domenica 20 novembre 2022

La mia intervista a Monica Matticoli

Una regina in ascolto (2019)



Hai all’attivo già diverse produzioni e proficue collaborazioni con tanti artisti ma io vorrei partire dall’ultima pubblicazione (per Oèdipus Edizioni, 2017), «L’irripetibile cercare» un libro che contiene anche un disco, «L’essenza dell’io», perché mi sembra che sia un po’ il compendio della tua ricerca poetica. Riesce a fondere armonicamente Poesia, Musica, Immagine, e vede la collaborazione di Miro Sassolini con la sua voce e la partecipazione di Marco Olivotto agli arrangiamenti. Per cominciare a chiederti qualcosa vorrei iniziare dal punto di vista della poesia. Da quello che ho avuto la possibilità di leggere sbirciando nella tua produzione ho avuto la sensazione di un approccio molto legato alla materia, anche se poi è la descrizione di un’emozionalità molto profonda. La ricerca della parola mi sembra legata ad una realtà molto potente. Ecco, la parola. Cos’è per te?  

Per me la parola è lo scenario dove convochiamo gli altri e le altre in una relazione: è possibilità di trasformazione, di evoluzione. Mediante la parola diamo un corpo all’immagine, che sta prima della parola stessa, cerchiamo di portarla nel mondo, di mettere in condivisione esperienze differenti. Le parole arrivano fino a noi con una storia e con una vita (sfumature sonore, ritmiche, semantiche, dismissioni di senso e riconfigurazioni): pertanto, le parole non sono nostre ma lo diventano nel momento in cui scegliamo quelle e non altre e in quel preciso istante ce ne assumiamo la responsabilità poiché le incarniamo in voce, in corpo, in gesto: in chi siamo, insomma, e nella qualità delle relazioni cui diamo impulso – e le due cose, a mio parere, non sono separabili. Responsabilità. Ecco: per me la parola è il luogo della formazione delle responsabilità individuali e sociali e, di conseguenza, delle identità. La parola dice al mondo chi siamo e, dicendolo, lo informa di noi.

Lo informa di noi, appunto. Quando ti sei accorta che era la tua forma principale di informazione? E, ovviamente, per informare bisogna prima formarsi. Quali sono i tuoi punti di riferimento letterari o di altro tipo?

Diciamo che la parola per me è sempre stata zona di ricerca nel senso che ho impiegato una vita intera (e quel che mi resta non basterà a completare il processo) a trovarne una che potesse “dirmi”. Fondamentali e imprescindibili sono state le relazioni con le donne ovvero il luogo dove ho fondato la mia identità e mi sono rimessa al mondo: di conseguenza, ho dato gambe alla mia scrittura perché entrasse nel mondo separata da me, come ogni altra creatura fa. E poi le madri simboliche: Luce Irigaray, Adriana Cavarero e, in letteratura, Christa Wolf, Amelia Rosselli, Anne Sexton. A scuola e all’università invece ho studiato prevalentemente autori maschi: Federigo Tozzi, Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale li ho particolarmente amati insieme alla lirica trobadorica; quest’ultima mi affascinò così tanto che abbandonai la letteratura contemporanea per laurearmi in filologia romanza. Attorno ai 17-18 anni mi piaceva leggere poesia inglese, T.S. Eliot e W.B. Yates in cima alla lista, ma anche Italo Svevo. In tempi più recenti sono stata folgorata da «Moby Dick» nella traduzione di Cesare Pavese e da Dylan Thomas, con cui sto cercando un dialogo in traduzione (uno dei miei progetti futuri con Miro: chissà!).

Hai citato autori che toccano le tematiche più disparate. Quali sono, invece, le tematiche principali della tua poetica, affrontate in questa pubblicazione? 

Il rapporto fra uomo e donna. La mia scrittura esiste solo quando convoca sulla scena un “tu” e questo “tu” è un uomo. Attenzione però: la mia non vuole essere una poesia sull’Amore ma vuole essere una poesia della Storia poiché interroga la storicizzazione delle differenze fra maschile e femminile. «Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell'umanità», scriveva Carla Lonzi: io cerco di portare nella scrittura l’esperienza della differenza di base che attraversa l’umanità e su cui ogni altra differenza si costruisce. Questa è la tematica sulla quale ruotano tutte le altre, in primis il passare del Tempo, che è vita ed è storia ed è conquista ma anche perdita, trasformazione. Il tutto, da giocarsi sempre dal punto di vista della dinamica io-tu e mai dell’io e basta. Il mio “io poetico”, rigorosamente minuscolo, esiste solo perché esiste un “tu” con cui tenta di stabilire un rapporto e un dialogo e allora sono ossa e materia e consonanti, come a voler costruire una lingua nella lingua in cui sfiorarsi diventi impresa possibile.

Un dialogo, quindi, anche interiore. Ho sempre pensato, come tanti altri autori, che la parola parte dall’interiorità in un modo, poi lentamente si trasforma, imbattendosi nell’orecchio di un potenziale ascoltatore che lo assorbe e poi lo riemette. Quando la parola diventa suono? E come si trasforma il suono nel corso del suo viaggio secondo te? 

La parola non diventa suono: essa è suono, altrimenti è muto segno grafico. Ed è suono perché c’è qualcuno che la dice e qualcuno che l’ascolta e che, ascoltandola, risponde (“rispondere”: stessa radice di “responsabilità”), altrimenti non esiste. Poi, andando da me a te, una parola cambia lunghezza, timbro, intensità: si colora di paraverbale, di intenzione, di storia personale e collettiva. Più che la parola, è importante la voce: senza di essa, la parola resta lettera morta. C’è un libro bellissimo di Adriana Cavarero che si intitola «A più voci. Filosofia dell’espressione vocale», che si apre così: «Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci». La frase è di Italo Calvino e sta in un racconto che si intitola «Un re in ascolto» e che è la rielaborazione di un libretto redatto per un lavoro del teatro musicale di Luciano Berio che porta lo stesso titolo. Il re ascolta e ascoltando si rende conto che il senso di una voce è farsi ascoltare; l’ascolto convoca necessariamente la voce di chi ascolta nella relazione: pertanto, egli finalmente risponde. Significativo, dice Cavarero, è che in Calvino la voce che il re ascolta sia voce di donna: una voce di donna che canta e cui lui risponderà cantando. Credo che questo discorso sia in relazione con quello che facevo prima sulla ricerca della parola per “dirsi” e su quello che cerco di fare a proposito della relazione fra maschile e femminile nella mia scrittura. Come vedi, tutto torna. Tra l’altro, con Miro abbiamo fatto una sperimentazione che si intitola «L’attesa del canto» e che è stata ispirata proprio da questo lavoro di Calvino e Berio di cui parla Adriana Cavarero. 

Hai citato Miro, cioè il noto Miro Sassolini, voce storica della band Diaframma. Come è nata la collaborazione con Miro Sassolini?

La collaborazione fra me e Miro è stata la naturale conseguenza del nostro incontro avvenuto alla fine del 2009 su un social network. Da ragazzina, quando ascoltavo la new-wave, amavo particolarmente la voce di Miro e fantasticavo su come sarebbe stato se avesse cantato le mie parole. Così, nonostante fossero passati vent’anni da allora, gli regalai «Venti lucenti unghie», il mio primo libro di poesie scritto insieme a Valentina Tinacci e uscito proprio in quei giorni: mi disse che era un lavoro molto musicale pur non essendo stato scritto per la musica, che la lingua suonava in zone che lo incuriosivano e quasi forzavano al canto e che gli sarebbe piaciuto dargli forma melodica (ed è quel che è successo qualche anno dopo con un paio di poesie che sono ne «L’essenza dell’io»). Miro non ha semplicemente dato voce alle mie parole ma ha accettato la sfida di costruire con me un corpo, che chiamiamo “corpo parola-voce”, in cui non è interprete dei testi ma attore con me di un processo di significazione della parola in un possibile suono ascoltabile da altri e da altre: come se una parola cominciasse a vivere, e il suo messaggio si riempisse di senso, quando una voce la rende melodia, canto, e la porta nel mondo. Ecco perché «Un re in ascolto» ci ha folgorati.

Quanto è importante la musicalità della parola e quella dei versi?

Bisogna innanzitutto intendersi su cosa significhi musicalità. In poesia per esempio mi vengono in mentre tre autori: Dino Campana, Eugenio Montale, Amelia Rosselli. Dino Campana è il poeta musicale per eccellenza: è così dannatamente musicale che molti musicisti si sono confrontati con la sua scrittura portandola in canzone; fra questi, anche io e Miro: insieme a Carmine Torchia abbiamo infatti realizzato per la scorsa edizione dell’Estate Fiorentina il reading-concerto «Verso l’inquieto mare notturno», che è stato molto apprezzato. Campana era convinto che la poesia dovesse essere letta ad alta voce e dunque la sua scrittura contiene la vocalità nella sua stessa costruzione, non solo nei riferimenti testuali e tematici. La poesia di Eugenio Montale è ricchissima di contenuti e riferimenti musicali. Studiò canto lirico e fu critico musicale e il filo rosso della musica accompagnò sempre la sua ricerca fino ad affermare che ad una musica, quella dei versi, non possa essere sovrapposta una seconda musica a meno che questi non siano «brutti». Eppure, in uno spettacolo che portiamo in scena con la CIPM abbiamo ibridato la lettura di una sua poesia molto nota con la metrica musicale di un famoso tango e il risultato è interessantissimo. La poesia di Amelia Rosselli ha una metrica influenzata da musica e matematica: lei stessa dice: «(…) non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema.». Ho letto un articolo molto interessante in cui l’autrice, Debora Riccetti, confronta la tessitura fonica dei versi di Rosselli con la musica elettronica d’avanguardia e con la ricerca di Cage e Berio. Lo sperimentalismo linguistico di Rosselli richiama il principio fisico secondo cui ogni suono è rumore poiché il materiale che costituisce entrambi è lo stesso. Ecco, credo che nella composizione poetica la musicalità sia indipendente dalle dichiarazioni programmatiche, dai riferimenti e dai temi trattati ma coincida con la prosodia, il ritmo, la metrica, l’uso di figure di suono, la scelta di quella parola e non di un’altra perché “suona” meglio: se tutto ciò manca, non stiamo leggendo poesia ma prosa.

Quando il suono della parola può diventare canto come fa Miro Sassolini con le tue poesie? E quanto contano la musica e le immagini?

Secondo Miro si può cantare ogni cosa, anche la lista della spesa: tutto dipende dal fatto che si abbia o meno voglia di farlo. Con la mia scrittura adotta questa tecnica: legge diverse volte e in giorni e con stati d’animo mutati i testi; li legge in silenzio, a voce alta, li urla sussurra spezza ricompone ne cambia gli accenti; cerca essenzialmente l’immagine che il testo, diventando suono, gli crea nella mente e così l’asseconda, si mette in ascolto e in risonanza; da un certo punto in poi, il suo “dire” non è più parlare ma la materia sonora delle parole si fa melodia, diventa canto. La musica arriva dopo (o insieme, se si intende la voce umana come il primo degli strumenti musicali): in dialogo con la voce che porta su sé la parola e la rende canto.

Quali sono le motivazioni di tale sperimentazione?

Credo che sperimentare ovvero fare cose nuove, confrontarsi, fallire, fallire ancora, fallire meglio (per dirla con Beckett), reinventare, sia l’essenza della vita. È la curiosità che, tra le altre cose, ci tiene in vita e ci fa amare questo lavoro: la sua fragilità, la sua dirompenza, la sua incomparabile umanità.

Non è l’unica collaborazione poi, tra l’altro. Ci vuoi parlare delle tue altre e degli altri progetti? 

Una creatura che mi sta molto a cuore è la CIPM Compagnia Indipendente di Poesia e Musica. Il gruppo è una sorta di laboratorio di ricerca: all’attivo abbiamo alcuni spettacoli e abbiamo prodotto sia brani nostri (testo e musica originali) che singolari cover di canzoni famose in cui sostituiamo o alterniamo al testo originale poesie più o meno note. Attenzione però: la musica non diventa semplice sottofondo ma c’è un richiamo di immagine, un incontro di metrica, di ritmo, di prosodia: non snaturiamo la forma-poesia e nemmeno la forma-canzone ma tentiamo di metterle in relazione per costruire qualcosa che non esisteva.

Cosa speri possa arrivare a chi si avvicina alla sperimentazione di «L’essenza dell’io»

L’eco di qualche immagine, un’emozione, un pensiero. Il senso di un lavoro dannatamente artigianale nel mondo delle tecnologie digitali; la fatica e la bellezza della ricerca; il confronto fra persone che scelgono di lavorare ad uno stesso progetto senza altra finalità che non sia terminarlo sapendo che la parola “fine” non verrà comunque messa. Il senso profondo del rispetto, della stima, del volersi bene. La conferma che le cose a volte si fanno solo per la gioia di farle e che l’aiuto di amici e amiche arriva da territori sconosciuti e sorprende sempre perché l’amicizia è innanzitutto non sapere cosa una persona farebbe per noi. Così incominciano i grandi viaggi: indipendentemente dalle rotte che si seguono e da quanto sarà importante la scoperta che si farà. Quel che conta è consegnare al mondo una nuova scelta di libertà intesa non come prodotto finito ma come processo e un processo può durare, per dirla con Dylan Thomas, «per quanto è lungo il sempre», poiché la libertà è la forma più alta di responsabilità e ci convoca tutti e tutte sullo scenario del mondo e nella storia. In fondo, compito della ricerca artistica è agevolare un cambio di prospettiva volto alla creazione di nuove connessioni e ad una riconfigurazione di significati e sensi, con lo scopo di instradarci sulla via dell’autenticità, della trasformazione di noi stessi e delle nostre vite e, si spera, di quel pezzo di mondo che presidiamo. «L’essenza dell’io» è, tra le mie co-produzioni, quella che amo di più perché è un disco meravigliosamente imperfetto, inutile (non ha nessuna “utilità” in senso moderno), a tratti inascoltabile per come siamo abituati ad ascoltare. «L’essenza dell’io» richiede tempo, pazienza, dedizione; va corteggiato e assecondato e per farlo bisogna essere liberi da qualsiasi pre-giudizio poiché è fuori da ogni canone e da ogni sistema. «L’essenza dell’io» assomiglia alla poesia e alla musica dei trovatori: possiamo solamente immaginarne il suono in un dialogo infinito che, nella migliore delle ipotesi, ci permetterà di intravedere, giammai di possedere.


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