente dall’altra. Ricordo tempo fa di aver letto un’intervista di George Harrison che alla fine diceva: “every band lives for a time”, e secondo me le eccezioni che esistono sono proprio quelle che confermano la regola (leggi Rolling Stones e pochissimi altri). Se ti parlo di tempi più recenti partirei dal nostro vecchio manager Niko Papathanassiou, fratello del grande Vangelis. Da anni era ritornato a vivere in Grecia si può dire “da pensionato” però ritornava in Italia un paio di volte all’anno a trovare le sue figlie a Milano e in quelle occasioni era solito prendere il treno e venire a trovarmi per passare qualche ora a parlare di musica e ad ascoltare le mie nuove idee e questo penso lo facesse ringiovanire di un bel po’ di anni… In definitiva è stato lui a convincermi a cercare altri musicisti per concretizzare quelle idee e magari buttarmi in un progetto discografico. Io che venivo dall’era analogica avevo bisogno di acquisire anche nozioni di quella cosiddetta digitale e un negozio di musica mi segnalò un insegnante di computer music e tecnico del suono che rispondeva al nome di Simone Lampedone. Si appassionò subito al mio progetto e gli arrangiamenti dei brani sono stati realizzati praticamente a quattro mani con una bella Intesa… Questo è un vero e proprio LP perché uscirà in vinile ma anche in cd e contiene 7 brani. Non so dirti se sia vero progressive. Certamente ho mantenuto la mia libertà di scrittura lasciando libera la fantasia (ma non i barocchismi o testi aulici tipici degli anni 70). Riflette il nostro tempo che scorre veloce, un po’ nevrotico ma anche con momenti riflessivi e serenità.
Quindi c’è un legame con il passato perché Niko Papathanassiou è anche il produttore di “Forse le lucciole non si amano più” e c’è anche un ponte verso il futuro prossimo grazie a Simone Lampedone e gli altri musicisti. Si sente un feeling eccezionale con Gavin Harrison ed Ermanno Brignolo, ci vuoi raccontare qualcosa di questa sintonia?
Le chitarre del primo pezzo sono di Max Arminchiardi, grande rocchettaro Torinese che però ha subito lasciato il progetto per motivi personali. La ricerca di un secondo chitarrista non è stata facile. Di Ermanno Brignolo mi colpì soprattutto il fatto che passasse con incredibile facilità da suonare Segovia con la chitarra classica al rock più duro. Con molta pazienza all’inizio ha cercato la chiave per entrare nel cuore della mia musica finché dopo qualche mese le emozioni sono cominciate ad arrivare alla grande. Sicuramente l’incontro con Gavin Harrison ha dato al progetto una marcia in più… Infatti è da molti considerato tra i più bravi batteristi al mondo. Mi disse: fammi sentire il materiale, poi ti faccio sapere se rientra nelle mie corde. Infatti nell’ambiente si sa che lui suona solo la musica che gli va a genio e devo confidarti che ad esempio un mio brano che non lo ispirava, abbiamo preferito accantonarlo. Spenderei anche una parola per gli Abbey Road. Al di fuori appaiono mitici, quando li frequenti non puoi fare a meno di farti degli amici: In due parole competenza abbinata a disponibilità nel capire il musicista: qualità che non sempre trovi nelle altre sale di registrazione.
Per concludere vorrei chiederti se per te questo disco ha dei significati particolari… È Nell’Aria è un titolo terribilmente evocativo, cosa vuol dire per te? Forse un nuovo inizio?
Endless Nights è il secondo brano ma dà il titolo a tutto il lavoro; esprime il bisogno di rubare qualche ora alla notte soprattutto per lasciar correre il pensiero nel silenzio… È Nell’Aria evoca sicuramente il futuro e l’imminente presente. Quindi anche quello che sta per succedere, a volte lo puoi percepire a volte purtroppo no, come è successo per le torri gemelle, e… se ti metti sotto la Freedom Tower, con accanto a te la stazione Oculus a forma di ali di Colomba, e guardi in alto verso la cima del grattacielo, ti senti infinitamente piccolo e non può non venirti nell’anima il pensiero dell’infinito, dell’aldilà, di tutto quello che c’è oltre alla nostra quotidianità… lì intorno non c’è il silenzio, perché sei in centro a New York, però percepisci che è un’atmosfera molto particolare che non può farti non riflettere…
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